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Coscienze permeabili per un mondo connesso
Magazine, AUTOCOSCIENZA – Parte II - Aprile 2024
Tempo di lettura: 16 min
Daniele Brussolo, Elena Fretti

Coscienze permeabili per un mondo connesso

All’intersezione di fenomeni, affetti e tecnica.

Jr Korpa, Unsplash+, 2023.

Le concezioni dell’autocoscienza come prodotto integrativo individuale e narrabile in modo coerente eludono il ruolo di processi liminali all’esperienza, ma che contribuiscono in modo pervasivo a caratterizzarla. Siamo immersi in contesti materiali e sociali che partecipano a questo prodotto, così come la nostra vita mentale è animata da meccanismi fortemente autonomi. Esplorarli ci aiuta a orientarci, e a scoprirci co-orientati. 

Grande catalizzatore di queste tensioni è stata la digitalizzazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, che hanno accompagnato la storia umana come parte del nostro ambiente dando un contributo fondamentale all’attività mentale. Nel 1999, all’interno di Techgnosis, Erik Davis osservava: 

«È molto difficile posare lo sguardo su una pagina scritta in una lingua sconosciuta senza iniziare a leggerla in automatico. […] Dimentichiamo questo mistero per la stessa ragione per cui dimentichiamo che scrivere è una tecnologia. Abbiamo assorbito questa macchina così profondamente nella spugna grigia del nostro cervello che è estremamente difficile capire dove finisce la scrittura e dove inizia la mente vera e propria».11Erik Davis, Technognosis, Nero, Roma, 2023 [1999], p. 44.

La rivoluzione digitale non solo ha reso l’informazione replicabile e trasmissibile fino all’eccesso, ma l’ha inserita in reti di interazioni e rimandi sempre più responsive, mentre le tecnologie per navigare assumono il ruolo di protesi della nostra esperienza e coscienza. A un margine esterno, sede dei rimandi fenomenologici che informano i modi di essere nel mondo, se ne può dunque affiancare uno interno, dove emergono gli affetti con i loro correlati corporei. 

Il fare esperienza del mondo come sua elaborazione da parte del sistema razionale di una mente-computer al quale ricondurre l’essenza dell’individualità non appartiene alla prospettiva fenomenologica, che concepisce la percezione come qualcosa che più che essere costruito “si rende disponibile” all’interno di una rete di significati. I dispositivi digitali con i quali leggiamo questo testo sono resi possibili da una serie di tecnologie e processi produttivi, nell’uso possono disporre di funzionalità a noi diversamente accessibili, sono parte di processi socio-culturali dei quali possiamo essere più o meno consapevoli. In questo incontro, diverso a seconda delle persone, può scaturire la coscienza, ma si evidenzia anche una forma di intenzionalità che la precede, nel suo orientarsi verso qualcosa. L’esperienza di cliccare sullo schermo senza neanche accorgercene, quando magari la nostra attenzione è stata richiamata dall’immagine di anteprima di un articolo, evidenzia la disposizione a un processo mentale e a un’azione, che però non è sempre cosciente.

 

M.C Escher, La torre di Babele, 1928.

 Questo orientarsi verso l’oggetto può essere mosso e sostenuto da processi interni che possiamo definire, in modo ampio e forse impreciso, come “affettivi”. I contenuti sullo schermo possono attivare il nostro corpo e i nostri pensieri in modalità specifiche che riconosciamo come emozioni, possono modulare il nostro umore, ma anche trattenerci nell’attesa di uno stimolo soddisfacente nei nostri interminabili feed

La contemporaneità dell’onlife, digitalmente connessa, intensifica e moltiplica le sollecitazioni in questa duplice direzione, seppur in modalità spesso misconosciute. A caratterizzarla, propongono Floridi et. al. in Onlife Manifesto, non è la sola diffusione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, ma il loro strutturarsi come ambiente mettendo in crisi dualismi come quello tra reale/virtuale e macchina/natura. Possiamo essere coscienti della virtualità di uno stimolo, eppure reale nel suo essere dato e nella risposta anche affettiva che suscita in noi. Ovunque cogliamo affordance, ovvero “inviti all’uso” che suggeriscono e sostengono alcuni processi mediati dalla tecnologia. È il caso della semplice notifica, che con un suono e degli elementi visivi attiva processi cognitivi e affettivi anche al di sotto della consapevolezza. 

