Cosa si può dire di chi (o a chi) contesta le direttive della sanità pubblica, si rifiuta di indossare le mascherine, partecipa a grandi raduni (spiagge, bar, feste, sinagoghe, megachiese ecc.), e per lo più si comporta come se tutto fosse “normale”? Il COVID-19 è allo stesso tempo una malattia virologica e socio-comportamentale. Gli esempi di queste “tipologie” di persone e dei loro discorsi – che in alcuni casi ripetono le parole di dubbie “autorità” statali – sui media mainstream sono innumerevoli. Non c’è bisogno di riportarli qui. Li conosciamo, e conosciamo bene anche le solite frasi di disapprovazione e di umiliazione pubblica, in aggiunta allo sdegno morale e alla legittima indignazione diretta a tali “coviddioti”, le cui proclamate “libertà” violano l’altrui diritto alla vita. Nonostante la loro varietà, questi soggetti mostrano almeno tre caratteristiche comuni e correlate. Innanzitutto, il loro è principalmente uno sforzo di resistenza, solitamente rivolto ai poteri percepiti come falsi o detestabili. In secondo luogo, questa resistenza è concepita come – e fa continuamente da sostegno a – la loro identità individuale e il loro volere, o, persino, la loro “indipendenza”, dal momento che si arrogano “diritti” (liberali) e “libertà”. In questo modo, i soggetti in questione tentano di rivendicare un’impressione di arbitrio, mascherato da perverso “diritto alla vita”. Infine, qualora dovessero morire, tale morte (improbabile, nella loro immaginazione) sarebbe percepita come divinamente o fatalmente destinata. Secondo queste caratteristiche, si potrebbe dire che questi “tipi” sono la personificazione e il compimento logico di un ordine liberale la cui apoteosi è la biopolitica neoliberale.
Sono estremisti o radicalizzati, si potrebbe dire, anche se molti si concepiscono come i veri patrioti – e, per certi versi, è corretto: custodiscono nella loro identità valori quali l’individualismo imperturbabile (anzi, mercenario), la vita, la libertà personale e la ricerca della felicità. Eppure, paradossalmente, finiscono per riprodurre e inscenare le stesse logiche della biopolitica neoliberale – la sua economia del sacrificio, lo stratagemma della sovranità individuale e della libera scelta, la continua negazione della morte e l’entusiasta valorizzazione della “vita in quanto tale”. Sono, ironicamente, agenti per conto di un ordine a cui credono di opporsi. La maggior parte di queste persone, sospetto, non è “suicida” e non intende rappresentare un pericolo per gli altri, infettarli o ucciderli, utilizzare il proprio corpo come arma: se queste sono le conseguenze delle loro azioni, allora equivalgono a effetti accidentali o aleatori. Potremmo addirittura chiamarli terroristi accidentali. E, per essere chiari, non provo particolare compassione nei loro confronti.
Non che sia comprensivo nemmeno verso i buoni liberali (me stesso compreso) che si affrettano a condannare ma che finiscono per essere agenti inconsapevoli della stessa biopolitica neoliberale, che sia per la nostra pretesa di più leggi e dell’incremento delle forze dell’ordine, o più passivamente, agendo da condotti culturali del discorso statale normativo e dei suoi effetti linguistici. Da questo punto di vista, i buoni liberali sono i nuovi conservatori, mentre i buoni conservatori tendono sempre di più ad attaccarsi a una fantasmatica nostalgia verso forme di governo pre-liberali e pre-moderne, come l’illiberalismo, il neo-feudalesimo, finanche la teologia politica. Come, dunque, noi di Sinistra potremmo sospendere il nostro impulso allo sdegno e alla critica – forse persino al disprezzo verso il nostro dolore, la nostra identità, la politica – e ripensare la resistenza al di fuori della logica biopolitica, senza implicarvisi ulteriormente e riaffermandola involontariamente? In altre parole, come potremmo disaffermare la biopolitica, disconoscere la pretesa che esercita verso di noi, senza però arrenderci e rientrare nel circolo dei suoi tropi?
