E. Burtynsky – Oxford Tire Pile #4 – Westley – California (USA) – 1999.
In una recente conferenza, Donna Haraway ripropone un’espressione di Virginia Woolf, «Think we must! We must think!»11Cf. D. Haraway, Anthropocene, Capitalocene, Chthulucene: Staying with the Trouble, conferenza, 5/9/14. Si veda anche D. Haraway, Tentacular Thinking: Anthropocene, Capitalocene, Chthulicene, «e-flux», #75, Sept. 2016.
, per chiedere di osservare le proprie abitudini di pensiero e di linguaggio poiché, velate da un’apparente normalità, sono alla base delle principali discriminazioni di genere e semplificazioni che rendono impossibile pensare il presente. Nel corso della conferenza, la propulsiva spinta che accompagna il discorso di Haraway la condurrà a parlare di Chthulucene, argomento che verrà ripreso nella seconda parte di questo saggio. La riflessione qui presentata comincia invece dall’osservazione, grazie alle analisi di Jason W. Moore, teorico del Capitalocene, delle problematiche sorte dall’avvento dell’Antropocene: un’era geologica ormai accettata dal sentire comune, in cui l’uomo diventa attore principale di cambiamenti irreversibili sulla natura.
«Shut down a coal plant, and you can slow global warming for a day;
shut down the relations that made the coal plant, and you can stop it for good»
(Jason W. Moore)
Aeolipile – Primi esperimenti per la macchina a vapore.
La periodizzazione storica dell’Antropocene vede al suo inizio la progettazione della macchina a vapore. Protagonista della prima rivoluzione industriale (1760-1830), l’invenzione di Newcomen, successivamente perfezionata da Watt, consentì per la prima volta la trasformazione di energia chimica in energia meccanica, un processo che favorì la diffusione del lavoro automatizzato e quindi lo sviluppo dell’industria metallurgica e tessile Occidentale.
Occorre perciò immaginare ingenti quantità di carbon fossile bruciare in enormi calderoni di ferro, uomini quotidianamente impegnati a rinvigorire le braci, coperti di fuliggine. Infine, le ciminiere, un fumo denso che si disperde nell’atmosfera. Tali immagini vengono in mente quando pensiamo a come la prima rivoluzione industriale, da periodo storico nella storiografia Occidentale, sia diventato evento scatenante di una nuova era geologica. L’iniziale stupore nell’immaginare un simile passaggio nella scala di potenza dell’azione umana porta spesso a non considerare le semplificazioni in atto del suo sviluppo teorico. Jason W. Moore, Assistant Professor presso il Dipartimento di Sociologia della Binghamton University, ha sviluppato la sua ricerca a partire da una critica all’Antropocene, l’Età dell’Uomo, proponendo quella che ha definito come «Capitalocene», ovvero l’Età del Capitale.
A differenziare le due letture non è solamente il soggetto protagonista in scena, ma i metodi generali e le complessità di analisi. L’Antropocene pone l’uomo a guida dell’ultimo e radicale cambiamento geologico della natura. L’uomo è un indifferenziato soggetto unico (l’umanità) che ha drasticamente modificato il mondo non-umano; è una nuova forza geofisica che ha provocato mutamenti nelle componenti chimiche che formano l’atmosfera, contribuendo alla crisi climatica contemporanea. L’uomo è Occidentale, e seguendo una coerente linea evolutiva ha inventato nuovi macchinari, capaci di creare un modello di produzione industriale che intensificandosi migliora le sue prestazioni.
Può l’uomo essere descritto come un agente unico? Possono le relazioni presenti tra uomo/natura/società essere risolte nel semplicistico dualismo Uomo/Natura? Queste sono alcune delle domande che Moore pone, individuando due principali problematiche di tipo metodologico: da una parte l’analisi della crisi ambientale è ricondotta (e ristretta) alle conseguenze della sola attività umana, per cui una serie di cambiamenti sono catalogati e ricondotti a un insieme di fattori scatenanti come l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la sovrappopolazione, ecc., riducendo pertanto l’analisi a una semplice lettura di causa-effetto; dall’altra, l’«umanità», intesa come collettività, elimina qualsiasi differenziazione storico-geografica, favorendo un’unicità del soggetto narrante che, oltre a essere sicuramente eurocentrico, omette la questione coloniale e non tiene conto delle complesse forze che formano il tessuto storico.
Animazione che mostra il funzionamento della macchina di Newcomen.
La presentazione dell’uomo come principale agente all’interno dei processi che modificano e plasmano la Terra (geologia) corre il rischio di semplificare l’approccio di indagine storica, considerando l’agency una capacità esclusivamente umana, considerata addirittura come forza collettiva e unitaria. Con la fine della linearità storica moderna e l’ingresso nel presente, si è così dimenticata la rilevanza dell’intreccio di relazioni che intercorrono nel rapporto uomo-in-natura, natura-in-uomo, un rapporto messo in ombra proprio dall’Antropocene poiché, come sottolinea Moore, «the dominant Anthropocene argument obscures the actually existing relations through which women and men make history with the rest of nature: the relation of power, (re)production, and wealth in the web of life»22J. W. Moore, The Capitalocene Part I: On the Nature & Origins of Our Ecological Crisis, 2014 p.4.
. Una simile impostazione teorica dimentica le basi filosofiche che hanno sostenuto finora le teorie ecologiche e ambientaliste.
La riflessione sull’Antropocene nasce infatti in seno a un’importante svolta filosofica, quella del New Materialism e di una concezione olistica della realtà, per cui non esiste più una scissione tra uomo e natura, ma entrambi si co-costituiscono all’interno di una rete di relazioni.33Per un approfondimento in merito C. Molteni, Fuga dal centro: il pensiero ecocentrico e la costruzione di un nuovo paradigma, «KABUL magazine», 20 Sept. 2016.
