Introduzione
Nell’era della simulazione digitale, l’immagine diviene un medium di seducente suggestione al servizio di un illusionismo iconoclastico, che nega all’immagine la sua stessa funzione rappresentativa. L’immagine non vuole più sembrare. L’immagine vuole essere.
Questo saggio si propone di osservare le dinamiche della rappresentazione del corpo in Realtà Virtuale, con l’obiettivo di studiare una nuova concezione di “corporeità”, tanto virtuale quanto “incarnata”. La Realtà Virtuale ci permette di non limitarci a manipolare piccoli avatar osservati in terza persona attraverso uno schermo, ma di “abitare” corpi virtuali, incarnandoli e assumendone lo sguardo tramite la costruzione di simulazioni sperimentate in prima persona. Questa possibilità di embodiment è stata fortemente attenzionata dagli studi cognitivi sull’empatia, che hanno dimostrato in diverse occasioni il potenziale della Realtà Virtuale nell’approccio all’alterità e nel superamento di bias razziali11Tabitha C. Peck et al., Putting yourself in the skin of a black avatar reduces implicit racial bias, «Consciousness and Cognition», a. 22, n. 3, pp. 779-787; Béatrice S. Hasler et al., Virtual race transformation reverses racial in-group bias, «PLoS ONE», a. 12, n. 4, 2017.
e di genere.22Sofia Seinfeld et al., Offenders become the victim in virtual reality: impact of changing perspective in domestic violence, «Scientific Reports», a. 8, n. 2692, 2018, pp. 1-11.
Permettendoci di abitare corpi virtuali altrui che possiamo sentire come nostri, la Realtà Virtuale porta allo sconvolgimento del più fondamentale dei pensieri dicotomici: il binomio io/altro.
Il corpo e l’avatar
L’alterità, per contrasto, definisce la nostra stessa identità. È per questo che se vogliamo osservare come la Realtà Virtuale sia in grado di rivoluzionare la nostra percezione dell’“altro-da-noi”, dobbiamo prima chiarire come configuriamo le nostre stesse identità virtuali. Il sé, nell’esperienza in VR, viene rappresentato dall’avatar, un corpo virtuale che ci permette di interagire fisicamente con l’immagine ambientale. L’avatar non è altro che una rappresentazione grafica che permette agli utenti di autolocalizzarsi in uno spazio virtuale, di essere presenti interagendo con gli avatar di altri giocatori e manipolando oggetti. Nei lavori in VR che lo permettono, come avveniva già nei “sandbox games”,33I sandbox games sono una tipologia di videogiochi incentrati sulla creatività del giocatore, in cui la libertà del giocatore nella scelta dei suoi obiettivi e delle sue azioni è al suo massimo. Sono spesso associati ai giochi “open world”, dal momento che entrambe le tipologie consentono al giocatore di esplorare l’ambiente virtuale con un alto grado di libertà di movimento.
l’utente è in grado di muoversi liberamente attraverso l’ambiente virtuale, esplorandolo.
L’avatar è un delegato del sé del giocatore all’interno del mondo virtuale, e le sue origini sono radicate nei concetti filosofici del “doppio”44Otto Rank, Il doppio. Uno studio psicoanalitico, SE, Milano, 2016 [1914].
e dell’“alter ego”.55Robbie Cooper et al., Alter Ego: Avatars and their Creators, Chris Boot, London, 2007.
Nelle libere interazioni tra avatar, Calleja66Gordon Calleja, In-Game. From immersion to incorporation, The MIT Press, Cambridge MA, 2011.
individua il concetto di “alterbiografia”,77Gordon Calleja, Experiential Narrative in Game Environments, in Breaking New Ground: Innovation in Games, Play, Practice and Theory, «Authors & Digital Games Research Association (DiGRA)», 2009.
ovvero una nuova tipologia narrativa legata all’ambiente virtuale e basata sulle libere e non programmate interazioni degli avatar determinate dalle scelte dei giocatori.
