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Le biotecnologie come nuovo strumento di liberazione e di invenzione di sé stessi
Magazine, ANATOMIA – Part II - Dicembre 2020
Tempo di lettura: 9 min
Maurizio Balistreri

Le biotecnologie come nuovo strumento di liberazione e di invenzione di sé stessi

Analisi del complesso rapporto tra bioetica e biotecnologie: la prefazione di “Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente”, volume edito da KABUL Editions.

Uno xenobot, il primo robot vivente costituito da cellule, 2020.

In occasione della pubblicazione di Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente, realizzata da KABUL Editions, pubblichiamo la prefazione al volume scritta da Maurizio Balistreri, ricercatore di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Torino e responsabile scientifico del Comitato di Bioetica d’Ateneo dell’Università di Torino.


C’è qualcosa di male nel progetto di cambiare la natura umana? Il tema del miglioramento umano è al centro da alcuni anni del dibattito bioetico: la discussione riguarda i confini dell’intervento sull’umano. La scienza e le nuove biotecnologie ci offrono nuovi strumenti per intervenire sulla biologia umana: abbiamo il diritto di fare quello che vogliamo o c’è un limite che non dovremmo superare? La domanda non è delle più facili, ma vale la pena di interrogarsi per provare a dare una risposta.

La natura non può aiutare a risolvere i nostri dilemmi morali: su questo ormai c’è ampia convergenza. C’è ancora qualcuno però che continua a pensare che la natura – inclusa quella umana – meriti rispetto e che qualsiasi tentativo di controllarla e sottometterla vada condannato severamente come segno di un atteggiamento o carattere vizioso e incapace di un amore incondizionato. Per esempio, questa è l’accusa che muove Michael Sandel11M. Sandel, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e Pensiero, Milano, 2007.
a coloro che ricorrerebbero volentieri a interventi di genome editing per correggere oppure potenziare il DNA dei figli. Secondo Sandel, il problema non è la sicurezza, perché probabilmente un giorno queste tecnologie saranno affidabili: il problema è un altro, è sbagliato che i genitori progettino i propri bambini. I bambini, afferma Jürgen Habermas,22J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino, 2002.
vengono strumentalizzati ovverosia ridotti a prodotti se i loro genitori non li accettano per quello che sono e aspirano a modellarli a loro piacimento. I genitori dovrebbero ricordarsi di coltivare la virtù dell’umiltà: tenere a bada il loro desiderio di padroneggiare il mistero della nascita e ritornare ad apprezzare i figli come doni o benedizioni. Sandel e Habermas non intendono mettere in discussione il valore della scienza e della medicina: per loro, tuttavia, una cosa è curare una malattia, altra cosa è migliorare le capacità umane. Il trattamento medico interviene sulla natura soltanto per ristabilire una condizione di salute: il miglioramento, invece, non mira a guarire la malattia ma ricerca la padronanza e il controllo. Un programma di potenziamento, inoltre, è incompatibile con i principi di una società liberale, in quanto chi nasce sarebbe condannato a vivere la vita che altri hanno considerato desiderabile. I bambini – afferma Habermas – nascerebbero con un patrimonio genetico che altri hanno selezionato, corretto o migliorato sulla base delle loro preferenze, dei loro gusti e delle loro aspirazioni: l’educazione che riceverebbero, poi, punterebbe soltanto a far esprimere queste potenzialità. Per questa ragione, non potranno scegliere la loro vita, ma saranno schiavi dei loro genitori. Per altro, scrive Habermas, gli schiavi possono sempre sperare di affrancarsi dal loro padrone: i bambini che nasceranno al tempo delle nuove tecnologie non potranno, invece, nemmeno avere questa speranza, in quanto nessuno può liberarsi dal codice genetico che ha ricevuto.“…nessuno può liberarsi dal codice genetico che ha ricevuto.” Il timore, poi, è che soltanto le persone che appartengono alle classi sociali più avvantaggiate potranno permettersi interventi che potenziano le capacità fisiche, cognitive e morali. Se questo un giorno avvenisse, sostiene Nicholas Agar,33N. Agar, Humanity’s End: Why We Should Reject Radical Enhancement, Bradford Books, 2010.
la nostra società cambierebbe profondamente perché i potenziati darebbero vita a una specie a parte rispetto alle persone non potenziate: del resto – come dice Francis Fukuyama44F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano, 2002.
– i potenziati si percepirebbero come superumani.55M. Balistreri, Superumani. Etica e potenziamento, Edizioni Espress, Torino, 2020 (seconda edizione).

la crisi ambientale è il prodotto della nostra inadeguatezza morale.

