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Rileggere l’“immagine” della città: architettura e paesaggio sonoro
Magazine, LOCUS - Part II - Maggio 2021
Tempo di lettura: 11 min
Martino Mocchi

Rileggere l’“immagine” della città: architettura e paesaggio sonoro

Paesaggio sonoro e spazio costruito. Tracce di un incontro-scontro.

Li Tin-lun, Living Soundscape, Stainless Steel Installation, 2015, courtesy the artist.

 

Presentiamo un estratto da Città di suono. Per un incontro tra paesaggio sonoro e architettura (LetteraVentidue, 2020). L’autore partecipa al secondo numero di “Locus” con un contributo che vuole essere d’aiuto per quei ricercatori e artisti che intendono approfondire la relazione tra il paesaggio e il suono.


Era il 1969 quando Michael Southworth, allora giovane allievo di Kevin Lynch all’MIT, diede alle stampe un lungimirante articolo intitolato The sonic environment of the cities, dove venivano focalizzati alcuni dei problemi che sono stati al centro del dibattito successivo. Oltre ad anticipare lo stesso concetto di soundscape, formalizzato da Schafer alcuni anni più tardi, Southworth si rendeva perfettamente conto della connotazione qualitativa di questa nozione, indicando il paesaggio sonoro come una componente imprescindibile per la comprensione della città contemporanea, interpretata come esperienza multisensoriale. «È importante esplorare le conseguenze dell’invasione di sensazioni non-visive per la vita della città, e chiedersi in che modo il loro controllo possa migliorarne la qualità».11Southworth Michael, The sonic environment of the cities, in “Environment and Behavior”, Vol. 1(1), Jun 1969, p. 49, traduzione mia.

Specchio acustico presso Abbott_s Cliff (Inghilterra).

Il compito attribuito al progettista è quello di disegnare uno spazio che non soddisfi soltanto l’occhio, ma anche i cosiddetti “sensi minori” per rendere le città meno stressanti e più piacevoli, sviluppando al contempo nei cittadini una nuova attenzione e consapevolezza che possa essere alla base della costruzione di ambienti più vicini alla vita e agli scopi dell’abitare. Riferendosi alla figura del sonic designer, Southworth prova a definire delle linee guida e una sorta di metodo attraverso cui procedere. Il nodo sta nella possibilità di integrare il tradizionale approccio finalizzato alla riduzione del rumore con un atteggiamento più positivo, volto a inserire nuovi suoni nel contesto urbano, con lo scopo di «a) migliorare l’identità del paesaggio sonoro, b) rafforzare il numero dei suoni piacevoli e trovare dei criteri per favorire suoni nuovi, c) rafforzare la correlazione tra il suono e lo spazio visivo dell’attività umana».22Ivi, p. 67.

Interessante il tentativo di classificare gli spazi urbani attraverso una lettura acustica che ne sappia mettere in risalto la portata sociale e collettiva, per poi derivare le strategie da attuare per il loro trattamento. Particolarmente anticipatoria l’idea di individuare all’interno della città delle “oasi pubbliche”, per aumentare la presenza del silenzio, come elemento fondamentale per favorire la distensione emotiva dei cittadini, riducendo lo stress della vita urbana. Osservazione che è stata recepita a livello normativo solo trent’anni più tardi, con la Direttiva Europea 2002/49, che promuove l’individuazione e la promozione di “zone silenziose” – o “aree di quiete” – negli ambienti urbani e rurali.

Oltre alle “oasi”, la proposta di Southworth ipotizza altre classi spaziali attraverso cui rafforzare la caratterizzazione sonora della città“…la proposta di Southworth ipotizza altre classi spaziali attraverso cui rafforzare la caratterizzazione sonora della città”. Gli ampi spazi aperti, per esempio, sono connotati da un’ambiguità acustica, che può servire alla propagazione di suoni di ampio raggio. Tali spazi sono adatti a ospitare eventi pubblici, per mettere in risalto l’interazione tra effetti acustici e visivi, utilizzando campane, sirene, fuochi d’artificio ecc. La seconda classe include quegli ambienti che oggi definiremmo “interni urbani”: spazi stretti, acusticamente reattivi, come i vicoli o i portici, che possono essere animati attraverso diffusori, installazioni, sculture sonore, magari al solo passaggio dell’individuo, oppure diventare la sede per giochi che coinvolgono bambini e ragazzi. Ci sono poi i segni sonori, di grande riconoscibilità e significanza, usati per caratterizzare i vari ambienti, trasmettendo informazioni socialmente rilevanti e rendendo di conseguenza la città un organismo capace di comunicare, orientare, guidare e informare il pubblico. Anche in questo caso si può notare la lungimiranza di queste riflessioni rispetto ad alcuni temi presenti nel dibattito contemporaneo, come quello di smart city.