La pluralità di esperienze generate da e per l’utenza struttura sistemi di riferimento identitari tanto molteplici quanto potenzialmente singolari, mentre l’interazione con dispositivi e ambienti digitali è affettivamente e intimamente attivante. 

Elementi culturali legati alla comunicazione, alla lettura ed espressione dei propri vissuti, ai codici relazionali, possono arrivare da spazi online sempre più profilati e personalizzabili, a volte sentiti, proprio per questo, in maggior risonanza con il proprio mondo interno e con le proprie motivazioni rispetto ai contesti materiali circostanti. Sosteniamo la possibilità di una lettura di questi fenomeni che vada oltre la disponibilità di informazione, che il digitale ha reso sovrabbondante e accessibile, e che comprenda come questi elementi siano rapidamente suggeriti, integrati e reiterati. Guardiamo a come il poter sentirci parte di una comunità di interessi o di intenti, come nelle varie forme di culture partecipative dal fandom all’attivismo politico, anche quando hanno pochi o nessun referente nel nostro spazio materiale, sia possibile non solo grazie alla nostra ricerca di spazi online dedicati, ma anche grazie ad algoritmi che ripropongono contenuti correlati, aumentandone così la salienza.

Rivendicare una consapevolezza e una interazione “cosciente” attraverso il digitale, quando non “coscienziosa” in senso moralizzante, riflette un proposito probabilmente irraggiungibile ed evidenzia le difficoltà sia individuali che collettive nel concepire il contributo dei processi tecnici alla definizione del sé e dell’altro. 

Proprio la tecnica, come veicolo di facoltà esternalizzate, evidenzia la necessità di una concezione di coscienza aperta ai contributi di reti sia analogiche che digitali, a substrati contestuali e biologici, più permeabile che autoriferita.

La coscienza è uno degli elementi più valorizzati dell’esperienza umana, ma la sua definizione è complessa e sfuggente: la concepiamo spesso come emergente da un gamma di facoltà (come la consapevolezza, la capacità di esercitare vigilanza e attenzione, e di riflettere sulla propria storia a sostegno di una identità relativamente coerente), ma a esse irriducibile. Attribuiamo particolare importanza all’autocoscienza, non come semplice “coscienza di sé”, ma come possibilità di concepirsi come soggettività. Comportamenti che di ciò sarebbero l’espressione negli animali non umani suscitano in noi grande entusiasmo, così come anche solo l’ipotizzarla in entità non organiche è accompagnata da un misto di fascinazione e angoscia, forse non a caso alla base di molta fantascienza. 

R. Magritte, La condizione umana, 1933.

Eppure, abbondano gli enti, sia naturali che artificiali, che elaborano informazioni e agiscono con successo senza (auto)coscienza, considerando il senso di uso comune e antropocentrico del termine: dalle colonie di insetti sociali fino agli agenti conversazionali delle Intelligenze Artificiali. La pretesa eccezionalità umana della coscienza è legata alle attribuzioni di valore a quelli che consideriamo essere prodotti della stessa: dall’azione pianificata, corretta e perseverante (la “coscienziosità”) alla condotta morale (“secondo coscienza”). Nel senso comune dunque (e non solo) la coscienza è intesa come una facoltà intenta a organizzarsi da sé verso forme di integrazione e coerenza. Più siamo (auto)coscienti, consapevoli e riflessivi, più sembriamo esercitare le nostre facoltà umane e permettiamo a esse di guidare le nostre azioni con attribuzioni positive, mentre connotiamo negativamente la non-coscienza, l’inconsapevole, il non riflessivo. 

