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Dalla visione del mondo alla sua esposizione
Digital Library, February 2019
Tempo di lettura: 24 min
Boris Groys

Dalla visione del mondo alla sua esposizione

La favola di Internet come esposizione mondiale d’arte universalmente inclusiva e la figura dell’artista contemporaneo da artefice della forma a fornitore di contenuti. In esclusiva su KABUL magazine, un saggio inedito del 2018 di Boris Groys.

Documenta 13, Pierre Huyghe, Untilled, 2012, Kassel.

In questo testo inedito, pubblicato qui per la prima volta, il filosofo dei media Boris Groys, quasi parafrasando il celebre saggio di Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, sostiene e difende una speciale posizione che il sistema dell’arte ricopre o dovrebbe ricoprire nella nostra epoca. Le mostre d’arte, afferma il filosofo, «svolgono un ruolo politico cruciale, compensando almeno solo in parte la mancanza di uno spazio pubblico e di una politica globali». Assumendosi questo ruolo, «il sistema dell’arte contemporanea svolge la funzione di sostituto simbolico di un tale Stato universale, organizzando mostre che hanno il diritto di presentare l’arte e la cultura universali, globali – ossia l’arte e la cultura dell’utopistico e inesistente Stato globale».

Le mostre a cui si riferisce Groys sono quelle manifestazioni culturali come Documenta o le Biennali, che oggi svolgono il ruolo di “grandi musei del passato”, sia per la panoramica sul mondo che offrono, sia perché svincolate dalle logiche del mercato globale. Si tratta appunto di arte «che non è commercializzata globalmente, ma che ha un significato storico e internazionale – manifestare e riflettere sull’epoca contemporanea».

La conclusione del saggio rivela certamente un punto di vista opinabile in cui non tutti potrebbero trovarsi d’accordo, soprattutto nell’affermazione di Groys che grandi manifestazioni come Documenta e Biennali siano effettivamente libere e svincolate dai meccanismi instaurati con la speculazione di mercato. Tuttavia, a rendere davvero interessante questo saggio non sono tanto le conclusioni appena citate, quanto le efficaci argomentazioni utilizzate nel corso dell’intero impianto saggistico.

Il saggio ripercorre infatti le teorie che più di ogni altre hanno inciso sulla nostra visione e sulla produzione dell’arte. I pensieri Benjamin, Heidegger e Hegel sono qui discussi e intrecciati nel tentativo di rispolverare e rispondere a vecchi ma pur sempre attuali quesiti: che cosa si intende per verità dell’opera d’arte? Qual è il rapporto tra il valore culturale di un’opera rispetto al suo valore espositivo? Che differenza c’è tra la documentazione dell’arte e l’arte stessa? In che rapporto si trova l’arte in relazione ai mass media?

Il nostro presente e il sistema dell’arte sono contrassegnati dall’utilizzo massiccio di Internet, uno strumento che apre nuovi scenari e nuove questioni, e che rappresenta di fatto, per il filosofo , un’arma a doppio taglio. Se da un lato sembra aver semplificato le pratiche espositive, la creazione dell’arte e la sua divulgazione, riuscendo anche a fare a meno del curatore, in altre parole offrendo una soluzione al conflitto tra arte e mass media, Internet, dall’altra, strumento «estremamente narcisistico», non fa altro che confinarci nel territorio già noto dei nostri interessi: Internet «non ci mostra ciò che non vogliamo vedere. Nel contesto di Internet, inoltre, comunichiamo solo con le persone con cui condividiamo i nostri stessi interessi e punti di vista, siano essi politici o estetici».

La chiave di volta per superare le insidie celate dall’utilizzo di Internet all’interno della produzione dell’arte e della sua fruizione è rappresentata, per Groys, dalla figura del curatore, vero e proprio deus ex machina in grado di superare, attraverso una selezione universalistica ma non onnicomprensiva di opere, i confini locali, siano essi geografici o virtuali, e di mostrare «la pratica universale dell’inquadratura», in poche parole il Gestell, termine che il filosofo prende in prestito da Heidegger. Il Gestell è un prodotto della tecnologia moderna ed è tradotto con i seguenti termini: “apparato”, “impianto” o “dispositivo”. È ciò che consente all’essere umano di posizionarsi di fronte al mondo da una speciale inquadratura che fa dell’uomo l’unico soggetto in relazione a un mondo di oggetti. Ciò che viene pertanto esposto all’interno delle mostre non sono soltanto le opere, che si trovano quasi sempre decontestualizzate dal loro tempo e spazio di origine (quindi private della propria aurea), ma anche e soprattutto il dispositivo.