Cartolina della mostra “Sonorità Prospettiche”, ideata nel 1982 da Roberto Taroni, con l’aiuto di Franco Masotti, Roberto Masotti e Veniero Rizzardi. La mostra è storicamente considerata una tra le prime cinque, a livello mondiale, incentrata sui rapporti tra suono,arti visive, musica, anche in relazione con l’Ambiente.

Emerge il tentativo di costruire dei riferimenti che possano portare a un miglioramento dei percorsi di lettura del territorio e delle modalità di progettazione, e al contempo un aumento della consapevolezza rispetto ad alcuni temi. Coerentemente con le sperimentazioni avviate da Lynch, Southworth tenta di formalizzare delle pratiche di coinvolgimento del pubblico, per favorire un ripensamento complessivo dei modelli e degli schemi tradizionali del progetto. La lettura acustica del territorio si afferma come esito di percorsi guidati“…La lettura acustica del territorio si afferma come esito di percorsi guidati”, sondaggi di opinione, interviste con gli abitanti. Se da un lato questo rappresenta un elemento innovativo, che anticipa di decenni alcune tendenze oggi legate al tema della “partecipazione attiva”, dall’altro confina la riflessione in una dimensione circoscritta, sperimentale, che non riesce a tradursi in modelli a scala sovralocale.

La lungimiranza della riflessione di Southworth, il riconoscimento dell’importanza del suono nel processo di interpretazione e di progettazione della città, la forte spinta sperimentale, la presa di coscienza del fatto che fosse necessario «ridurre e controllare il rumore» ma allo stesso tempo «aumentare il livello di informazione del paesaggio sonoro»33Ivi, p. 70.
pongono oggi degli interrogativi. Come mai, a distanza di oltre cinquant’anni, l’apparato teorico e strumentale che ha sotteso lo sviluppo urbano non ha saputo tenere conto di queste intuizioni? Come mai l’evoluzione normativa è di fatto rimasta legata a un sistema di vincoli prevalentemente quantitativi, incapaci di adeguarsi ad alcune dinamiche già ben individuate?

“Sonorità Prospettiche”. Scatti della performance di Terry Fox alla Pescheria di Rimini, 1982.

 

Paesaggio e paesaggio sonoro. Verso una prospettiva multisensoriale

La risposta è complessa, sostenuta da modelli estremamente radicati nelle forme del nostro pensiero e della nostra rappresentazione. Il “pregiudizio percettivo” alla base della cultura occidentale, che attribuisce una priorità assoluta alla vista nei processi di conoscenza del mondo, determina uno spostamento anche a livello espressivo e comunicativo, sembrando a volte togliere il fondamento stesso per una collaborazione umana fondata su altri riferimenti sensoriali. L’epoca dell’“immagine” – resa sempre più pervasiva dai tanti supporti e schermi che ci circondano – tende ad assorbire all’interno della propria sfera di dominio ogni manifestazione che sfugga al suo controllo.

Tante delle nostre espressioni quotidiane dimostrano chiaramente questo scarto. Ogni volta che prendiamo posizione nel mondo esprimiamo un “punto di vista”, ci differenziamo per le nostre “visioni”, cerchiamo di “metterci in vista”. Ma non solo: “ho visto un bel concerto”, “ci vediamo stasera”, “tieni gli occhi aperti” ecc. esprimono chiaramente la tendenza a equiparare l’essenza del soggetto e del suo operare con il portato visivo della sua immagine. Metafora ben nota fin dall’antichità, come dimostra la celebre considerazione platonica dell’occhio “specchio dell’anima” o la massima di Erodoto secondo cui “gli uomini si fidano delle orecchie meno che degli occhi”. O ancora, in tempi più recenti, Hegel, secondo cui “se ci chiediamo in quale organo particolare l’intera anima appaia come tale, noi pensiamo subito all’occhio”.44Le citazioni rimandano rispettivamente a: Platone, Fedro, cap. 36; Erodoto, Storie, I, 8; Hegel, Lezioni di estetica, Parte prima, III, A1.
La vicinanza tra l’immagine dell’occhio e il concetto di verità rappresenta un’ulteriore conferma in questo senso: “gli occhi non mentono”…

Anche il linguaggio musicale, apparentemente costruito per riferirsi in modo specialistico all’orizzonte sonoro, risente di questa influenza: all’interno della composizione ogni suono ha un “colore”, un’“altezza”, un’“intensità”, un “timbro”. L’ambiguità del “sentire”, poi, e la pressoché totale assenza dal nostro linguaggio corrente di termini come “ascoltare” o “udire” confermano la stessa ipotesi. Una breve panoramica, dunque, che potrebbe essere conclusa da un detto toscano secondo cui, onde evitare problemi, “val più un testimone di vista che mille d’udito”.