Concepire la coscienza come vigilanza e attenzione genera il paradosso che la vede come necessariamente non sempre attiva: se elaborassimo consapevolmente ogni stimolo perderemmo lucidità e saremmo perennemente attivati. Allo stesso modo, le capacità riflessive filogeneticamente più recenti spesso subiscono l’interferenza di processi mentali arcaici, e i nostri sforzi tesi al controllo e alla razionalizzazione possono rivelarsi anche controproducenti. Strategie di regolazione dell’ansia spesso utilizzate e consigliate, anche dalla letteratura scientifica, sono l’esercizio fisico e la corsa: l’assecondare il segnale di “fuga” determinato dall’allarme in assenza di reale pericolo consentirebbe comunque di rassicurare l’organismo. Similmente, altre forme di autoregolazione sono, di fatto, un “ingannare” sistemi automatici molto antichi. 

Se la totale e perfetta consapevolezza del contesto esterno e interno è impossibile e fallace, “delegare” parti della nostra coscienza è inevitabile, spesso a sistemi “senza coscienza” il cui contributo diventa spesso evidente solo quando smettono di funzionare. Questi sistemi possono presentarsi sotto forma di prodotti tecnici e culturali che potenziano e guidano le nostre facoltà permettendo di evitare i passaggi intermedi nella ricerca di soluzioni, così facilmente automatizzata. 

Esplorare questi processi liminali, restituendo loro importanza proprio nel valore di de-centralizzazione delle facoltà umane, richiede modelli in grado di rendere conto del loro operare ai margini sia esterni che interni della coscienza. La prospettiva fenomenologica guarda alla natura umana come intrinsecamente coinvolta in un processo di costruzione di senso. Per esempio, secondo Heidegger, l’essere umano non è un “centro di esperienze” che vive nel mondo, in un modo slegato dal mondo stesso, producendo pensieri, emozioni e comportamenti nel contatto con gli stimoli del mondo come due elettrodi. Per la fenomenologia, la soggettività è un prodotto emergente di rete di rimandi che sono già nel mondo. Il soggetto, potremmo dire qui il soggetto cosciente, si muove all’interno di possibilità e orizzonti che lo costituiscono: l’essere fenomenologico è un essere incarnato, che è parte del mondo e si apre a esso. E quindi per la fenomenologia la coscienza assume un valore di richiamo dell’esistente a sé stesso e alla sua stessa cura, che non può scindersi dall’aver cura delle cose e degli altri. 

Parallelamente a questo co-determinarsi con il mondo esterno, il filone delle neuroscienze affettive ha evidenziato come la nostra attività mentale emerga da un sistema nervoso la cui struttura e funzionamento precedono la coscienza in senso stretto. Le ricerche e il dibattito sulla natura e classificazione delle emozioni si sono focalizzate negli ultimi decenni sui sistemi sottostanti di impulsi (come la respirazione, la sessualità, la nutrizione) e segnali (come il dolore, l’eccitazione, la fame) organizzati in sistemi motivazionali a valenza affettiva: la nostra attenzione è focalizzata da un ostacolo riempiendoci di energia, la perdita di qualcosa attiva la ricerca fino alla rassegnazione… solo successivamente daremo loro la connotazione emotiva di rabbia e tristezza. 