Circa quindici anni fa, in un saggio su quella che chiamavo “tanatopolitica”, ho fatto un precoce e impacciato tentativo di esplorare questo paradosso.11Vedi Stuart J. Murray, Thanatopolitics: On the Use of Death for Mobilizing Political Life, «Polygraph: An International Journal of Politics and Culture», 18 (2006): 191-215.
Ho usato il termine “tanatopolitica” conscio di utilizzare in un modo nuovo un termine esistente. Quando Giorgio Agamben usa il termine (seppur raramente), intende solo indicare il rovescio mortifero della biopolitica: «La biopolitica si può trasformare in tanatopolitica»,22Giorgio Agamben, Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life, trad. Daniel Heller-Roazen (Stanford, CA: Stanford University Press, 1998), 122, 142.
scrive, come per suggerire che la biopolitica non sia sempre costitutivamente legata alla morte. Roberto Esposito fa altrettanto: «L’esperienza del nazismo rappresenta la culminazione della biopolitica… assolutamente indistinta dal suo rovesciamento nella tanatopolitica».33Roberto Esposito, Bíos: Biopolitics and Philosophy, trad. Timothy Campbell (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2008), 10. È utile notare che la tanatopolitica è sia “culminazione” che “rovesciamento”. Solitamente, Esposito è più sottile di così, interpretando la tanatopolitica attraverso il paradigma dell’autoimmunità; ad ogni modo, finché rimarrà devoto a una biopolitica “affermativa”, la tanatopolitica sarà per lui un’aberrazione, anche nel caso diventi la norma, come nella politica nazista.
Anche Foucault utilizza il termine in maniera simile (seppure ancora più raramente): «Il rovesciamento della biopolitica è la tanatopolitica».44Michel Foucault, The Political Technology of Individuals, in Power, ed. James D. Faubion (New York: New Press, 2000), 416.
Col senno di poi, sarebbe stato meglio scegliere una parola meno spaventosa! Nella mia formulazione, si pensava che la tanatopolitica potesse esprimere una risposta critica alla vita biopolitica, dove le morti di chi lasciamo morire a volte diventano potere produttivo (invece che privativo) e “parlano” per smascherare e distruggere la logica biopolitica dall’interno. Come insegna Foucault, il discorso è produttivo, e io speravo di contestare la produzione biopolitica della “vita” immaginando quelli che, lasciati a morire e silenziati nella morte, mettono in scena il loro contro-discorso che svela la trappola della biopolitica.
Troppo frettolosamente ho descritto la tanatopolitica come “resistenza” alla biopolitica. È stato un errore. La resistenza non è tanatopolitica, perché spesso si limita a sostenere e riprodurre il biopotere che dichiara di opporre“…La resistenza non è tanatopolitica, perché spesso si limita a sostenere e riprodurre il biopotere che dichiara di opporre”. Sostengo, invece, una comprensione della tanatopolitica nella e come disaffermazione – una risposta che si concretizza nella retorica produttiva del linguaggio morto, a volte lirico e apostrofico, pronunciato né nella grammatica sovranista né nell’adesione normatica e teleologica al contenuto “logico” e alla chiusura epistemica. Disaffermare, come risposta, significa prestare attenzione a coloro che avremmo (e avremo) lasciato morire di morte biopolitica, compiuta proprio nell’esecuzione della teleologia e della logica. Se i morti ci facessero un reclamo, la nostra risposta non dovrebbe limitarsi a usurpare quel reclamo, addomesticarlo, possederlo e rivendicarlo, con il linguaggio della logica e della vita.