La storia che racconta l’avvento dell’Antropocene, pur seguendo la sensibilità del pensiero ambientalista degli anni ’70, ripropone senza particolari sottigliezze teoriche un Uomo che agisce sulla materia inerte, senza così distanziarsi dal dualismo cartesiano.
È invece dando rilevanza a tali relazioni che prende forma la riflessione sul Capitalocene. In primo luogo l’analisi di causa-effetto, che predilige un’osservazione sulle conseguenze dell’operato umano sulla natura, è sostituita da un adeguato riguardo alla relazione tra la modernità e la natura, spostando l’attenzione alle relazioni che formano e conducono a tali conseguenze. L’industrializzazione e la deforestazione non sono eventi storici che si manifestano improvvisamente sulla Terra, ma sono processi che si costituiscono all’interno di un preciso flusso storico che Moore fa iniziare nel 1450. Fissare l’inizio del mondo moderno con la nascita della società capitalista dopo il 1450 significa tener conto delle strategie di conquista globale, del processo di mercificazione e delle relazioni tra potere, sapere e capitale che hanno dato forma alle conseguenze prima in esame.
Seguendo l’impostazione materialistica di Marx, Moore propone inoltre di leggere il capitalismo come un «metabolismo», un modo di organizzare la natura e agire al suo interno superando quel dualismo ontologico che la teoria dell’Antropocene ancora non riesce a eliminare: «This means that capital and power – and countless other strategic relations – do not act upon nature, but develop through the web of life. Crises are turning points of world-historical processes – accumulation, imperialism, industralization, and so forth – that are neither social nor environmental in the usual sense, but rather bundles of human and extra-human natures, materially practiced and symbolically enabled».44J. W. Moore, cit., p.11.
Adottando una prospettiva ecologica su scala mondiale, appare necessario costruire un nuovo vocabolario che tenga insieme ‘natura’ e ‘società’ in un singolare dominio ontologico, così da considerare l’attività degli esseri umani simultaneamente produttrice e prodotto di una rete di relazioni.
Dipinto che mostra la «Sugar Revolution» delle Barbados (XVII sec).
Nel concetto di oikeios Moore vede un «modo per spostarsi al di là della retorica narrativa dell’‘ambiente’ (come oggetto) in favore invece del costruire/produrre ambiente (come processo), che mette in mostra la co-produzione di natura umana e non umana come specificamente legate».55Ivi, traduzione dell’autrice.
Dal punto di vista dell’oikeios gli esseri viventi non interagiscono con la natura come se quest’ultima fosse una risorsa, ma si sviluppano attraverso di essa come matrice o contesto favorevole. L’agency umana è pertanto interdipendente con quella non-umana, e dalla loro stretta relazione prende forma la possibilità stessa di introdurre azioni che successivamente saranno interpretate storicamente: «Human agency is always within, and dialectically bound to, nature as a whole – which is to say, human agency is not purely human at all. It is, rather, bundled with the rest of nature».66J. W. Moore, From Object to Oikeios: Environment-Making in the Capitalist World-Ecology, 2013, p.4.
Zona industriale di Sheffield.
In che modo il capitalismo ha dato forma alla natura? Dal suo sorgere nel 1450, il capitalismo ha causato un epocale cambiamento di scala, velocità e raggio di trasformazione paesaggistica. Se l’Europa feudale aveva impiegato secoli per deforestare il centro e l’ovest europei, successivamente le medesime distanze verranno coperte in pochi decenni. Dal 1450, infatti, la natura comincia a essere vista come terra di conquista, che con la sua fertilità contribuisce allo sviluppo irrefrenabile delle politiche di sfruttamento e mercificazione tipiche del capitalismo. Tale processo non ha toccato soltanto l’Europa, ma ha interessato l’intero globo terrestre. L’astrazione dei concetti di spazio e tempo ha consentito al capitalismo di costituire reti globali di sfruttamento e appropriazione, di calcolo e credito, di proprietà e profitto, su una scala senza precedenti.
Se da una parte la scoperta della natura incontaminata per mezzo delle politiche coloniali rese possibile lo sviluppo capillare del capitalismo, dall’altra iniziò parallelamente un processo di razionalizzazione dell’umano e dell’extra-umano a opera della scienza, così come della filosofia e della medicina, che iniziarono a guardare a natura e uomo come oggetti di analisi. La legge di valore che regola il capitalismo diventa, a partire da questo periodo, forma interna che innesca relazioni, modifica paesaggi, costruisce idee e pensieri.
Se da un lato la posizione di Moore appare a tratti estrema nella sua analisi meticolosa sul capitalismo come processo organizzativo all’interno della natura, dall’altro il teorico americano propone un metodo pratico per applicare le conquiste filosofiche dei nuovi materialismi a concreti modelli di lettura della relazione tra uomo e natura, intesi come co-agenti. Moore riporta all’attenzione l’indagine di tipo storico, proponendo una storia in cui l’agency non è esclusivamente umana, così come non risiede nell’individualità specifica. Se biologia e fisica hanno raggiunto importanti traguardi nel superare l’individualità biologica, ossia l’idea per cui un individuo esiste in sé e non come parte di un insieme più vasto, sembra possibile raggiungere le medesime conclusioni anche nell’analisi storica, proponendo una visione sympathetic (comprensiva e partecipativa) del rapporto uomo-in-natura, immaginando così agenti storici e politici allargati.
Illustrazione di un paesaggio delle Barbados.