«L’unico modo per rivelare il Gestell è di rimuovere e ricollocare le immagini e gli oggetti del nostro mondo. In altre parole, di fare una mostra». Una mostra d’arte, quindi, «presenta al nostro sguardo non solo un’immagine, ma mostra anche la tecnologia del presentare, l’apparato e la struttura interni del Gestell, il modo in cui il nostro sguardo viene determinato, orientato e manipolato dalla tecnologia moderna. Infatti, quando visitiamo una mostra, noi non guardiamo solo le immagini e gli oggetti esposti, ma riflettiamo anche sulle relazioni spaziali e temporali tra di essi, alle loro gerarchie, alle scelte e strategie curatoriali che hanno prodotto l’esposizione ecc. La mostra espone se stessa – prima di esporre qualsiasi altra cosa. E facendo così, la mostra espone il Gestell, la tecnologia moderna che ci consente di vedere il mondo come immagine del mondo (Weltbild), di avere una visione del mondo (Weltanschauung)».

 

Introduzione di Simona Squadrito


9° Biennale di Berlino, Jon Rafman, View of Pariser Platz, Future Gallery, 2016, Berlin; ph Timo Ohler, courtesy Jon Rafman.

La storia delle mostre è la storia della lotta contro la selettività e a favore di una maggiore inclusività. Oggi, tuttavia, questa lotta sembra essere giunta alla fine e aver perso la sua rilevanza. La ragione di tale sviluppo è costituita dall’avvento di Internet. Internet non ha curatori; qui ognuno può produrre testi e immagini, e renderli accessibili al mondo intero. Internet, infatti, offre la tecnologia che rende la produzione d’arte e la sua distribuzione relativamente economiche e facilmente accessibili per chiunque. In pratica, però, Internet comporta non tanto la nascita di uno spazio pubblico universale, quanto la tribalizzazione del pubblico. Internet è un medium estremamente narcisistico: è lo specchio dei nostri interessi e desideri specifici; non ci mostra quello che non vogliamo vedere. Nel contesto di Internet, inoltre, comunichiamo solo con le persone con cui condividiamo i nostri stessi interessi e punti di vista, siano essi politici o estetici. Le scelte curatoriali, invece, ci fanno vedere quello che non vorremmo vedere, persino ciò che ci è ignoto. Ciò significa che le mostre curate possono essere più universali di Internet, nel caso in cui esse siano mostre trasgressive – ossia che vadano al di là dei nostri desideri e delle nostre aspettative.

Nel suo saggio Lopera darte nellepoca della sua riproducibilità tecnica (1939), Walter Benjamin definisce notoriamente il “valore espositivo” dell’opera d’arte come un effetto della riproducibilità dell’arte. Sia la riproduzione sia la mostra sono operazioni che rimuovono l’opera d’arte dalla sua collocazione storica – dal suo “qui e ora” – e la inseriscono in un circuito globale. Benjamin crede che, in seguito a queste operazioni, l’opera perda il proprio “valore cultuale”, il suo posto nel rito e nella tradizione, la sua aura. Qui l’aura è intesa come inscrizione dell’opera d’arte all’interno del suo contesto storico originale. L’opera d’arte riprodotta o esposta perde la propria aura perché è portata fuori dal mondo di viva esperienza a cui appartiene originariamente. La copia si riferisce all’originale, ma non lo presenta autenticamente. Lo stesso si può dire di un’opera esposta: si riferisce al contesto originale, all’aura originale, ma in realtà impedisce al visitatore della mostra di farne esperienza. Una volta liberata, isolata dal suo ambiente originario, l’opera d’arte rimane “materialmente” identica a se stessa, ma perde la sua collocazione storica e quindi la propria verità. Così l’arte, intesa come produzione di opere d’arte “visibili” che possono essere esposte e riprodotte, mostra la sua profonda insufficienza: secondo Benjamin la dimensione più importante dell’opera d’arte – il suo rapporto al contesto originale – rimane invisibile, quindi irriproducibile e non esponibile.