Per me, dunque, la tanatopolitica non è il rovesciamento o l’inversione della retorica intrinsecamente “affermativa”, poiché l’affermazione del far vivere non è decostruita e rimane legata, anche se clandestinamente, al lasciar morire. La duplicità attivo-passivo richiede la decostruzione. Inoltre, enfatizzando i legami critici e produttivi della tanatopolitica, volevo distinguerne l’uso dall’uso segnaletico che fa Achille Mbembe di “necropolitica” nel contesto postcoloniale africano. Ciononostante, ho preso molta ispirazione da Mbembe, il quale pubblica la seguente sfida per gli studi postcoloniali: «Dobbiamo andare oltre le categorie binarie impiegate nell’interpretazione standard della dominazione, come resistenza vs passività, autonomia vs assoggettamento, stato vs società civile, egemonia vs contro-egemonia, totalizzazione vs detotalizzazione».55Achille Mbembe, Necropolitics, «Public Culture», 15, no. 1 (2003): 11–40; più recentemente, vedi Necropolitics, trad. Steven Corcoran (Durham, NC: Duke University Press, 2019).
Mbembe ci esorta66Achille Mbembe, On the Postcolony (Berkeley: University of California Press, 2001), 103.
«a discutere lo stato della morte-come-tale o, più precisamente, della morte della vita o vita della morte». Attraverso la tanatopolitica, speravo, si può scoprire che la ripudiata vita della morte apre uno spazio critico tra antinomie (logiche) convenzionali. In ultimo, nella mia formulazione di tanatopolitica ho preferito l’invocazione di Thanatos, la cui controparte culturale (e psicoanalitica) è tipicamente Eros. Questi termini suggeriscono un topos distinto dalla connotazione più “clinica” e corporea di necro- e bio-, che infetta e flette la biopolitica. Di nuovo, una disaffermazione della biopolitica non dovrebbe reduplicare i suoi tropi e le sue tendenze normative, dovrebbe arrivare, piuttosto, da un altro ordine di discorso, al di là della mera vita e morte corporea, oltre la competenza epistemica del nostro lavoro sulle parole.
In questo saggio sulla “tanatopolitica” a cui mi riferisco, ho inscenato una discussione sulle morti classificate come suicidi o sacrifici – una distinzione che rivela più riguardo alla posizione e personalità di ciascuno (vivente) che riguardo alle singole morti. Ho invocato la figura forse più estrema e contestata della resistenza: il terrorista suicida. Ho per giunta insistito, come torno a fare in questo libro, sull’interconnessione, spesso elisa, tra far vivere e lasciar morire, e sulla graduale “disqualificazione” della morte nella nostra cultura. Come direbbe Foucault, «non è tanto il sesso, ma la morte a essere l’oggetto di un tabu».77Achille Mbembe, On the Postcolony: A Brief Response to Critics, «Qui Parle», 15, no. 2 (2005): 18.
Questo tabu mi è stato chiaro nel 2004-2005, mentre scrivevo il mio primo saggio. La seconda Intifada palestinese (2000-2005) aveva ricevuto un’abbondanza di attenzione mediatica negli Stati Uniti, in particolare le missioni suicide di bombardamento. Gli stessi Stati Uniti erano recentemente stati l’obiettivo di attacchi terroristici suicidi islamisti, e mentre le morti dell’11 settembre 2001 venivano scrupolosamente contate e più volte (molte volte) invocate, non c’era comunque “tempo per piangerle”, come ha sostenuto legittimamente Barbara Biesecker.88Michel Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–1976, trad. David Macey (New York: Picador, 2003), 247.
Al tempo, ci veniva offerta una scelta manichea, stare con il presidente George W. Bush o con “i terroristi”. Per cui andammo in guerra. Ufficialmente si diceva che gli americani dessero un “valore alla vita”, contrariamente ai terroristi. La “vita” in America veniva riscritta in termini retorici dalla “cultura della vita,” come Bush ripeteva continuamente. Tale retorica era altamente militarizzata, e il suo ethos si estendeva in domini solitamente civili – medico, giuridico, politico, tecnologico, economico. In realtà, comunque, sotto le sembianze di “verità” eravamo soggetti a una sorveglianza progressiva e alla militarizzazione della cultura pubblica come nuova norma – uno stato di emergenza permanente e un disastroso capitalismo che obbligava (ed esternalizzava) alla morte di massa.
