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Appunti per un’estetica ecoqueer
Magazine, AUTOCOSCIENZA - Parte I - Gennaio 2024
Tempo di lettura: 14 min
Dario Alì, Vincenzo Grasso

Appunti per un’estetica ecoqueer

La queerness nella rappresentazione della Natura attraverso le opere di Yuki Kihara, Zheng Bo, Kuang-Yi Ku e Mary Maggic.

Yuki Kihara, Paradise Camp, 2022.

Di seguito pubblichiamo un saggio di Dario Alì e Vincenzo Grasso contenuto nel libro QUEER PANDÈMIA, edito da Tlon nel 2023 e a cura di TWM Factory. QUEER PANDÈMIA è un progetto transdisciplinare che intende portare maggiore rappresentazione queer nel mondo dell’arte, presentando giovani artist3 e autor3 della comunità LGBTQIA+ e coinvolgendo realtà e settori creativi differenti in una commistione che promuova il dialogo, l’inclusione e la contaminazione. QUEER PANDÈMIA fa parte di ULTRAQUEER, rassegna sulle espressioni artistiche queer emergenti nata a Roma a giugno 2022.


Nel celebre dipinto Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897), Paul Gauguin mette in scena un’idea di natura che ruota intorno al ciclo di nascita, crescita e riproduzione dell’essere umano, attraverso la rappresentazione pittorica di un eden ambientato a Tahiti. Tre figure, procedendo da destra verso sinistra, governano la narrazione: un bambino in fasce, un giovane uomo nel pieno della sua forza riproduttiva, un anziano morente. 

Paul Gaugin, Da dove veniamo? Chi siamo?Dove andiamo?, 1897.

In occasione della 59esima edizione della Biennale di Venezia 2022, la presentazione della mostra Paradise Camp, all’interno del padiglione neozelandese, dell’artista indigena e queer Yuki Kihara, a cura di Natalie King, disvela lo sguardo econormativo che ha forgiato la produzione pittorica di Gauguin. Composta da una serie di fotografie, video e materiali d’archivio, la mostra intende rivendicare l’identità fa’afafine contro le consuete rappresentazioni eteronormative con cui storicamente i colonizzatori hanno descritto le popolazioni indigene. Con il termine samoano fa’afafine si intendono persone con sesso maschile alla nascita che assumono caratteri e modelli di comportamento associati al genere femminile; tuttavia, nella cultura samoana, le fa’afafine rappresentano un vero e proprio terzo genere, distinto da quello maschile e femminile, che assume i connotati di un’identità fluida e non binaria.

Yuki Kihara, Paradise Camp, 2022.
Guardando a come la storia dell’arte occidentale, in particolare nell’opera di Gauguin, ha trattato figurativamente le popolazioni del Pacifico usando fotografie e documenti coloniali di persone e luoghi conquistati e razzializzati, Kihara produce un intervento intersezionale in cui convergono postcolonialità, ambientalismo e prospettiva di genere. L’azione consiste nel riprodurre, attraverso il medium fotografico e performativo, celebri dipinti – come quello, appunto citato, di Gauguin – realizzati per soddisfare il desiderio di esotismo del pubblico occidentale dell’epoca. 

Mettendo dunque in questione l’immagine tradizionale del paradiso, ereditata dalla cultura e dalla storia dell’arte occidentali come diretta espressione di una visione bianca, eterosessuale e cisgender del mondo, l’artista mette in scena, da una prospettiva che potremmo senza fatica definire ecoqueer, una rappresentazione del mondo e dei suoi abitanti «più indigena, inclusiva e sensibile ai cambiamenti climatici».11C. Baldacci, Intervista a Yuki Kihara, «Lei», Università Ca’ Foscari di Venezia, n. 7, dicembre 2022, p. 46.
Le tre figure maschili centrali nella rappresentazione di Gauguin, espressione di una visione della vita che culmina nella riproduzione e prosecuzione della specie umana, spariscono sostituite da soggettività non binarie e indisciplinate. Da destra verso sinistra, Kihara mette in scena infatti le molteplici e imprevedibili evoluzioni di un percorso identitario impossibile da normare, rappresentando una ecologia queer e ricordandoci, al contempo, che la natura prodotta dallo sguardo eco(etero)normativo è fatta per riprodursi. 

L’eco(etero)normatività è la rappresentazione della natura come un reame prescrittivo fondato sui meccanismi di riproduzione sessuata. All’interno di questa rappresentazione, che si impone nel nostro immaginario come paradigma socioculturale, teologico ed evoluzionistico, siamo tuttə, in qualche modo, immersə. 