Heidegger sembra assumere una posizione opposta nel suo saggio Lorigine dellopera darte, scritto all’incirca nello stesso periodo (1935-36). In quest’opera Heidegger sostiene che inizialmente facciamo esperienza delle cose come strumenti che utilizziamo per raggiungere determinati obiettivi pratici. Siccome ci serviamo soltanto di questi strumenti, perdiamo di vista la loro “essenza di cosa” e il modo in cui li utilizziamo. L’arte è quindi il medium della verità, perché rivela il mondo in cui esistiamo – proprio perché ci consente di contemplare le cose che utilizziamo ma che non notiamo. Così l’opera d’arte sembra riflettere il suo mondo e renderlo visibile. Tuttavia anche Heidegger crede che l’opera d’arte perda la propria capacità di rivelare il mondo quando questa, a sua volta, inizia a essere usata dalle istituzioni d’arte come semplice strumento – quando inizia a essere venduta, comprata, trasportata, esposta ecc. A questo proposito, pur usando un linguaggio diverso, Heidegger afferma in realtà la stessa cosa di Benjamin: l’opera d’arte è “vera” solo se conserva il rapporto al mondo che quest’opera inizialmente rivela, e perde la sua verità quando questa viene rimossa dal mondo originale con l’obiettivo di esporla. Così Heidegger descrive una differenza che ricorda quella tra “valore cultuale” e “valore espositivo” di cui parla Benjamin nel suo saggio. Heidegger scrive: «Quando un’opera viene trasferita in una collezione o collocata in una mostra, diciamo anche che viene “allestita”. Tale allestimento differisce tuttavia profondamente dalla costruzione di un edificio, dall’erigere una statua o dalla presentazione di una tragedia a una celebrazione sacra». In altre parole, Heidegger distingue di nuovo tra un’opera d’arte inscritta dentro un certo spazio e tempo storici e/o rituali e un’opera d’arte che è semplicemente “esposta” in un certo luogo, ma che può essere rimossa in qualsiasi momento – e che è quindi senza contesto, senza mondo.

55° Biennale di Venezia, Marino Auriti, Il Encyclopedico Palazzo del Mondo, ca. 1950s, Giardini, 2013, Venezia.

Ma perché solo il contesto immediato e locale dell’opera d’arte – il suo “qui e ora” particolare – può essere rappresentato? Perché è impossibile rappresentare il suo posto nel mondo globale? È possibile l’“immagine del mondo” (Weltbild)? All’inizio della sua Estetica Hegel afferma che il tempo del “pensare per immagini” (Bilddenken) è finito e che quindi, nel suo rapporto con il fine più alto – che è la rappresentazione della verità –, l’arte sia una cosa del passato. Già nella sua Fenomenologia dello Spirito Hegel insiste sulla critica del “pensare per immagini”. Per gli antichi Greci le divinità si presentavano come statue, come immagini; ma la cristianità ci ha insegnato a distruggere le immagini, proclamando che Dio è invisibile. Hegel, tuttavia, non crede che l’arte non possa rappresentare la verità come un’immagine, perché la verità è nascosta dietro la superficie del mondo visibile e sensibile. Hegel non condivide il concetto di verità di Kant, di “cosa in sé” (Ding an sich) trascendente. Piuttosto, crede che la verità risieda nello “Spirito che è in e per sé” (Der an und fürsichseiende Geist). In altre parole non siamo fuori, ma dentro la verità. E trovandoci dentro la verità non possiamo vederla; possiamo solo muoverci all’interno di essa, seguendo il movimento della verità stessa attraverso la subordinazione del nostro ragionamento alle regole della logica dialettica. La nostra vita sociale è regolata da un sistema di leggi; il nostro rapporto alla natura è definito dalla scienza. Possiamo capire la legge e la scienza, possiamo pensarle, ma esse non si mostrano per immagini. Producendo arte, presentiamo il nostro ragionamento all’interno del contesto del mondo esterno e sensibile. Ma il nostro ragionamento è così presentato in forma alienata (entäußerten).