All’interno degli studi sul paesaggio sonoro tale situazione ha prodotto delle conseguenze rilevanti, necessitando la messa a punto di un lessico che spesso si allontana dall’utilizzo quotidiano dei termini, rendendo più difficile la comprensione del messaggio da parte del pubblico e richiedendo delle ampie operazioni preliminari per avviare un confronto tra gli stessi specialisti. Un’impresa di delimitazione del campo che di fatto determina una difficoltà di comunicazione tra gli ambiti di studio sul paesaggio sonoro e i luoghi più tradizionalmente deputati alla ricerca.

Lo stesso concetto di “paesaggio sonoro” necessiterebbe qualche ulteriore chiarimento. La traduzione europea del termine inglese soundscape, infatti – che oltre alla versione italiana (paesaggio sonoro) comprende quella francese (paysage sonore), spagnola (paisaje sonoro) e tedesca (Klanglandschaft) –, introduce uno spostamento di significato rispetto al concetto originario. Laddove è evidente che il termine inglese rimanda a un nucleo semantico ben definito, che a partire dal concetto di “landscape” sostituisce la “forma” e la “qualità” (-shape, –ship) della “terra” (land-) con quella del “suono” (sound-), la variante europea si caratterizza per l’aggiunta di una specificazione (“sonoro”) a un concetto già ampiamente connotato all’interno di una tradizione estetico-visiva.

Il paesaggio non è esauribile né confondibile con la “natura”.

Come noto, il termine “paesaggio” si lega fin dalla sua nascita all’idea di una perimetrazione della “veduta” del “paese” (pays-), come espressione dell’azione umana sulla terra. Esito di uno scontro tra artificio e natura che si concretizza in uno “sguardo” in grado di esprimere il legame tra soggetto, cultura e territorio.

La tradizione pittorica del concetto e la necessità di costruire la scena attraverso l’individuazione di una “prospettiva” da cui osservare sembrano legare in maniera indissolubile il paesaggio a uno sfondo percettivo dominato dal senso della vista. Una dimensione all’interno della quale l’aggiunta del “sonoro” fa fatica a trovare il proprio spazio specifico, dando forma a una nuova unità difficilmente riconoscibile.

L’artista R. Murray Schafer durante un passeggiata sonora.

Una possibile definizione del termine paesaggio sonoro rimanda ancora oggi alla versione più attestata e diffusa di Murray Schafer, risalente al 1977, che interpreta il concetto come «qualsiasi campo di studio acustico», tale per cui «possiamo parlare di una composizione musicale come paesaggio sonoro, o di un programma radiofonico come paesaggio sonoro, o di un ambiente acustico in generale come paesaggio sonoro».55Murray Schafer Raymond, Il paesaggio sonoro, Ricordi Lim, Milano, 1983, p. 19.
Un riferimento quindi vasto, che non riesce – ma nemmeno tenta, per la verità – a specificare il proprio oggetto, ponendolo al contrario come conseguenza di un ampio campo di indagine, che richiede il coinvolgimento di numerose aree e competenze disciplinari.

Altre ipotesi di definizione sono state proposte nei decenni successivi, come quella della Careggi Landscape Declaration on Soundscape, secondo cui il paesaggio sonoro rappresenta «la proprietà acustica di qualsiasi paesaggio in relazione alla percezione specifica di una specie […] il risultato delle manifestazioni e dinamiche fisiche (geofonie), biologiche (biofonie) e umane (antropofonie)».66Si veda Rocca Lorena (a cura di), I suoni dei luoghi. Percorsi di geografia degli ascolti, Carocci, Roma, 2019, p. 13.
Oppure quella più tecnica introdotta dalla norma UNI ISO 12913-1:2015, che definisce il paesaggio sonoro come un «ambiente acustico come viene percepito e/o compreso da una persona o persone, in un contesto».