L’econormatività può essere compresa a partire da un insieme di coordinate. Un primo sentiero è solcato dalla speculazione teologica e filosofica propria di una lunga stagione del pensiero occidentale, segnata dal cristianesimo e rintracciabile negli scritti di alcuni filosofi medievali.22In particolare si fa riferimento al pensiero di Alano di Lilla (1125-1202), al centro del quale si pone una coincidenza tra il piano dell’onnipotenza e quello della creazione al fine di delineare una serie di comportamenti “contra naturam” (J. Chiffoleau, Contra naturam, in J. Chiffoleau, Y. Thomas, L’istituzione della natura, Quodlibet, Macerata 2020 p. 77).
La natura medievale è infatti principalmente vicaria del dio creatore: manifestazione dell’onnipotenza del progetto divino, è riconsiderata come opera del dio e detiene il potere di determinare negativamente tutto ciò che non segue il suo ordine, vale a dire ciò che è considerato contronatura (principalmente sodomia, eresia, stregoneria). La definizione di una categoria di “crimini contronatura” accompagnerà infatti, tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, la nascita dell’Inquisizione che, nei secoli successivi, condannerà a morte soggettività femminili, omosessuali e nonbinary.33Cfr. J. Chiffoleau, Contra naturam, op. cit.
 

La seconda coordinata per comprendere l’econormatività conduce invece alla teoria darwiniana della selezione sessuale, ossia l’idea che le specie competano al gioco della sopravvivenza incentrando la propria attività nella ricerca del migliore partner riproduttivo: in questa prospettiva, il ciclo di nascita, crescita e riproduzione assicura la sopravvivenza delle specie dominanti. L’estetica econormativa prescrive come naturali corpi fondati sulla coincidenza tra sesso biologico e genere: sono corpi a cui la dimensione del godimento, pura e svincolata dal suo telos riproduttivo, è preclusa, sono corpi nati biologicamente per vincere, per non fallire. L’econormatività è quindi una proiezione del paradigma eterosessista sulla natura e, come tale, nient’altro che un’intepretazione potenzialmente scardinabile. Già Michel Foucault, infatti, nella sua Storia della Sessualità, considerava l’istituzione di categorie quali “eterosessuale” e “omosessuale” come il prodotto di un processo di naturalizzazione della sessualità, dove il secondo termine viene concepito, all’interno della società, come espressione del fallimento biologico. La natura, però, fa presto a sgretolare questa convinzione. 

Tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, gli studi queer hanno dimostrato come la natura spesso sfugga alle prescrizioni econormative, mostrando anzi in molte occasioni caratteristiche devianti rispetto alla norma: potremmo dire che la natura stessa sia contronatura e, in altre parole, queer. Non solo in tutti i regni della biologia sono riscontrabili comportamenti omosessuali, ma il dimorfismo sessuale in natura – come mostra Myra J. Hird in Naturally Queer – non è in alcun modo legato alla riproduzione sessuale: «I maschi del cavalluccio marino, come quelli del drago e della lepre di mare sono in grado di rimanere gravidi. Molte specie prevedono l’essere maschi e femmine simultaneamente o in modo sequenziale». E continua: «In questo momento, la maggior parte degli organismi in quattro dei cinque regni non richiedono il sesso per la riproduzione. Immaginate un manuale erotico44L’espressione originale è “The Joy of Sex” in riferimento al manuale erotico illustrato di Alex Comfort nel 1972, di grande popolarità nei paesi anglofoni.
per piante, funghi e batteri. Lo schizophyllum, ad esempio, ha più di 28.000 sessi».55M. J. Hird, Naturally Queer, «Feminist Theory», vol. 5(1): 85-89, 2004, pp. 85-86.

Più ci si addentra nell’immaginario ecoqueer, più i confini tra gli organismi divengono irrimediabilmente sfocati, confondendosi intimamente l’un l’altro. La rivolta alle tassonomie eterosessiste si origina all’interno della stessa natura. Un’ecologia queer tenterà quindi di scardinare questo paradigma, fondando le sue premesse su inclusività, equità, biodiversità e condivisione. L’ecologia queer estende perciò il concetto di queerness a tutte le specie viventi e non come strutturalmente connesse tra loro in meccanismi di reciproca intra-azione. Ciò ci consente di schierare un nuovo e potente immaginario che, all’interno di un’unica prospettiva, coniuga la lotta al patriarcato, all’eteronormatività e al colonialismo con quella all’antropocentrismo e allo specismo. 