L’avatar non solo rappresenta l’utente, ma, quasi come fosse un’icona, lo incarna, lo rende presente. Come ha sottolineato Marin,88Louis Marin, Della rappresentazione, Meltemi, Milano 2001.
la rappresentazione stessa si basa su un processo di creazione di una copia, un doppio della “cosa reale” rappresentata. Questo processo di rappresentazione, grazie ai mezzi forniti dalle nuove tecnologie, degenera fino ad arrivare alla creazione dell’avatar, che però affonda le sue radici nello stesso slancio astorico che da sempre porta l’uomo a utilizzare la rappresentazione come uno strumento per dominare simbolicamente l’assenza – l’altro lato della presenza – e la morte.
Ma come è possibile, da un punto di vista neuroscientifico, una tale immedesimazione in un corpo non nostro, e per di più virtuale? Il livello di “embodiment”,99Konstantina Kilteni, Raphaela Groten, Mel Slater, The Sense of Embodiment in Virtual Reality, «Presence Teleoperators & Virtual Environments, 21(4), November 2012.
ovvero la sensazione che un corpo non sia solo un corpo, ma il nostro, può essere misurato sulla base di diversi indicatori, tra cui ha particolare rilevanza la body agency. Nell’ambito delle scienze cognitive, l’agency viene definita come la percezione di avere il controllo del proprio corpo,1010Otto Blanke, Thomas Metzinger, Full-body illusions and minimal phenomenal selfhood, «Trends in Cognitive Science», 13(1), 2009, pp. 7-13.
della propria esperienza soggettiva. L’agency si attiva con i movimenti e può rivelarsi disturbata, per esempio, nella “sindrome della mano aliena”,1111Ragesh Panikkath, Deepa Panikkath, Deb Mojumder, Kenneth Nugent, The alien hand syndrome, «Proceedings», 27(3), Baylor University Medical Center, 2014, pp. 219-220.
una patologia neurologica che determina l’indipendenza delle azioni della mano del paziente dalla sua volontà. Nell’esperienza in VR, la percezione di una corretta agency è fondamentale per rendere realistico il senso di appartenenza al proprio corpo virtuale. Kilteni, Groten e Slater1212Kilteni, Groten, Slater, cit., pp. 373-387.
fanno notare come l’agency sia data dalla coincidenza delle conseguenze previste dalla nostra azione e le conseguenze effettive, poiché alla presenza di correlazioni visuomotorie sincrone durante il movimento attivo ci si sente agenti di tali azioni. Questo vale anche per la nostra interazione con gli oggetti.
Quando l’esperienza in VR fornisce un elevato livello di embodiment derivato da una corretta body agency, il legame tra il sé del giocatore e il suo avatar ci permette di definire un nuovo tipo di soggettività, la soggettività dell’avatar, che potrebbe essere considerata l’evoluzione della soggettiva cinematografica e, successivamente, del first person shot videoludico. Il punto di vista dell’utente e del suo avatar coincidono perfettamente, aprendo le porte a una serie di implicazioni dovute all’immedesimazione diretta tra utente e avatar: prima tra tutte, l’empatia.
La ricerca dell’empatia nella Realtà Virtuale
Una delle applicazioni considerate più rilevanti della Realtà Virtuale è quella rivolta allo sviluppo e l’intensificazione della capacità umana di empatizzare. Ciò avviene proprio in virtù dell’identificazione dell’utente con il proprio avatar, che culmina con il fenomeno dell’auto-empatia, descritta da Frédéric Tord1313Frédéric Tord, Subjectivation, intersubjectivité et travail du lien dans le jeu vidéo de rôle en ligne massivement multijoueur, Tesi di dottorato in “Psychologie”, discussa il 27-11-2012 presso l’Università di Paris 10, École doctorale Connaissance, langage et modélisation (Nanterre).
come un processo che permette all’utente di immedesimarsi con “l’altro-in-sé”, creando una “visione interiorizzata” di sé stessi con il fine di rappresentare il proprio mondo soggettivo. Semplificando, identificandosi con il proprio avatar, l’utente prova empatia per esso, che tuttavia al tempo medesimo è sé stesso. L’empatia per il proprio avatar è quindi automaticamente reindirizzata verso sé stessi. Empatizzare con “l’altro-in-sé” apre di conseguenza alla possibilità di empatizzare con “l’altro-da-noi”, ovvero con l’ignoto, con l’alterità, con ciò che concepiamo come distante da noi ma di cui possiamo adottare l’immagine, interiorizzandola.