A fronte di queste preoccupazioni, il fronte progressista considera invece le tecnologie migliorative l’unica risorsa a cui possiamo e dobbiamo ricorrere per correggere il legno storto dell’umanità. Secondo Ingmar Persson e Julian Savulescu,66I. Persson, J. Savulescu, Inadatti al futuro. L’esigenza di un potenziamento morale, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020.
la crisi ambientale è il prodotto della nostra inadeguatezza morale: non abbiamo alcuna preoccupazione per il benessere delle generazioni future perché siamo programmati per cooperare esclusivamente all’interno di gruppi ristretti. Per questa ragione, essi ritengono che solamente un biopotenziamento dell’empatia per via biotecnologica potrebbe renderci veramente capaci di assumere un punto di vista fermo e generale. I potenziamenti a livello cognitivo potrebbero permettere un maggior controllo sui sentimenti, ma – secondo Persson e Savulescu – solamente un miglioramento dell’empatia potrebbe promuovere disposizioni più cooperative e giuste nei confronti delle generazioni più lontane. Dal loro punto di vista, poi, le tecnologie migliorative sono strumenti di liberazione in quanto ci permettono di controllare e, se necessario, riprogrammare completamente la natura umana. Intervenire sulla natura non è sbagliato: al contrario abbiamo la responsabilità morale di farlo, perché questo ci consente di migliorare – oltre che la nostra vita – quella delle prossime generazioni. Del resto, nemmeno la medicina o i farmaci a cui ricorriamo regolarmente sono naturali: ma nessuno si sognerebbe mai di sostenere che non dovremmo curarci o andare dal medico. La ragione è semplice: non vogliamo rinunciare a «vantaggi derivatici dagli antibiotici, dai vaccini, dalle tecniche di riproduzione assistita quali la fecondazione in vitro e perfino dagli occhiali».77A. J. Klotzko, Cloni di noi stessi? Scienza ed etica della clonazione, Utet, Torino, 2005, p. 90.
Inoltre, non soltanto una cosa può essere innaturale e, allo stesso tempo buona, ma ciò che è naturale non è necessariamente buono, in quanto ci sono tante cose cattive che accadono naturalmente“…ciò che è naturale non è necessariamente buono, in quanto ci sono tante cose cattive che accadono naturalmente”: «Il corso dei fenomeni naturali – diceva Mill – è zeppo di azioni le quali […] risultano degne del massimo aborrimento» che «chiunque tentasse di imitare nel proprio modo di agire il corso naturale delle cose, sarebbe universalmente considerato o riconosciuto come il più malvagio degli uomini».88J. S. Mill, Saggi sulla religione, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 52.
Per quale motivo, quindi, dovremmo accontentarci della nostra dotazione naturale di capacità e disposizioni e dovremmo rinunciare alle opportunità che ci promettono le nuove tecnologie?