L’intensità e l’automatismo di questi processi li rendono spesso riconoscibili solo a posteriori, e al tempo stesso centrali come nucleo autentico del nostro agire. Eppure, spesso nel lavoro clinico incontriamo persone che faticano a integrarne l’esperienza come parte di sé: “Non ero in me in quel momento”, “non sono più io quando mi sento così”. In alcuni casi la consapevolezza della vita affettiva è distorta a favore degli elementi più facilmente monitorabili e oggettificabili, così l’ansia può diventare conseguenza di un mal di stomaco. Un’intera possibile catena di eventi, della quale la persona riconosce solo la singola componente somatica di un prodotto finale, è appiattita così nella logica circolare del malessere fisico, che non solo appare fine a sé stesso, ma esclude anche tutta una serie di possibili rimandi di significato. Particolarmente rilevanti sono poi le esperienze che emergono da configurazioni atipiche, più o meno acquisite, dei processi motivazionali e affettivi, come quelle delle persone neurodivergenti, con disturbi somatici funzionali o con dolore cronico. Si tratta di spettri molto vasti di funzionamento neurocognitivo e affettivo, non però, chiaramente, senza punti di incontro e parziali sovrapposizioni, che incentivano la riconsiderazione qui proposta della concezione della coscienza. Nelle persone neurodivergenti le funzioni come l’attenzione, la lettura delle sensazioni corporee, la percezione degli stimoli operano con modalità peculiari rispetto alla media, contribuendo a modalità di relazione con il mondo e con sé che non sempre rientrano nelle matrici di significato condivise dalla popolazione neurotipica. 

Nelle varie forme di disturbi funzionali, invece, sono proprio quegli impulsi e segnali prima descritti come automatici ad assumere modalità che turbano gli equilibri non solo dell’organismo ma anche del sistema coscienza: processi prima liminali invadono e dominano la consapevolezza, segnali come il dolore perdono il loro tipico ruolo di referenti e diventano oggetto stesso dell’attivazione o segni ai quali vengono attribuiti significati provvisori e difficilmente determinabili. Si tratta di condizioni che tendono a generare fratture epistemiche tra la persona e sé stessa “prima” dell’insorgere dei disturbi, chi la circonda e i sistemi di cura: il corpo è dominato da esperienze estranee e inspiegabili, non condivisibili e invalidate dall’altro, segmentate in visioni frammentarie della natura dei disturbi e dell’aiuto possibile. 

La fenomenologia e le neuroscienze affettive diventano quindi due prospettive che ci restituiscono un’immagine di essere umano cosciente attraverso un co-determinarsi con un mondo, esterno e interno, la cui natura, lontano dall’essere elaborata in modo computazionale da una mente-elaboratore, è incarnata nella coscienza stessa. Un mondo che si espande in spazio (l’esterno) e in tempo (la nostra storia evolutiva), che è in qualche modo insieme parte stessa della nostra coscienza e oggetto di essa. 

Questa co-determinazione lega da sempre i processi umani alla tecnica che, in quanto appropriatezza di un mezzo a un fine (Galimberti, 1999), struttura le nostre modalità di agire interpretare e sentire. Tanto è vero che la nostra consapevolezza della tecnica è solo sussidiaria: tacita e inserita in una globalità, notata solo quando viene meno alla sua funzione. 

La tecnica, specialmente quando esternata e parzialmente automatizzata nella tecnologia, è facilitatrice, guida e datrice di significato alla motivazione. Le possibilità di risposta alla motivazione stessa si ampliano dunque, oltre alla dotazione istintuale o all’apprendimento o all’elaborazione della risposta a uno stimolo. Con la tecnica, a un impulso si lega uno strumento che lo accoglie e direziona, a un affetto una serie di atti e supporti che con esso si sintonizzano e dialogano, a un’emozione modalità più o meno complesse di regolarla ed esprimerla. Pensiamo a come la nostra ricerca mattutina del caffè possa incontrare la frustrazione della sua assenza, e questa possa essere convogliata, smartphone alla mano, nell’indicazione del bar più vicino e la guida verso di esso. 

Non solo i nostri sistemi motivazionali sono interconnessi all’infrastruttura tecnica, ma questa ecologia sembra informare anche i modi in cui descriviamo e leggiamo i nostri processi mentali. L’essere umano della prima psicoanalisi, tra censura superegoica e scarica pulsionale, non è distante da un mondo percorso dal vapore e dal telegrafo. Quando l’elettricità diventa elettronica, l’emergere della società dell’informazione adotta la metafora della mente come computer/elaboratore del cognitivismo classico, e la cibernetica dei modelli sistemici, restituendoci un essere umano come dotato di una coscienza neutra e i cui substrati, sia fisiologici che fenomenici, possiamo dire che trovino uno spazio marginale rispetto ai segnali che li percorrono. 