A questo proposito la posizione di Heidegger è molto più complessa: crede infatti che la produzione delle immagini del mondo (Weltbilder) non sia un fenomeno antico ma propriamente moderno. Allo stesso tempo, secondo Heidegger, la produzione si fonda su una falsità ontologica: l’Uomo immagina se stesso come il soggetto a cui il mondo si presenta come un oggetto, come un’immagine. Tuttavia questa illusione non è accidentale, ma si fonda su un particolare posizionamento (Stellung) dell’Uomo nel mondo moderno. Tale posizionamento è definito non tanto dalla scienza moderna, come credeva Hegel, quanto dalla tecnologia moderna. La tecnologia moderna crea l’inquadratura, o l’apparato (Gestell), che consente all’Uomo di posizionarsi in quanto soggetto in relazione al mondo. Tuttavia, come dice Heidegger, questo apparato rimane a noi celato, proprio perché apre il mondo al nostro sguardo. A questo riguardo Heidegger parla di Gestell come “produzione e presentazione” (Her- un Dar-stellend), e cita l’«erigire una statua nel tempio recintato». In altre parole, a questo punto il problema di Gestell inizia a riferirsi all’esposizione (Aus-stellung), intesa non come il semplice atto di presentare, ma come presentazione della presentazione, come rivelazione del Gestell. In altre parole, l’esposizione presenta al nostro sguardo non solo un’immagine, ma mostra anche la tecnologia del presentare, l’apparato e la struttura interni del Gestell; il modo in cui il nostro sguardo viene determinato, orientato e manipolato dalla tecnologia moderna. Quando visitiamo una mostra, infatti, non guardiamo solo le immagini e gli oggetti esposti, ma riflettiamo anche sulle relazioni spaziali e temporali tra di essi, sulle loro gerarchie, sulle scelte e strategie curatoriali che hanno prodotto l’esposizione ecc. La mostra espone se stessa, prima di esporre qualsiasi altra cosa. Così facendo, la mostra espone il Gestell, la tecnologia moderna che ci consente di vedere il mondo come immagine del mondo (Weltbild), di avere una visione del mondo (Weltanschauung). In altre parole, la visione del mondo è un’illusione creata tecnologicamente, mentre l’esposizione del mondo mostra esattamente come questa illusone venga prodotta e presentata. In questo modo la mostra (Ausstellung) è in grado di rivelare il nostro Gestell, il nostro vero posizionamento nel mondo.

Documenta 14, Marta Minujín, The Parthenon of Books, Friedrichsplatz, 2017, Kassel, ph. Roman März

La storia delle moderne esposizioni mondiali ebbe inizio già nel XIX secolo, con la celebre esposizione al Crystal Palace di Londra, nel 1851. Nel contesto dell’arte, i grandi musei come il Louvre (Parigi), l’Hermitage (San Pietroburgo) o il Metropolitan Museum of Art (New York), così come esposizioni quali Documenta a Kassel o le varie Biennali, avevano e hanno tuttora un diritto a presentare l’arte del mondo intero. Qui gli oggetti individuali sono rimossi dai loro contesti originari e introdotti in un contesto nuovo e artificiale, in cui le immagini e gli oggetti si incontrano; incontro che non potrebbe avvenire “storicamente”, nella “vita vera”. Nel contesto di queste esposizioni possiamo vedere, per esempio, divinità egizie accanto a quelle messicane o inca, che non si incontrerebbero mai nei rispettivi universi – in accordo con i sogni utopistici dell’avanguardia, che non si realizzarono mai nella “vita vera”. Queste rimozioni e nuovi posizionamenti comportano l’uso della violenza, compresa la violenza economica e l’intervento militare diretto. Le esposizioni mondiali, quindi, mettono in mostra gli ordini, le leggi e le pratiche commerciali che regolano il nostro mondo, così come le rotture a cui questi ordini sono soggetti – quali guerre, rivoluzioni, crimini.

1° Biennale di Tirana, Maurizio Cattelan, Il diavolo compra Maver, 2001, Tirana.