Questa rappresentazione queer dello stare al mondo, che è evidente in natura, nella nostra società può essere resa manifesta attraverso lo sforzo immaginativo dell’arte. Se è dunque vero che il queer non è inscritto in alcun disegno econormativo, non ricerca finalità riproduttive e in esso le soggettività che lo abitano si ribellano alle tassonomie eterosessiste, allora la rappresentazione estetica e artistica dell’ecologia queer dovrà pertanto necessariamente seguire questi medesimi atti di trasgressione.

Manifesto ecosessuale, Elizabeth Stephens e Annie Sprinkle, 2010.

La dimensione ricreativa del godimento 

Nell’immaginario artistico occidentale, la natura è tradizionalmente associata a una figura femminile, tendenzialmente materna. Tuttavia, “Madre Natura” è tutt’altro che un’icona femminista. Anzi, la sua rappresentazione, afferma Timothy Morton,66Cfr. T. Morton, Ecologia queer, in AA. VV., Earthbound: superare l’Antropocene, Kabul Editions, Milano 2022.
è pregna di mascolinità. Concepita dallo sguardo maschile, la natura diviene spazio per l’esercizio della virilità e della soggettivizzazione del maschio: distese di paesaggi aperti, incontaminati e selvaggi da conquistare. L’ecologia queer può proporre un superamento di questa prospettiva attraverso, per esempio, una rappresentazione che associ la natura, più che a una figura genitoriale, a un’amante, come suggerisce il Manifesto ecosessuale: «La Terra è la nostra amante. Ne siamo pazzamente, appassionatamente e fieramente innamorati e innamorate». Con queste parole, Elizabeth Stephens e Annie Sprinkle invitano a riscoprire la dimensione erotica e amorosa della natura, da ricercare nella bellezza e sinuosità delle sue forme. Questo atto performativo con la natura definisce dunque una prima strategia per trasgredire i confini ristretti dell’econormatività, attraverso la ricerca di una dimensione ricreativa della sessualità che si espliciti nel godimento e nell’elaborazione del desiderio.

Annie Sprinkle (a destra) con Beth Stephens. Ph. PR image.

L’immaginario delineato dal Manifesto trova un suo puntuale riscontro in Pteridophilia, una serie di video (al momento cinque) realizzati dal 2016 dall’artista cinese Zheng Bo in cui il tema dell’ecosessualità è affrontato da una prospettiva che estende i concetti di relazionalità e sessualità queer fino a includervi il mondo naturale. Il lavoro, infatti, recupera dichiaratamente i presupposti teorici dell’ecologia queer rigettando le consuete categorie binarie su cui tradizionalmente fondiamo l’identità e la nostra visione artefatta e reificata della natura. Scene di intimità fisica tra persone queer e piante si svolgono sullo sfondo di una suggestiva foresta di felci a Taiwan. Qui, il contesto naturale si connota di una forte valenza erotica che accoglie anche pratiche sessuali BDSM: i protagonisti si muovono sinuosamente tra piante e alberi sfregando i capezzoli contro steli appuntiti e stuzzicando i propri genitali fino a raggiungere l’orgasmo. La rappresentazione del sesso interspecie, che non è invenzione umana, come mostrano numerosi esempi del mondo animale e vegetale, è utilizzata dall’artista per stimolare una riflessione sulla relazione reciproca tra liberazione sociale e tutela ecologica: per cambiare il mondo, dobbiamo diventare più intimi con le altre forme di vita e instaurare con loro una relazione che ci consenta di comprenderle più a fondo. In questo caso, attraverso il sesso ricreativo e la ricerca di un piacere edonistico come forma di militanza queer, siamo in grado di accogliere l’alterità con sguardo non più antropocentrico ma fondato sull’uguaglienza e l’interrelazione tra tutte le forme di vita (umana e non). 

Zheng Bo, Pteridophilia 2016. Kuang Yi Ku, Dolphin Eroticarium. 2016.