Al di là dei leziosismi terminologici, la ricerca di una definizione del concetto di paesaggio sonoro si lega al problema della sua collocazione nel dibattito contemporaneo. Rivelandone l’inedita centralità rispetto all’auspicabile revisione del processo percettivo a fondamento della relazione tra uomo e ambiente.

La più recente interpretazione del paesaggio allude a un’esperienza in cui il soggetto entra in contatto con una dimensione non soltanto spaziale, ma anche e primariamente storico-temporale. «Il paesaggio non è esauribile né confondibile con la “natura” o l’“ambiente”. Il paesaggio è un conio stratificato e complesso del dialogo di una comunità, di una forma culturale, con una natura che si dà localmente, ossia con tratti specifici, peculiari, differenziati. Mentre il paradigma ambientale è biologico-scientifico, naturalistico, quello paesaggistico è un paradigma culturale ed etico», afferma Luisa Bonesio.77Bonesio Luisa, Resta Caterina, Intervista sulla geofilosofia, Diabasis, Reggio Emilia, 2010, p. 25.
Un evento costantemente in divenire, prodotto dall’azione di innumerevoli autori, in una costante trasformazione degli orizzonti culturali e interpretativi. Un’opera singolare, risultato della dialettica tra le molteplici sensibilità individuali che vi operano, i percorsi educativi, le costruzioni di senso collettivo.

Documento della composizione 4′33″ di John Cage, 1952.

Per comprendere questa complessa dinamica, il tradizionale riferimento al visivo come unica sfera sensoriale risulta una semplificazione. La rappresentazione del paesaggio come “immagine-cartolina” dovrebbe implicare un più profondo atto di “immersione” nella tonalità complessiva di un contesto emozionale. Una prospettiva in cui il sonoro gioca un ruolo fondamentale, segnando la necessità di estendere la pertinenza della “veduta” a un orizzonte multisensoriale, dove i cosiddetti sensi minori svolgono un ruolo imprescindibile nel determinare i legami simbolici tra il soggetto e il luogo.

Almeno a livello percettivo, l’inclusione del suono all’interno dell’area semantica del paesaggio porta quindi a compimento quella «“conversione” dello sguardo» che implica un «faticoso – e spesso doloroso – apprendistato intellettuale ed esistenziale insieme». Da cui può nascere una unità a cui «la Terra stessa aspira oggi, come forse solo nei primordi della sua storia».88Ivi, p. 12.
Una visione che Caterina Resta e Luisa Bonesio pongono a fondamento del concetto di “geofilosofia”, legando la considerazione estetico-percettiva a una inseparabile dimensione politica e di gestione, decisiva per il controllo, il trattamento e la costruzione del significato dei luoghi.

Tale affermazione permette di comprendere non solo l’apporto fondamentale del suono rispetto alla riflessione più complessiva sul “paesaggio”, ma anche e soprattutto l’ampliamento di quest’ultimo termine da un orizzonte meramente interpretativo a una dimensione proiettiva-progettuale. Scrive Schiaffonati: «Solo una concezione di paesaggio come complesso sistema di relazioni tra passato e presente e nel contempo conoscenza dei processi di trasformazione ambientale può consentire di stabilire una dimensione critica rispetto a molte derive della globalizzazione e della omologazione dei luoghi».99Schiaffonati Fabrizio, Paesaggi milanesi. Per una sociologia del paesaggio urbano, Lupetti, Milano, 2019, p. 14.
Una considerazione che fa emergere il legame inscindibile tra la qualità delle relazioni nel luogo e il percorso che le ha generate e le riconfigurerà in futuro. Si tratta di una conclusione che colloca la riflessione sul paesaggio sonoro come chiave strategica per dare senso al progetto contemporaneo, come esito di una lettura complessa dei luoghi e come strumento per innescare una trasformazione non solo fisica, ma anche fruitiva e sociale.

Nella sua radicale ambivalenza, quindi, è forse proprio la nozione di “paesaggio sonoro” che riesce inconsapevolmente ad andare oltre la più coerente e radicale nozione di soundscape, stabilendo dei punti di contatto con discipline più consolidate, aprendo spazi di collaborazione entro cui apportare un contributo.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Martino Mocchi
  • Martino Mocchi è dottore in Filosofia e dottore di ricerca in “Progetto e tecnologie per la valorizzazione dei beni culturali”. Svolge attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento ABC del Politecnico di Milano sui temi del paesaggio urbano e della multisensorialità, con particolare riferimento al contesto della residenzialità universitaria. È autore di diverse pubblicazioni su questi temi.