Per altro, affermano i progressisti, non è vero che soltanto persone poco sensibili al benessere dei loro bambini potrebbero essere capaci di ricorrere a interventi di genome editing migliorativi, in quanto una scelta di questo tipo potrebbe essere motivata da ragioni puramente altruistiche. Secondo Savulescu, del resto, gli interventi di genome editing sono un imperativo morale, in quanto una migliore dotazione genetica assicura alla persona che nasce le migliori opportunità. È ovvio che chi viene potenziato potrebbe anche non mettere a frutto la propria dotazione, perché, comunque, qualsiasi capacità e disposizione richiedono impegno, esercizio e pratica: ma – afferma Savulescu – questo non mette in discussione il valore di un buon patrimonio genetico. Non c’è, infine, alcuna differenza tra i miglioramenti che incoraggiamo o produciamo attraverso l’educazione e quelli che invece possiamo ottenere attraverso interventi sul patrimonio genetico, in quanto entrambi producono di fatto un cambiamento delle capacità e disposizioni “naturali”. Se, cioè, approviamo e lodiamo i primi, non possiamo poi rifiutare o disprezzare gli altri: il risultato è lo stesso, e in entrambi i casi si ricorre a procedure che comportano l’impiego di tecnologie. Il rischio che gli interventi di genome editing promuovano la “competizione genetica” esiste – nel senso che i genitori potrebbero fare a gara per potenziare le dotazioni genetiche dei figli – tuttavia, secondo i progressisti, questo è un problema più sociale e politico che della tecnologia.

Le stesse considerazioni, poi, giustificano la modificazione dell’ambiente o degli animali non umani. Anche in questo caso bisogna prestare attenzione alle conseguenze, e questo significa che è doveroso accertarsi che le tecnologie impiegate non arrechino agli ecosistemi più danni che vantaggi. Tuttavia, secondo i progressisti, abbiamo il diritto di sfruttare la natura per i nostri interessi: lo dimostra il fatto che è da sempre che trasformiamo, anche geneticamente, il mondo naturale circostante attraverso – per esempio – pratiche tradizionali come la selezione e l’ibridazione. Perché, pertanto, dovremmo fermarci davanti alle nuove tecnologie di genome editing? Gli animali non umani non sono cose, perché possono soffrire e hanno anche una loro dignità, ma – sostengono i progressisti – le biotecnologie possono essere usate anche a loro vantaggio. Per esempio, per correggere il loro patrimonio genetico, per renderli più resistenti alle malattie e molto più adatti a vivere nel loro ambiente “naturale” oppure per potenziare le loro capacità. Non è un mero capriccio e nemmeno è semplicemente il desiderio di controllare gli animali, in quanto – afferma James Hughes – noi abbiamo il dovere morale di migliorare la loro condizione: «Lo stesso obbligo morale di potenziare le loro capacità che abbiamo nei confronti dei cittadini disabili che appartengono alla nostra specie lo abbiamo nei confronti dei cittadini animali disabili».99J. Hughes, Citizen Cyborg: Why Democratic Societies Must Respond To The Redesigned Human Of The Future, Westview, Cambridge, 2004.
Inoltre, le biotecnologie potrebbero essere impiegate per migliorare la loro sensibilità morale: per esempio, potremmo renderli meno aggressivi e paurosi o più cooperativi, razionali ed empatici. La questione diventa più complessa quando consideriamo la proposta di impiegare le biotecnologie per rendere gli animali insensibili alla sofferenza e privi di qualsiasi vita cosciente o mentale. L’obiettivo è quello di risolvere alla radice il problema della sofferenza degli animali impiegati negli allevamenti intensivi per la produzione alimentare o di altri beni e per la ricerca scientifica, ma in questo modo si rischia di rendere molto più accettabile il loro impiego e sfruttamento.

Dodo, personaggio del programma televisivo “L’albero azzurro”.