Un’attenzione al tema della ricreatività relazionale e sessuale delle altre specie viventi è riservata anche dal bioartista taiwanese Kuang-Yi Ku nel progetto Dolphin Eroticarium (2016), in cui esplora la questione dei “diritti sessuali” dei delfini. Dediti ad attività sessuali anche a scopo meramente ricreativo, i delfini presentano un’espressione della sessualità, affine a quella umana, che impatta notevolmente sui loro comportamenti sociali. A partire da questa premessa, l’artista immagina un futuro scenario fantascientifico incentrato sul piacere sessuale di questa specie progettando, con il ricorso a una pratica di design fiction, un bioparco oceanografico volto al soddisfacimento sessuale dei delfini. Costituita da un’architettura mobile open space edificata intorno al loro habitat naturale, questa struttura è delimitata da tre aree ricreative: uno spazio per l’automasturbazione in cui i delfini possono sfregare i propri genitali su una serie di sex toys appositamente installati; un’area in cui viene rilasciata la tetrodotossina contenuta nei pesci palla, dei cui effetti psicotropi i delfini vanno notoriamente ghiotti; una zona dove i visitatori del bioparco, sotto la guida di istruttori e scienziati, possono interagire sessualmente con i delfini attraverso la masturbazione. Completa la struttura una quarta area adibita alla cura delle malattie sessualmente trasmissibili tra i delfini. Fondandosi su un programma interamente dedicato al perseguimento del benessere psicofisico e sessuale dei delfini, il bioparco rovescia l’attuale modello di parco acquatico, volto tradizionalmente al solo intrattenimento degli esseri umani e dove la specie acquatica è spesso tristemente ridotta a condizioni di schiavitù. 

La messa in crisi dei corpi eteronormati

L’assenza di un telos riproduttivo all’interno della dimensione ricreativa del godimento ha un’ulteriore implicazione, che dalla teoria queer ci conduce a parlare del futuro stesso della natura. Se da un lato la dimensione ricreativa del godimento ci mette in fuga dallo sforzo riproduttivo della selezione sessuale, dall’altro il regime eterosessista ascrive i corpi queer a una condizione di fallimento interno rispetto al loro funzionamento biologico.

Per scardinare dall’interno il progetto econormativo, la filosofa Heather Davis77H. Davis, Toxic Progeny: The Plastisphere and Other Queer Futures, «philoSOPHIA», vol. 5.2: 231-250, 2015.
propone di guardare alla plastica e al suo modo di generare una progenie tossica non attraverso la riproduzione ma tramite un atto di disgregazione in parti sempre più piccole. La plastica, materiale pervasivo che costituisce gran parte della produzione di massa antropogenica presente sul pianeta, è fotodegradabile: si piega, si contorce e si spezza in parti più piccole chiamate microplastiche. Inizia così il suo viaggio negli ecosistemi, attraverso un accesso privilegiato – l’acqua – che le permette di arrivare dappertutto e di giocare molteplici ruoli: quello dell’infiltrato, accumulandosi nello stomaco dei pesci fino alla placenta umana, ma anche quello di supporto alla proliferazione di batteri e virus che, con la plastica, generano un’alleanza dagli sviluppi non ancora prevedibili. Con la sua capacità di continuare a proliferare disperdendosi, in assenza di meccanismi riproduttivi, la plastica produce un effetto di queerizzazione sui corpi che attraversa. I plastificanti, infatti, rilasciano estrogeni sintetici (xenoestrogeni) che interferiscono con il sistema endocrino, svolgendo un processo di femminilizzazione degli organismi umani e non, disturbandone le funzioni riproduttive. Apparentemente, nota Davis, sembrerebbe quindi che la queerness abbia trovato un alleato inatteso nell’industria petrolchimica. Da una posizione nichilista potremmo infatti argomentare che la plastica e il queer producano un effetto simile, cioè quello di rendere la natura progressivamente infertile condannando le specie a un’estinzione certa.88Cfr. L. Edelman, No future: Queer Theory and the Death Drive, Duke University Press, Durham 2004.
Questo, però, significherebbe risolvere l’ecologia queer e il suo immaginario a una mera pulsione di morte. Ma Davis, al contrario, dalla plastica ci invita a cogliere una lezione alternativa: la sua capacità di attraversare la materia, disperdendosi, rende infatti manifesta la porosità dei corpi, che non possiamo dunque più concepire come rigidi e impenetrabili, come invece l’econormatività vorrebbe. I corpi che abitano l’Antropocene sono vulnerabili ed esposti a una continua corruzione, ma altrettanto capaci di sopravvivere attraverso legami di cura tra umani e non che superino la biologia prescrittiva e abbraccino un’evoluzione imprevedibile, come è quella delle microplastiche e delle colonie batteriche nella loro convivenza. Il concetto di porosità costruisce l’immaginario per un’ecologia queer che ci permette di ripensare i nostri stessi corpi attraverso lo studio e la divulgazione dell’endocrinologia, come suggeriscono le pratiche xenofemministe: se la natura è ingiusta, cambiala!