Diversi studi dimostrano come mettersi nei panni di un avatar diverso da noi stessi, e in particolare di un avatar con genere1414Cf. Seinfeld, cit.
o colore della pelle1515Cf. Peck, cit.; Hasler, cit.
differente dai propri, possa diminuire i bias di genere e razziali. In pratica la simulazione influenzerebbe la nostra cognizione sociale, poiché vedendoci letteralmente nei panni, anzi nel corpo dell’altro, ci sentiremmo più in sintonia, più vicini a ciò che solitamente consideriamo diverso da noi. Questo fenomeno più essere spiegato con la body ownership, ovvero l’auto-attribuzione di un corpo1616Shaun Gallagher, Philosophical conceptions of the self: Implications for cognitive science, «Trends in Cognitive Science», 4(1), 2000, pp. 14-21; Manos Tsakiris, Matthew R Longo, Patrick Haggard, Having a body versus moving your body: How agency structures body-ownership, «Consciousness and Cognition», 15(2), 2006, pp. 423-432.
basata sulla convinzione che quel corpo sia la fonte delle proprie sensazioni. Questa convinzione origina dalle informazioni sensoriali che arrivano al cervello tramite input cinestesici,1717La cinestesia è la capacità di percepire e localizzare il proprio corpo nello spazio senza il supporto della vista.
tattili e visivi. La body ownership può essere indotta attraverso processi cognitivi in grado di modulare l’elaborazione degli stimoli sensoriali: questo è ciò che avviene per esempio nella realtà virtuale, in cui l’utente arriva a presumere che un corpo artificiale possa essere il proprio.1818Cfr. Kilteni, Groten, Slater, cit.
La body ownership è esplorata nel dettaglio dal progetto The Machine To Be Another (TMBA)1919Sito web di BeAnotherLab. Ultimo accesso il 19/12/2021.
(fig. 1), che dal 2012 viene portato avanti dal BeAnotherLab. BeAnotherLab è un hub di ricerca interdisciplinare tra arte e nuove tecnologie con sede a Barcellona, basato sull’investigazione del rapporto identità ed empatia. Grazie alla collaborazione con neuroscienziati, psicologi, artisti, performer e programmatori, BeAnotherLab ha sviluppato The Machine To Be Another, un progetto che mira a sfruttare la full body ownership illusion per dimostrare come l’illusione cognitiva possa generare la sensazione di appartenere al corpo di un’altra persona, limitando di conseguenza il conflitto noi/altri. Il progetto vuole dimostrare che, dopo aver assunto il punto di vista dell’altro in modo letterale, è in grado di attivarsi un processo di empatizzazione che permette di superare i bias razziali e legati al genere.
La retorica dell’empatia nella realtà virtuale vorrebbe far credere che si possa avere «accesso diretto all’altro nella sua alterità senza riconoscerla nella sua irriducibilità»,2020Andrea Pinotti, Alla Soglia dell’Immagine. Da Narciso alla realtà virtuale, Einaudi, Torino, 2021, p. 185.
ma a un’analisi più attenta si potrebbe obiettare che la condizione necessaria per un’esperienza autenticamente empatica sia proprio la distinzione tra me e l’altro, l’immedesimazione nell’altro che avviene senza che vi sia alcun tipo di “fusione” tra le due entità.
In The Machine To Be Another l’utente è invitato a indossare il visore sedendosi di fronte a una persona del genere opposto. I due soggetti sono divisi da una tenda: non possono quindi vedersi a vicenda, ma attraverso il visore vedono l’uno la visuale dell’altra. Effettuano inizialmente movimenti coordinati, precedentemente definiti, esplorando il proprio corpo, che in questo caso è il corpo dell’altro. Al termine dell’esperienza la tenda viene sollevata e lo scambio di prospettiva permette all’utente di osservare sé stesso (guardando l’altro) come normalmente vede le altre persone, ovvero come un altro corpo di fronte a sé. L’utente guarda sé stesso in terza persona tramite lo sguardo prospettico dell’altro. I due partecipanti sono quindi invitati a esplorare i propri corpi a vicenda, prima vestiti e poi nudi.
Una connessione interspecie?