L’attuale compenetrarsi di processi umani e digitali ha attivato angosce che appaiono legate proprio al loro contrasto a queste concezioni centralizzate della coscienza. Non solo il digitale in una certa ottica “conosce” più e “sa fare meglio” di noi, ma raccoglie e usa informazioni che siamo a malapena consapevoli di produrre per filtrare contenuti, suggerire azioni, strutturare interazioni. Non stupisce l’emergere di discorsi intrisi di fascinazione, dai toni quasi mistici – che contrastano con la loro pretesa razionalità – per la tecnica digitalizzata del momento (i big data, l’Intelligenza Artificiale…) quale referente di un intelletto puro ed elaboratore di informazioni supposte come neutrali, nel suo presunto distacco dai processi umani dai quali i dati vengono astratti. Il parallelo proliferare di appelli alla tutela di facoltà umane, dalle emozioni al ragionamento fino all’attenzione e alla perseveranza, nei confronti di un digitale che le sostituisce e atrofizza sembra altrettanto incapace di pensare alla complessità della continuità umano-macchina. 

Sintomatiche sono le iniziative collettive informate da questa duplice frattura: corse al “detox” e “consapevolezza” digitale (quasi sempre tradotte in astinenza o moderazione), solitamente riferite all’uso dei social, o all’acquisizione di competenze tecniche in un testa a testa con la macchina, salvo poi cadere nel paradosso che quelle stesse competenze, in sintonia con le affordance degli ambienti digitali, rispondono talvolta maggiormente al funzionamento della macchina che a quello umano. 

Adottare le lenti di una coscienza che è permeabile ci permette dunque di rileggere il significato stesso di “consapevolezza”, che della coscienza dovrebbe essere fenomeno emergente. Consapevolezza dunque come un “sentire con”, a partire da orizzonti e valori propri di ogni esistenza. Per esempio la generale raccomandazione di evitare l’utilizzo di schermi a luce blu nelle ore serali non considera le aperture possibili di una chat a tarda notte, dalla sperimentazione alla costruzione di un rapporto in divenire, escludendo di fatto tutto ciò che reclamiamo come strettamente umano della coscienza, come valori e progetti. E rischiando di proporre, come panacea di un qualsiasi disagio che nel digitale trova espressione, una generica e nozionistica “educazione al digitale”. 

T. Margolles, Tela Venezuelana, 2019.

Molta attenzione viene prestata allo schermo e al dispositivo come filtro dell’emozione, fino ai timori di una totale deprivazione. Ma la fenomenologia ci mostra come la comprensione di sé nel mondo (preliminare a qualsiasi atto riflessivo) è sempre emotivamente connotata. E come ha mostrato, tra le altre, Paasonen, esplorando il rapporto tra dispositivi digitali e affetti, anche la nostra vita connessa non può che essere affettivamente carica, anche solo di attese, picchi e tensioni sintonizzati al ritmo di tecnologie con le quali abbiamo un rapporto intimo. L’autrice mostra come il digitale quotidiano sia un’infrastruttura che forma le condizioni della vita di relazione: risonanze circolano e oscillano tra assemblaggi ibridi di utenti, informazioni, oggetti, piattaforme; ben sotto l’articolazione di significato e le attribuzioni cognitive. 

E, aggiungiamo noi, gli ambienti digitali strutturano anche possibilità di definizione identitaria: chi scrive ha trovato nei contenuti online la strutturazione filosofica e politica di idee che la attraversavano da molto tempo, incontrando la possibilità di attribuirsi la definizione di femminista intersezionale ben prima di leggere Angela Davis. O ha sviluppato dall’esperienza di protesizzato un senso di continuità e immediatezza nel rapporto con le piccole grandi estensioni tecnologiche delle nostre capacità. Persone neurodivergenti o con malattie croniche strutturano, nella moltiplicazione di storie condivise su varie piattaforme e supporti tecnici, sistemi di significati irriducibili a criteri clinici codificati, ampliandoli e aprendo a chi di questi temi si occupa in quanto “tecnico” l’affascinante sfida di mantenere accuratezza includendo nella pratica professionale tali ridefinizioni storiche e identitarie. 