Il mio interesse qui rimane concentrato sulla relativa inesprimibilità della morte, e sulla retorica intransitività del lasciar morire, eclissata dalla transitività biopolitica del far vivere. Se la morte del terrorista suicida non conta del tutto come morte (per “noi”), questa figura è comunque ampiamente evocata durante la preparazione e la desensibilizzazione (allo stesso tempo reclutamento e radicalizzazione) del personale militare occidentale. In particolare, per quanto riguarda l’intransitività della morte, mi riferisco al mio precedente saggio sulla tanatopolitica nel contesto della pandemia attuale, poiché la guerra globale al terrore è l’eredità duratura che la pandemia ripropone, retoricamente, sul fronte interno. Anche la pandemia è una “guerra” contro un “nemico invisibile” (secondo le parole di Trump). Il tema dell’invisibilità richiama inoltre la retorica della guerra fredda risistemata e reimpiegata nella guerra globale al terrore, e ora, ancora una volta, un nuovo nemico comunista cinese – un “virus cinese”, il “kung flu”99L’influenza del kung fu. Il gioco di parole si regge sulla somiglianza tra la parola fu e la parola flu, “influenza”. [NdT]
– minaccia (ci dicono) di distruggere il modo di vivere americano. Il nemico invisibile si espande, nella propaganda del partito repubblicano americano, con il rilascio di “fake news” e con le apparenti infiltrazioni di liberali “radicali” o “socialisti” nel partito democratico. Quando una minaccia è invisibile, è facilmente sostituita, circa allo stesso modo in cui il Pentagono ha riallocato un miliardo di dollari in fondi di salvataggio – intesi a “prevenire, preparare e rispondere al coronavirus” (Cares Act 2020) – verso materiale militare.
Le durature economie del sacrificio che sono state nominate – ora nelle molteplici forme di resistenza all’ordine della sanità pubblica, le élite scientifiche, i globalisti, i media fakestream, i sinistroidi lobotomizzati e i normies, le mascherine e il distanziamento sociale – hanno usato le vite come armi, ottenendo come risultato il diffondersi della malattia e della morte, in particolare tra la popolazione vulnerabile e marginalizzata le cui vite erano state date per scontate fin dall’inizio. Resistere al nemico invisibile può trasformarti facilmente in uno di loro, che sia come suicida o come eroico combattente per la libertà (di nuovo, termini relativi al punto di vista, all’identità individuale e alle fonti di informazione di ciascuno). La resistenza può terrorizzare, anche se non legittima l’etichetta ufficiale di “terrorismo”. Come ha chiesto Derrida, con un chiaro riferimento a Foucault, «il terrorismo deve agire solo attraverso la morte? Non si può terrorizzare senza uccidere? Uccidere significa necessariamente ammazzare? Non è anche “lasciar morire”? Il “lasciar morire”, “non voler sapere se si sta lasciando morire gli altri” – centinaia di migliaia di esseri umani, di fame, AIDS, mancanza di cure mediche, e così via – può significare essere parte di una strategia terroristica “più o meno” conscia e deliberata?».1010Vedi Barbara Biesecker, “No Time for Mourning: The Rhetorical Production of the Melancholic Citizen-Subject in the War on Terror,” Philosophy and Rhetoric 40, no. 1 (2007): 147-69.
Certo, “non voler sapere” e sapere sono due tipi di impegno epistemico diversi, seppur correlati. La tanatopolitica, per come l’ho immaginata, affiora dal sapere come un impegno ontologico, dove può trovare una voce politica con cui dichiarare – a parole e fatti – che non possiamo continuare a vivere nell’ombra del silenzio, non possiamo tollerare una violenza commessa in nome delle nostre vite.