Tali ordini non possono essere “visti”, ma possono manifestarsi e si manifestano nell’organizzazione dell’esposizione, nel modo in cui essa “inquadra” l’arte. In quanto visitatori non siamo al di fuori, ma all’interno di questa cornice. Veniamo esposti, attraverso la mostra, a noi stessi e agli altri. Ecco perché la mostra non è un oggetto, ma un evento. In altre parole, l’aura non si perde quando un’opera d’arte viene rimossa dal suo contesto originale e locale. Ogni opera d’arte viene ricontestualizzata e acquista un nuovo “qui e ora” nell’evento della mostra – e quindi nella storia delle mostre. È per questo che una mostra non può essere riprodotta – si può solo riprodurre un’immagine o un oggetto che è posizionato di fronte al “soggetto”. Tuttavia la mostra può essere reinterpretata, rimessa in scena. Da questo punto di vista la mostra assomiglia alla messa in scena teatrale, ma con una differenza importante: nel caso della mostra i visitatori non rimangono di fronte al palcoscenico, ma salgono sul palco, partecipando alla mostra-evento.

A questo proposito è importante non dimenticare che ogni esposizione individuale può essere considerata come parte dell’esposizione mondiale virtuale. Infatti l’inclusione di qualsiasi opera d’arte e/o artista specifici in una mostra specifica significa, almeno potenzialmente, inscrivere l’opera d’arte/l’artista nel “mondo dell’arte”, nello “scenario dell’arte globale”. Per questa ragione i curatori di mostre vengono solitamente accusati di avere troppo potere – il potere di formare l’“esposizione globale” e di produrre nuove aure globali per opere d’arte individuali. Di conseguenza non solo le esposizioni globali – comprese le mostre d’arte come Documenta o diverse Biennali –, ma virtualmente tutte le mostre erano e sono ancora criticate per essere troppo selettive, non abbastanza inclusive. La storia delle mostre è la storia della lotta contro la selettività e per una maggiore inclusività. Oggi questa lotta sembra essere giunta alla fine e aver perso la sua rilevanza. La ragione di questo sviluppo è la comparsa di Internet. Internet non ha curatori: qui ognuno può produrre testi e immagini e renderli accessibili al mondo intero.

36° Biennale di Venezia, Gino De Dominicis, Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile), 1972, Venezia.

Internet, infatti, offre la tecnologia per rendere la produzione e la distribuzione d’arte relativamente economiche e facilmente accessibili a chiunque. Potenzialmente chiunque può utilizzare una macchina fotografica o una videocamera per produrre immagini e i network di Internet per diffondere i risultati su scala globale, evitando così ogni tipo di censura o di processo di selezione. Di norma tali combinazioni di immagini e testi prendono la forma di un realismo documentario. Quando gli artisti usano queste combinazioni svolgono la funzione di giornalisti freelance. Ciò significa che utilizzano i mezzi di produzione e di distribuzione prescritti da Internet per essere compatibili con i suoi protocolli – protocolli che sono solitamente usati per diffondere l’informazione. In questo senso gli artisti perdono il loro ruolo tradizionale di artefici della forma. Al contrario, divengono fornitori di contenuti: documentano i contenuti che non sono coperti dai media ufficiali. E fanno ciò in modo piuttosto “soggettivo” e personalizzato, da una prospettiva che i media ufficiali non assumono. Il contenuto può essere una situazione già esistente che risulta troppo strana o, al contrario, troppo banale per essere diffusa dal giornalismo standard. Può essere la documentazione di eventi storici dimenticati o pubblicamente repressi. Ma può essere anche una situazione prodotta dagli artisti stessi: azioni, performance e processi iniziati dagli artisti e poi da loro documentati. Può essere anche un’“invenzione” totale: in questo caso il processo di creazione dell’invenzione viene documentato. L’effetto cumulativo di tali strategie non è poi così distante dal realismo del XIX secolo, quando gli artisti combinavano mezzi di rappresentazione convenzionali a una scelta personalizzata dei contenuti e della loro interpretazione “soggettiva”.