Il progetto di riportare in vita specie animali estinte sembra, invece, meno problematico: anche in questo caso, comunque, è importante considerare gli effetti, non soltanto per gli animali che appartengono alle specie riportate in vita, ma anche per quelli già esistenti in un ecosistema. Per esempio, gli animali che vengono introdotti potrebbero vivere in una condizione di solitudine, avere difficoltà a riprodursi o rappresentare una minaccia per la sopravvivenza di altre specie. Inoltre, una cosa è riportare in vita lo stambecco dei Pirenei, un’altra cosa è ricreare l’uomo di Neanderthal“…una cosa è riportare in vita lo stambecco dei Pirenei, un’altra cosa è ricreare l’uomo di Neanderthal”. A parte le questioni morali di carattere generale che riguardano il progetto di de-extinction, qui la questione è anche un’altra: questi esemplari sarebbero umani? E che diritti avrebbero? Al di là delle importanti differenze genetiche che l’uomo di Neanderthal presenta rispetto all’Homo sapiens, alcuni paleontologi ritengono che egli non appartenesse a un’altra specie.1010S. Cottrell, J. L. Jensen, S. L. Peck, Resuscitation and Resurrection: The Ethics of Cloning Cheetahs, Mammoths, and Neanderthals, «Life Sciences, Society and Policy», 10, n. 3, 2014, pp. 1-17.
Se l’uomo di Neanderthal apparteneva alla specie umana, allora anche i suoi discendenti sarebbero umani: noi, pertanto, potremmo avere anche l’interesse a studiarli e sottoporli a sperimentazioni, ma, essendo umani, sarebbe un crimine farlo senza informarli e avere il loro consenso. Cioè, molte delle ragioni per clonare gli uomini di Neanderthal (per ricerca, come bestie da soma ecc.) sarebbero inaccettabili dato che i Neanderthal sarebbero giuridicamente equivalenti agli umani.1111Ivi, p. 13.
Non potremmo, poi, nemmeno tenerli prigionieri in laboratorio o negli zoo, ma avremmo il dovere di favorire la loro piena integrazione all’interno della società e delle relazioni umane. Forse le cose sarebbero diverse se l’uomo di Neanderthal appartenesse a un’altra specie: qualcuno ipotizza che in questo caso saremmo moralmente giustificati a sfruttarlo a nostro piacimento: per esempio, per i lavori più duri, per la sperimentazione dei farmaci e nella ricerca biomedica. Tuttavia, sarebbe sbagliato portare al mondo un individuo non umano, ma comunque in grado di provare piacere e dolore e di parlare, soltanto per sfruttarlo e condannarlo a una vita di sofferenza: come afferma Jean-Jacques Hublin, «Noi non siamo dei dottor Frankenstein che usano i geni umani solamente per produrre creature e vedere come funzionano e qual è il risultato che otteniamo».1212Z. Zorich, Should We Clone Neanderthals? The Scientific, Legal and Ethical Obstacles, «Archaeology», 63, n. 2, 2010, pp. 34-41.
Anche se poi venissero trattati con rispetto, i cloni dell’uomo di Neanderthal potrebbero soffrire, in quanto non avrebbero probabilmente un gruppo sociale (forse costerebbe troppo clonare più esemplari o non avremmo interesse a farlo) o sarebbero percepiti come una minaccia.

La pratica di manipolazione biologica condotta tramite l’uso di innovazioni biomolecolari, mediche e tecnologiche è la cifra dell’incarnazione dell’umano non solo nella biologia ma anche nella tecnica. Il rischio che le biotecnologie vengano usate come strumento di oppressione non è eliminabile. Tuttavia, esse rappresentano anche lo strumento di liberazione per eccellenza, in quanto ci consentono non soltanto di correggere le nostre imperfezioni naturali – sia fisiche che cognitive –, ma anche di trasformare, insieme con la natura umana, anche il nostro mondo naturale e sociale. Per questa ragione, sarebbe un errore pensare che il motore dello sviluppo scientifico e tecnologico sia soltanto la ricerca di un maggiore controllo sulla natura attraverso la pratica e la conoscenza. Con l’aiuto delle tecnologie possiamo imparare a liberare la nostra immaginazione e a elaborare modelli di vita alternativi per una riprogettazione originale di noi stessi e del nostro mondo.

 

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di Maurizio Balistreri
  • Maurizio Balistreri è ricercatore di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Torino e responsabile scientifico del Comitato di Bioetica d’Ateneo dell’Università di Torino. I suoi ambiti di ricerca vanno dalla bioetica e dalla filosofia morale alla robotica e intelligenza artificiale. È stato presidente del Comitato di Bioetica del Policlinico militare dell’Ospedale Celio di Roma. È autore di La clonazione umana prima di Dolly (Mimesis, 2015), Il futuro della riproduzione umana (Fandango, 2016) e Sex robot. L’amore al tempo delle macchine (Fandango, 2018). Insieme ad altri autori ha scritto Biotecnologie e Modificazioni genetiche. Scienza, etica e diritto (Il Mulino, 2020).