Il suicidio per mano della società
Il terrorismo suicida è stato ampiamente denunciato come un atto di “benessere asimmetrico”. È indicativa l’“asimmetria” dell’acte de guerre suicida che è stata invocata a seguito dei massicci scioperi della fame (a cui era stato risposto con l’alimentazione forzata) e di tre suicidi di detenuti a Guantánamo Bay nel 2006. Il comando militare del campo, contrammiraglio Harry B. Harris Jr., ha dichiarato, a proposito dei suicidi: «Sono intelligenti, sono creativi, sono determinati. Non hanno rispetto per la vita, né la nostra, né la loro. Credo che non sia stato un atto di disperazione, ma un atto di benessere asimmetrico intrapreso ai nostri danni». Il messaggio era chiaro: “noi” siamo le vere vittime di questi suicidi e “noi” – la cui considerazione della vita è apparentemente oltre ogni riprovazione – siamo giustificati se non mostriamo riguardi verso queste vite, sia perché non contano come vita, sia perché il loro presunto disprezzo per la vita li esclude dall’ottenere questo, “nostro”, rispetto.1111Jacques Derrida, Autoimmunity: Real and Symbolic Suicides: A Dialogue with Jacques Derrida, in Philosophy in a Time of Terror: Dialogues with Jürgen Habermas and Jacques Derrida, ed. Giovanna Borradori (Chicago: University of Chicago Press, 2003), 108.
Non c’è nessun accenno di ironia in queste parole, e nessuna ammissione che l’asimmetria possa essere misurata altrimenti, che sia dal punto di vista razziale, socioeconomico, tecnologico, geopolitico, del valore e delle risorse militari, o persino considerando l’ostilità deliberata o la rapacità di una nazione. Tuttavia, queste asimmetrie sistemiche sembrano impallidire in confronto all’azione “asimmetrica” di togliersi la vita. Negli anni successivi, certamente, è diventato chiaro che, su suolo statunitense, gli americani hanno più probabilità di essere uccisi dai radicali locali che dai jihadisti.
L’apparente transitività e la sovranità dell’atto suicida non sono solamente peccati contro il Dio della tradizione delle religioni abramitiche, sconvolgono anche profondamente ciò che c’è di secolare-sacro nel vivere biopolitico e nel far vivere. Come ha notato Jacqueline Rose: «Lanciare grappoli di bombe dall’alto è in qualche modo ritenuto, almeno dai leader occidentali, moralmente superiore… Perché morire con la tua vittima dovrebbe essere un peccato maggiore che salvarsi non è chiaro». Dovremmo credere che chi lancia bombe lo fa perché ha una considerazione superiore della vita. «Il bombardamento suicida fa molte meno vittime del combattimento convenzionale», ragiona Rose. «La reazione che provoca deve, dunque, risiedere altrove, non nel numero di vittime». Difatti, il terrore non riguarda tanto i numeri quanto i mezzi – un’improvvisa e viscerale irruzione della morte nei posti della quotidianità. Le bombe a grappolo spesso colpiscono simili posti, certo, ma il nostro dare la morte è a distanza, coperto dall’intransitività del lasciar morire, mediato dall’eroismo hollywoodiano e codificato nei termini fittizi di “proporzionalità” e “necessità” della guerra. Dire che i terroristi suicidi prendono di mira i civili, e poi pensare che questo “giustifichi” il nostro orrore, è ipocrita. Ogni guerra fa lo stesso: uccide civili, fisicamente e psicologicamente, socialmente ed economicamente. Durante la Seconda guerra mondiale, le forze alleate sganciarono due bombe nucleari in Giappone e innumerevoli bombe incendiarie in Germania e Giappone, massacrando centinaia di migliaia di civili. Queste specifiche azioni di guerra spesso generano un discorso sulla “necessità” e qualche calcolo utilitaristico per cui tali uccisioni preventive infine salvano più vite di quante ne inceneriscano. Più recentemente, nella guerra globale al terrore, potremmo considerare le azioni militari americane successive all’11 settembre in Iraq e in Afghanistan (e oltre), ognuna con i suoi ribelli terroristi, e ognuna richiedendo progressivamente tattiche preventive di controguerriglia. Gli Stati Uniti hanno autorizzato uccisioni (in alcuni casi dissacrazioni corporali), estradizioni straordinarie, torture (in maniera eufemistica, “abuso di prigionieri”), alcune delle quali hanno eluso la censura militare denunciando abomini quotidiani ad Abu Ghraib, Guantánamo Bay, e in numerose prigioni segrete in tutto il mondo. Questo mi ha tormentato e mi tormenta tuttora.