Di ciò ne è un esempio Mary Maggic, artista nonbinary la cui ricerca si svolge nell’intersezione tra le politiche di genere che regolano e disciplinano i corpi e gli scenari ecodistopici delineati dal capitalismo. Incentrando la sua pratica prevalentemente sulla realizzazione di workshop, performance, installazioni e processi partecipativi, nei suoi progetti Maggic analizza il ruolo della scienza istituzionale nella costruzione di immaginari politici di massa e utilizza il biohacking come strumento sovversivo di cura e disobbedienza xenofemminista contro la biopolitica ormonale e la visione econormativa della natura.

Mary Maggic, Open-Source Estrogen, 2013-ongoing.

Il suo progetto più noto, Open Source Estrogen (2013-ongoing), condotto collaborativamente e attraverso un approccio interdisciplinare, è costituito da sessioni di biohacking di gruppo, seminari, critical storytelling e workshop in cui, per esempio, insegna ai partecipanti a estrarre ormoni da campioni di urina (com’è avvenuto nel 2022 a Museion Bolzano).

Partendo dall’analisi del ruolo assunto dalla scienza istituzionale nei processi di patologizzazione e medicalizzazione dei corpi trans e queer e dal controllo ormonale esercitato dal biopotere sui corpi femminili con l’industria farmaceutica, l’artista intende tracciare un parallelismo con l’inquinamento chimico e ormonale che sta incrementando i livelli di tossicità del pianeta, trasformando il sistema endocrino di numerose specie animali (incluso l’essere umano).

Gli xenoestrogeni rilasciati sul pianeta, i cui effetti si manifestano a livello morfologico (per esempio, ipospadia, sviluppo del seno maschile), neurologico (depressione, autismo, basso QI) e fisiologico (pubertà precoce, cancro ovarico, diminuzione del numero di spermatozoi), metterebbero in crisi la riproduzione sessuata, la concezione binaria di maschile e femminile e la stessa nozione di econormatività, aprendo quindi la strada ai corpi queer e indisciplinati.

Mary
Maggic, Estrogeni Open Source, KABUL Editions, 2023.

In questo scenario, Maggic, lavorando alla costruzione di un immaginario alternativo che combina fantasie postumane e cyberfemministe, mondi biotecnologicamente superavanzati e futuri contraddistinti da tossicità queer e scienza DIY, contribuisce a generare le nuove soggettività di un pianeta ormonalmente colonizzato attraverso il biohacking collaborativo. Lo scopo del progetto è infatti quello di sviluppare un protocollo fai-da-te per la sintetizzazione amatoriale di xenoestrogeni in formato open source da autosomministrarsi come forma di protesta e riconquista della propria libertà.

Questa azione di “hacking” non può limitarsi alla liberazione del corpo e dell’identità attraverso la mutazione molecolare, ma deve anche investire e abbattere necessariamente i saperi, i luoghi e le modalità con cui le nostre istituzioni inquinano abitualmente e devastano i soggetti (umani e non) che sopravvivono su questo pianeta.

È giunto il momento di una nuova era, un’era in cui sia possibile plasmare, migliorare e liberare i corpi e gli ecosistemi del pianeta attraverso un uso consapevole delle biotecnologie.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

Autori
  • Dario Alì
    Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
  • Vincenzo Grasso
    Vincenzo Grasso è laureando al corso magistrale in Filosofia all’Università degli Studi di Torino e co-curatore della rubrica filosofica Speculum per il progetto Decamerette. Nel 2018 è stato finalista del Premio Campiello Giovani con Bestiario Familiare. È autore del romanzo Carmen (2015, SuiGeneris). Scrive su diverse riviste online di letteratura e arte.
Bibliography

Chiffoleau, J., Contra naturam, in J. Chiffoleau, Y. Thomas, L’istituzione della natura, Quodlibet, Macerata 2020. 

Davis, H., Toxic Progeny: The Plastisphere and Other Queer Futures, «philoSOPHIA», vol. 5.2: 231-250, 2015. 

Edelman, L., No future: Queer Theory and the Death Drive, Duke University Press, Durham 2004. 

Hird, M. J.,  Naturally Queer, «Feminist Theory», vol. 5(1): 85-89, 2004.

Morton, T., Ecologia queer, in AA. VV., Earthbound: superare l’Antropocene, Kabul Editions, Milano 2022.

Tsang, M., Open Source Estrogen, Carnegie Mellon University, Pittsburgh 2017.