E se l’altro non appartenesse alla nostra specie? Saremmo in grado di empatizzare con la sua condizione esistenziale? Saremmo in grado di ibridarci con dei corpi animali, sentendoli come nostri? A partire dal 2013 Bianca Kennedy & The Swan Collective lavorano congiuntamente a installazioni video ed esperienze in Realtà Virtuale, interrogandosi sul futuro degli organismi, degli animali e dell’umanità nell’Antropocene. Le loro opere in Realtà Virtuale sono basate su quello che loro stessi definiscono un “environmental storytelling”2121https://www.kennedyswan.com/about
che vede lo svilupparsi di realtà alternative e utopiche in cui l’essere umano non predomina più sulle altre specie.
Nel 2019, Kennedy & The Swan Collective realizzano ANIMALIA SUM (fig. 2), presentato al Sundance Festival nel 2020. L’esperienza in VR, realizzata tramite scannerizzazioni in 3D dei paesaggi di Brasile, Canada e Islanda, animate da scannerizzazioni di miniature realizzate a mano, è narrata, ricalcando lo stile del documentario naturalista inglese, dalla voce fuoricampo di David Attenborough, celebre divulgatore scientifico britannico. L’opera racconta di una svolta nel futuro dell’alimentazione umana, la quale si basa principalmente sul consumo di insetti. Incredibilmente, l’osservatore assume il punto di vista degli insetti e vive l’intera vicenda dalla loro prospettiva, empatizzando con la loro condizione, vivendo il dramma degli allevamenti intensivi e ritrovandosi a precipitare nelle bocche degli umani. A questo punto della narrazione, gli insetti si riuniscono in una sorta di sindacato che propone il consumo della proteica carne di balena per il sostegno dell’alimentazione umana.
L’umanizzazione dell’insetto nell’atteggiamento, nei movimenti e nelle intenzioni influenza positivamente l’empatizzazione con la vicenda di questi esseri, che altrimenti sarebbe probabilmente ostacolata dalla difficoltà di identificazione in un corpo così differente dal nostro. Ma è interessante come l’esperienza in VR renda evidente il paradosso che vede noi esseri umani, pur essendo in prima istanza animali, considerare gli animali come entità totalmente “altre”, non appartenenti alla nostra categoria biologica.
Embodied cognition: VR e filosofia orientale oltre la dicotomia io-altro
All’età di quattro anni, l’artista taiwanese Hsin-chien Huang perde la vista dall’occhio destro. A quattordici anni, un trapianto di cornea gliela restituisce. Questa esperienza rivoluziona la sua concezione del rapporto tra corpo e vita: «It bestowed a whole new enlightenment of my life upon me: life and flesh are interchangeable and given. My corporeal flesh does not belong to me but a mysterious vessel that rests with me temporarily».2222http://hsinchienhuang.com/2_bio_cv.php?lang=en&detail=3
Inizia così un lungo percorso artistico che lo porta a sperimentare con la Realtà Virtuale il rapporto tra corpo, identità e simulazione, osservando le possibilità dell’embodied cognition nell’esperienza VR.
Nelle sue opere è molto evidente l’influenza del buddhismo tibetano. È interessante come questa dottrina sostenga l’assenza del sé, che viene piuttosto concepito come una convenzione, un qualcosa di nominale che utilizziamo per definire l’individuo, ma di cui è impossibile provare l’esistenza. Per la dottrina buddhista l’Io, la persona, il sé, sono solo un inganno della mente che crede di esistere così come ci concepiamo, come “Io”, e attiva tutte le varie forme di attaccamento e di avversione.
È questa la filosofia sulla quale si costruisce l’opera in VR La Camera Insabbiata, 2007 (fig. 3), realizzata con l’artista Laurie Anderson e premiata al 74esimo Festival del Cinema di Venezia, il primo a concepire una sezione dedicata alla Realtà Virtuale. L’opera, costituita da otto camere in cui l’osservatore può spostarsi, con una prospettiva in prima persona che conferisce l’illusione del volo, è una riflessione sulla memoria. Le pareti delle stanze sono lavagne che recano scritte parzialmente cancellate, poi ricalcate nuovamente con altre parole. In modo analogo, la mente è in grado di immagazzinare i ricordi, alcuni dei quali sbiadiscono, si confondono, vengono rimpiazzati con parziali verità, mentre altri rimangono impressi con una chiarezza immobile e definitiva. Lo spettatore fluttuante si chiede: di chi sono questi ricordi? Sono i miei? Il lavoro di Hsin-chien Huang e Laurie Anderson si configura come una visualizzazione, una trasposizione di una memoria collettiva, confusa e combinata in un ambiente immersivo che diviene metafora della disgregazione del sé individuale.