Il tempo è finalmente scaduto… Non sono una brava persona, ho fatto cose cattive. Ho ucciso, e ora è tempo che mi uccida
I peccati dei ricchi e le morti dei poveri sono legati da più del comune silenzio“…I peccati dei ricchi e le morti dei poveri sono legati da più del comune silenzio”; sono interdipendenti nel contratto silenzioso conosciuto come il costo della vita. Lo scandaloso massacro causato dall’invasione e occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003 (ipocrita, e con un casus belli tutt’al più fantasmatico), l’enorme bilancio delle vittime civili e la sofferenza di chi è sopravvissuto sono ampiamente documentati ma mai ufficialmente riconosciuti in America come crimini contro l’umanità. Nel 2006 «The Lancet» ha riportato il conto delle vittime irachene (“morti in eccesso”), 654.965; più di recente, nel 2015, l’organizzazione internazionale Physicians for Social Responsibility stima che il numero, al ribasso, raggiunga il milione e non esita a giudicare l’azione militare statunitense come un genocidio.1212Questa era una comune strategia nazista usata per addomesticare l’odio e la violenza: «L’“ariano” è “costruttivo”; l’ebreo è “distruttivo”; e l’“ariano”, per continuare la sua costruzione, deve distruggere la distruzione dell’ebreo. L’ariano, come vascello d’amore, deve odiare l’odio dell’ebreo» (Kenneth Burke, The Rhetoric of Hitler’s ‘Battle’, in The Philosophy of Literary Form [Berkeley: University of California Press, 1974], 204).
Perciò, molto tempo dopo la celebrata eliminazione dei resti (invisibili) di Osama bin Laden, gli americani rimangono sotto l’eredità sanguinosa delle Overseas Contingency Operations, Operazioni di Contingenza Oltreoceano (le OCO nel 2020 hanno richiesto un budget di $71,5 miliardi), comprese le Enduring Activities, le attività durature, di cui, si crede, la guerra al terrore necessiti, dispensando così violenza secondo la logica della “prevenzione” e dell’“autodifesa.” Nella guerra di queste asimmetrie, fatte passare come interventi “vitali”, “umanitari” e presumibilmente “chirurgici”, abbiamo sviluppato sistemi autonomi di armi altamente letali – droni, bombe intelligenti ecc. – che sono guidati da remoto e da algoritmi, alimentati da sistemi complessi supportati da satelliti e pubblicamente commerciati da industrie sul mercato.1313Il conto delle vittime afghane raggiungeva i 220.000, mentre si contavano 80.000 vittime pakistane. Nel frattempo, negli Stati Uniti, le perdite tra le truppe statunitensi nell’Operation Iraqi Freedom ammontavano a 4.902 e 3.576 nell’Operation Enduring Freedom (Afghanistan). Vedi The Iraq Coalition Casualties Count, http://icasualties.org, consultato il 22 settembre 2020. Come nota l’istituto Watson alla Brown University, all’incirca la metà di queste morti sono dovute ad attacchi nemici, per esempio congegni esplosivi improvvisati, mentre l’altra metà include le morti per «incidenti stradali, elettrocuzioni, caldo, fuoco amico, suicidi in campo» – con la causa della morte spesso riportata semplicemente come “non ostile”. Inoltre, tale conto non include circa 8.000 professionisti privati ingaggiati dagli Stati Uniti (la cui maggioranza era di altre nazionalità, con molte morti rimaste escluse dal conto), e più di 110.000 partner di coalizione – afgani, iracheni e altri alleati in divisa. Vedi Costs of War, Watson Institute of International and Public Affairs, Brown University, luglio 2021. Il sito web del Dipartimento della Difesa statunitense è labirintico e sembra progettato per nascondere le statistiche cumulative delle vittime. Per un’indagine dettagliata sui diversi e divergenti conti delle perdite nella guerra globale al terrore, vedi Roger Stahl, Through the Crosshairs: War, Visual Culture, and the Weaponized Gaze (New Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 2018), 137-41.