In questo senso Internet offre una soluzione al vecchio conflitto tra arte e mass media. Già nel corso del XIX secolo i mass media divennero la fonte primaria di informazione, compresa quella sull’arte. Gli artisti come individui non potevano competere con i media; al contrario, ne erano sempre più soppiantati. Ciò significa che diventavano sempre più il contenuto, mentre i media svolgevano la funzione di fornire questo contenuto. Tale processo ebbe inizio già con gli artisti e i poeti del Romanticismo e si intensificò nel periodo dell’avanguardia storica – per esempio nel caso del Futurismo italiano o dei primi Dada. Il modo principale di informarsi sugli eventi delle avanguardie artistiche era quello di leggere i giornali, e magari guardare i disegni e le fotografie diffuse a mezzo stampa. Nella produzione d’arte stessa il contenuto ha iniziato a svolgere un ruolo sempre meno rilevante. Tale processo culminò nell’arte astratta, quando gli artisti cominciarono infatti a considerare la forma delle proprie opere d’arte come il loro contenuto. La funzione del contenuto fornito veniva ora svolta dal giornalismo e dalla storia dell’arte. In modo del tutto comprensibile, per gli artisti questa condizione era molto insoddisfacente. Internet ha invece mutato tale condizione, consentendo agli artisti di diventare i fornitori dei propri contenuti. Qui gli artisti coprono le loro stesse attività – e quindi iniziano a liberarsi dalla selezione e dalla censura imposte loro dai mass media. L’arte diventa equivalente al giornalismo, ed entrambi divengono individualizzati, personalizzati nel loro contenuto, pur restando standardizzati nella forma. I teorici del formalismo del XX secolo – per esempio, Roman Jakobson – credevano che l’utilizzo artistico dei mezzi di comunicazione comportasse la sospensione o anche l’annullamento dell’informazione, del contenuto – nel contesto dell’arte il contenuto viene totalmente assorbito dalla forma. Ma nel contesto di Internet la forma rimane identica per tutti i messaggi, e quindi il contenuto è immune dalla sua assimilazione alla forma. Internet ristabilisce a livello tecnologico le convenzioni della presentazione del contenuto che dominavano nel XIX secolo. Gli artisti delle avanguardie protestarono contro tali convenzioni poiché le credevano puramente arbitrarie e determinate semplicemente dalla cultura. All’interno del contesto di Internet, invece, una rivolta simile contro tali convenzioni non ha senso, poiché sono inscritte nella tecnologia di Internet stesso.

Documenta 13, Giuseppe Penone, dee di pietra – 2003/2008/2010, 2012, Kassel, ph Rosa Maria Rühling.

L’arte, pertanto, si presenta su Internet come un tipo di attività specifica: come documentazione del reale processo di lavoro che trova spazio nel mondo reale, offline. Infatti su Internet l’arte opera nello stesso spazio delle pianificazioni militari, del business turistico, dei flussi di capitali ecc. Google mostra, tra le altre cose, che non esistono muri nello spazio di Internet. L’utente di Internet non passa dall’utilizzo quotidiano delle cose alla loro contemplazione disinteressata; utilizza invece le informazioni sull’arte nello stesso modo in cui usufruisce delle informazioni su tutte le altre cose del mondo. È come se noi tutti diventassimo lo staff di un museo o di una galleria, dal momento che l’arte è documentata esplicitamente non appena trova posto nello spazio unificato delle attività profane. Tuttavia il suo vicinato è sempre sembrato molto problematico. Le opere d’arte sono arte: si mostrano immediatamente come tali. Per questo possono essere ammirate, esperite a livello emotivo ecc. Ma la documentazione dell’arte non è arte: si riferisce semplicemente a un evento d’arte, a una mostra, un’installazione o a un progetto che presupponiamo abbia davvero avuto luogo. La documentazione dell’arte si riferisce all’arte ma non è arte. Ecco perché la documentazione dell’arte può essere riformattata, riscritta, estesa, abbreviata ecc. Si può sottoporre la documentazione dell’arte a tutte queste operazioni, che sono proibite nel caso di un’opera d’arte, perché tali operazioni cambiano la forma dell’opera. E la forma dell’opera d’arte è istituzionalmente garantita dal momento che solo la forma garantisce la riproducibilità e l’identità dell’opera d’arte. Al contrario, la documentazione può essere cambiata a piacimento, poiché la sua identità e riproducibilità sono garantite dal suo referente “reale”, esterno, e non dalla sua forma. Ma anche se la nascita della documentazione d’arte precede la comparsa di Internet come medium artistico, solo l’avvento di Internet ha dato alla documentazione d’arte il suo posto legittimo.