Il fatto che Huang e Anderson lavorino sulla memoria in un’opera di ispirazione buddhista realizzata in VR risulta estremamente coerente. L’opera, infatti, è ispirata al concetto buddista tibetano del bardo, uno stato liminale tra morte e rinascita che dura 49 giorni, durante i quali la coscienza e la memoria sono dissipate in tutto l’universo. Questo stato di indeterminatezza annulla il confine tra identità personale e coscienza collettiva, superando il binomio io/altro per approdare alla dimensione spirituale del tutto.
Nella tradizione occidentale, invece, è Locke a individuare una connessione tra i ricordi e la coscienza:
«È la continuità della coscienza che crea l’identità personale – non ne è solo un sintomo, ma ne è la causa: non è la continuità di una sostanza sottostante che permette di parlare del medesimo soggetto al variare del tempo, ma la connessione (nel ricordo) delle sue esperienze coscienti».2323Michele Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 69.
Il ricordo sarebbe quindi la prova inconfutabile dell’esistenza del sé che il buddhismo nega. Ma come fa notare Michele Di Francesco, questa continuità nei ricordi «[…] è tutt’altro che scontata, e i tentativi di specificarla aprono la strada a esiti paradossali che conducono a concepire persone non-umane, non-biologiche, non-individuali (di gruppo), così come a immaginare fusioni, fissioni e persino co-abitazioni nello stesso corpo di persone distinte».2424Michele Di Francesco, Ivi, p. 69.
In effetti, lo stesso Locke apre alla possibilità di «catene causali devianti in grado di connettere nei modi più vari e fantasiosi insiemi di esperienze in catene di ricordi (o quasi-ricordi), creando “persone lockiane” arbitrarie».2525Michele Di Francesco, Ivi, p. 69.
Ciò avviene poiché non è necessariamente detto che «il soggetto che ricorda e il soggetto dell’esperienza ricordata»2626Derek Antony Parfit, Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford, 1984, p. 281.
siano la stessa persona. Possiamo concludere che il rapporto di una tecnologia avanzata come quella della Realtà Virtuale con le antiche filosofie orientali, apparentemente paradossale, risulta a un’analisi più ravvicinata estremamente coerente.
Lo sviluppo delle tecnologie di simulazione come la Realtà Virtuale apre quindi una serie di possibilità che riguardano i corpi e le identità, che mutano in relazione al rapporto con l’alterità. In alcune esperienze in VR il binomio io/altro viene scardinato, fuso in un tutt’uno. Ma non è necessariamente la perfezione della tecnica a garantire l’immersività o le varie illusioni cognitive di cui la nostra percezione è partecipe. Sono piuttosto le tematiche ricorrenti nelle esperienze in VR (rapporto realtà-finzione, out of body experience, embodiment anche interspecie) a dimostrare un interesse diffuso per la potenzialità che questo medium sembra prospettare nel campo delle scienze cognitive, che hanno oggi la possibilità di scrivere una nuova pagina nella storia dell’immagine.
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Laura Cocciolillo (Roma, 1997) si laurea nel 2019 in Arte Contemporanea presso La Sapienza di Roma con una tesi sulle pratiche curatoriali per la net art nel 21° secolo. Attualmente frequenta un corso di laurea magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici presso Università Ca' Foscari di Venezia. La sua ricerca si concentra principalmente sul rapporto tra arte e nuove tecnologie, in particolare sulla cultura visuale e l'estetica dei nuovi media. Tra le sue pubblicazioni: “Net Art e hacktivism. L'artivismo in rete dagli anni Novanta ad oggi” in «Connessioni Remote», n.2, 02/2021, Università degli Studi di Milano; ""Second Life: first steps into the virtual scape in visual arts" in «Meta.space» Francisco Carolinum Linz, Vienna, 2022.
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SITOGRAFIA
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