Le stesse attivazioni emotive emergono proprio dalle configurazioni di affordance e pratiche: possiamo odiare persone sconosciute oggetto di una shitstorm, provare eco-ansia per dati globali che colgono la crisi di equilibri planetari, difficili da cogliere senza una rete e senza narrazioni che li dotino di significato, in posizioni dall’attivismo con prospettive anche catastrofiche allo sprezzo di chi vede la propria libertà limitata da “eco-nazi”. 

Se i nostri processi mentali sono permeabili alla tecnica, e se le tecnologie digitali la compenetrano, gli appelli all’“uso senza farsi usare” risultano limitati e limitanti. Le culture istituzionalizzate della cura e i loro professionisti hanno generalmente stigmatizzato le contiguità tra coscienza e digitale, riferendola facilmente alle categorie della dipendenza, alla compensazione, dell’uso strettamente strumentale, quando non hanno apertamente alimentato panico morale intorno a essa.

A indicare una direzione può essere nuovamente l’Onlife Manifesto, rilevando un primato dell’interazione rispetto all’identità: piuttosto che definire un confine tra coscienza e protesi tecniche, perché non guardare invece all’articolarsi, anche mutevole, della loro intersezione? Privilegiando dunque le dualità ai dualismi, possiamo riconoscere una gamma crescente di intensità e configurazioni della coscienza. Operare verso il benessere è quindi, più che potenziare delle capacità di auto-determinazione di una coscienza autonoma, coltivare la consapevolezza di una coscienza in grado di riconoscersi diffusa, porosa, percorsa e co-determinata, ma proprio per questo autenticamente in rapporto con la realtà. 

La metafora della coscienza permeabile, anche nella sua inevitabile indeterminatezza, può essere un dispositivo che ci consente di leggere le esperienze in modalità più adeguate non soltanto alla complessità storica e funzionale dell’umano, ma soprattutto di evitare posizioni essenzialiste poco sostenibili in un’epoca in cui la nostra connessione, con le sue conseguenze, è amplificata e onnipresente.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

Autori
  • Daniele Brussolo
    Daniele Brussolo è psicologo psicoterapeuta, con formazione in psicoterapia dinamico-esperienziale. Lavora nell’ambito del dolore cronico con particolare attenzione alla sindrome fibromialgica. È docente al Master di psicologia digitale Horizon-Idego su temi legati al benessere digitale e ai videogiochi. Insieme a Elena Fretti, opera nel contrasto ai divari socio-digitali come Digitabilis – Percorsi di esplorazione digitale.
  • Elena Fretti
    Elena Fretti è psicologa psicoterapeuta, con master in Neuropsicologia Clinica, master in Medicina Psicosomatica, corso di Perfezionamento in Psicologia Perinatale. Dopo essersi occupata di promozione della salute, lavora ora nell’ambito delle neurodivergenze e del supporto alla genitorialità. Insieme a Daniele Brussolo, opera nel contrasto ai divari socio-digitali come Digitabilis – Percorsi di esplorazione digitale.
Bibliography

Erik Davis Techgnosis. Mito magia e misticismo nell’era dell’informazione. Produzioni Nero, 2023.

Luciano Floridi, The Onlife Manifesto: Being human in a hyperconnected era, Springer Nature, 2015. 

Susanna Paasonen, Dependent, distracted, bored: Affective formations in networked media, MIT Press, 2021.

Umberto Galimberti, Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, 1999.

Vincenzo Costa, Heidegger, Scholé, Editrice Morcelliana, 2022.