A prima vista ciò significa che Internet, in quanto esposizione mondiale, ha smesso di essere artificialmente prodotto e selettivo. Si afferma invece in modo spontaneo e incontrollabile; si potrebbe dire in modo quasi-naturale. In tali condizioni l’attività espositiva sembra perdere il suo senso: l’inquadratura del mondo non dovrebbe più essere esposta, poiché si mostra. Tuttavia questa interpretazione di Internet come esposizione mondiale universalmente inclusiva è più che problematica. In pratica, infatti, Internet non comporta uno spazio pubblico universale, ma la tribalizzazione del pubblico. La ragione di ciò è molto semplice: Internet reagisce alle domande dell’utente, ossia ai click dell’utente. In altre parole l’utente trova su Internet solo ciò che desidera trovarvi. Internet è un medium estremamente narcisistico: è lo specchio dei nostri interessi e desideri particolari. Inoltre, nel contesto di Internet comunichiamo solo con persone che condividono i nostri stessi interessi e punti di vista“…nel contesto di Internet comunichiamo solo con persone che condividono i nostri stessi interessi e punti di vista”, siano essi politici o estetici. Ecco perché il carattere non selettivo di Internet è un’illusione. Il funzionamento fattuale di Internet si basa sulle regole implicite di selezione, secondo le quali l’utente seleziona solo ciò che conosce già o di cui è esperto. È interessante notare che questa frammentazione di Internet si spinge sempre oltre. Oggi si parla del cosiddetto deep social, comunità di utenti strutturate come “comunità chiuse”, dal momento che si proteggono da intrusi esterni. Ovviamente esistono programmi di ricerca in grado di attraversare l’intero Internet. Tuttavia, tali programmi hanno sempre obiettivi particolari e sono controllati non da singoli utenti ma da grandi corporazioni. Internet come insieme è visibile solo per gli algoritmi, e non agli occhi umani.

Le mostre d’arte contemporanea si servono ora di Internet allo stesso modo in cui prima usavano l’arte localmente prodotta. Queste mostre rimuovono le documentazioni particolari dai loro originali siti Internet e le combinano contraddicendo la topologia tipica di Internet. Ancora una volta la rimozione della documentazione dai loro siti originali rivela l’inquadratura nascosta (Gestell) di Internet. La mostra rende la propria inquadratura visibile, e in questo modo rende visibile persino la topologia di Internet. Ovviamente ogni pratica espositiva è selettiva, compresa quella dell’arte. Ma tale selezione è – o almeno dovrebbe essere – antiselettiva, trasgressiva e soprattutto esplicita. La selezione curatoriale è importante proprio quando attraversa i confini locali, siano essi confini geografici o quelli di particolari gruppi e chatroom di Internet. Qui abbiamo a che fare con un fenomeno apparentemente paradossale di selezione universalistica. La selezione è universalistica non quando è onnicomprensiva, ma quando rivela la pratica universale dell’inquadratura, del Gestell universale, che definisce e dirige il nostro sguardo quando crediamo di essere “soggetti” che guardano gli “oggetti”. E l’unico modo per rivelare il Gestell è rimuovere e ricollocare le immagini e gli oggetti del nostro mondo. In altre parole, fare una mostra.

Il nostro tempo è caratterizzato da una mancanza di equilibrio tra poteri.

Ovviamente l’applicazione di una simile operazione alla documentazione di Internet pone al sistema dell’arte nuove sfide: la documentazione di Internet non dovrebbe essere semplicemente ricollocata ma anche riformattata. Tuttavia già gli artisti concettuali organizzavano lo spazio dell’installazione come una frase che veicolava un certo significato, analogo all’uso delle frasi nel linguaggio. Con l’arte concettuale la pratica artistica tornò di nuovo a essere significativa e comunicativa, dopo un periodo di dominazione della lettura formalista dell’arte. L’arte cominciò a fare formulazioni teoriche, a comunicare esperienze empiriche e conoscenze, a esprimere punti di vista etici e politici e a raccontare storie.

Documenta 14, Pélagie Gbaguidi, The Missing Link. Decolonisation Education by Mrs. Smiling Stone, Neue Galerie, 2017, Kassel.

Questo nuovo orientamento verso il significato e la comunicazione non comporta il fatto che l’arte sia diventata in qualche modo immateriale, che la sua materialità abbia perso la propria rilevanza o che il suo medium si sia dissolto nel messaggio. Si tratta semmai del contrario: l’arte è sempre materiale e può essere solo materiale. Il linguaggio stesso è materiale in tutto e per tutto, in quanto combinazione di segni sonori e visivi. La trasmissione dell’informazione per mezzo di Internet è anch’essa un processo materiale: usare l’elettricità come medium e l’hardware di Internet come supporto materiale. Così può essere dimostrata un’equivalenza, o almeno un parallelismo, tra parola e immagine, tra l’ordine delle parole e l’ordine delle cose cose, la grammatica del linguaggio e la grammatica dello spazio visivo. In altri termini, ciascuna documentazione che sta circolando su Internet può essere presentata da un’installazione che utilizza media diversi all’interno dello spazio espositivo. Tuttavia, se le opere d’arte individuali possono essere riprodotte, l’esposizione-evento può essere solo documentata. Questo tipo di documentazione, se messa su Internet, inizia a circolare su Internet. Così lo scambio tra museo e Internet assume il carattere di uno scambio tra documentazione e installazione: quella che era un’installazione all’interno di uno spazio d’arte espositivo diventa la documentazione su Internet e viceversa.

L’obiettivo della pratica espositiva dell’arte rimane pertanto lo stesso: creare un’esposizione mondiale combinando oggetti d’arte tradizionali e documentazione d’arte diversa in uno stesso spazio espositivo. La nostra epoca è caratterizzata da una nuova tensione tra il globale e il locale. Questa tensione è prodotta dal modo in cui i mercati globali operano: alcuni prodotti sono distribuiti solo localmente, altri globalmente. Lo stesso vale per il mercato d’arte globale, che è dominato da case d’asta come Sotheby e Christie e dalle grandi gallerie internazionali. Le esposizioni di cui parlo sono trasgressive anche in rapporto al settore globale del mercato dell’arte. Le mostre internazionali come Documenta e alcune Biennali mostrano arte che non è commercializzata globalmente, ma che ha un significato storico e internazionale: manifestare e riflettere sull’epoca contemporanea. In questo senso queste mostre continuano la tradizione dei grandi musei del passato.

Tali musei universali trovavano il loro sostegno istituzionale nello Stato nazionale, che tentava di unire la propria popolazione, così come nello Stato imperiale l’ambizione era di integrare le culture non occidentali. Oggi la creazione di un museo universale richiederebbe il patrocinio di uno Stato universale. Tuttavia un tipo di Stato simile, ossia globale, non esiste. Si potrebbe quindi affermare che il sistema dell’arte contemporanea svolge la funzione di sostituto simbolico di un tale Stato universale, organizzando mostre che hanno il diritto di presentare l’arte e la cultura come universali, globali, ossia l’arte e la cultura dell’utopistico e inesistente Stato globale. Il nostro tempo è caratterizzato da una mancanza di equilibrio tra poteri, tra istituzioni pubbliche e pratiche commerciali. La nostra economia opera su scala globale, mentre la nostra politica opera su scala locale. Le mostre d’arte svolgono quindi un ruolo politico cruciale, compensando solo in parte la mancanza di uno spazio pubblico e di una politica globali.

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di Boris Groys
  • Boris Groys è critico d’arte, teorico dei media e filosofo. È professore di Slavistica e di Russistica alla New York University ed è ricercatore all’Università di Arti e Design di Karlsruhe. Tra i maggiori studiosi di teoria dei media, ha pubblicato, tra le altre cose, Art power (Postmedia Books, 2012), Going Public (Postmedia Books, 2013) e In the Flow. L’arte nell’epoca della riproducibilità digitale (Postmedia Books, 2018).