Questa consegna della morte è fortemente mediata, addolcita e trasformata in un gioco. Quale possibile resistenza potrebbe emergere da un così vasto apparato neoliberale e biopolitico che opera (molto convenientemente) per inerzia? Quale, se non qualcosa di orribile e inimmaginabile?
Leggendo i report sul terrorismo suicida, negli anni la mia preoccupazione è costantemente aumentata insieme al numero crescente di suicidi tra il personale militare occidentale, che, mi sembrava, fosse in ultimo un’altra vittima delle missioni per uccidere altri esseri umani al servizio di una causa universale e storica delirante. Ho seguito queste storie e ho cominciato a raccogliere un archivio di biglietti d’addio di soldati suicidi, solitamente pubblicati in forme frammentarie, nelle news, nei blog, o nascosti nei feed di Reddit. Ne possiedo molti nel mio archivio, ognuno dei quali eccezionale poiché la loro pubblicazione contravviene alle direttive del Dipartimento della Difesa che dichiarano che tutti i membri del corpo militare, inclusi «i membri ritirati e di servizi separati, gli ex dipendenti e collaboratori del DoD, i membri non attivi tra i componenti della riserva saranno soggetti al processo di revisione pre-pubblicazione da parte del DoD al fine di assicurare che le informazioni che i suddetti intendono rilasciare al pubblico non compromettano la sicurezza nazionale, come specificato nell’accordo di riservatezza». I morti, certo, non possono sottostare al processo di revisione pre-pubblicazione, e l’accordo di riservatezza (Standard Form 312) è vincolante «nel periodo durante il quale mi è concesso l’accesso a informazioni classificate, e in ogni momento da lì in avanti» (il corsivo è mio). Gli interessi della “sicurezza nazionale” nascondono, per la patriottica eternità, una moltitudine di peccati – spesso ingiustamente attribuiti a persone che si tolgono la vita, ma le cui ultime parole e istanti finali spesso tradiscono la violenza strutturale, impersonale e rituale di un sistema che uccide lasciando morire, e poi (come attestano frequentemente i loro cari) lascia morire nuovamente quando la vita diventa insostenibile per quei soldati che tornano con cicatrici “invisibili”.
Facendo una selezione di biglietti d’addio, che sono stati verificati e sono di dominio pubblico, offro qualche parola di queste morenti voci morte, raramente ascoltate:
«Pensavo, una volta, che avrei potuto andarmene alla mia tredicesima morte: la tredicesima che mi impediva di addormentarmi, che assaliva la mia psiche nei miei stati di coscienza. Sono diventate un’infinità. Ho ripensato a tutte le missioni a cui avevo assistito. Non potevo credere ai numeri. Mi sono sentito come se la mia anima mi avesse lasciato e sapevo che il giudizio per me sarebbe stato la dannazione. Ma ero ancora lì… In ospedale, i miei morti erano i miei giudici negli incubi». (Lettera da un operatore di sensori da remoto)1414Vedi Derek Gregory, Dirty Dancing: Drones and Death in the Borderlands, in Life in the Age of Drone Warfare, ed. Lisa Parks, Caren Kaplan (Durham, NC: Duke University Press, 2017), 25-58; e Derek Gregory, From a View to a Kill: Drones and Late Modern War, «Theory, Culture and Society», 28, nos. 7-8 (2011): 188-215; vedi anche Grégoire Chamayou, Théorie du drone (Paris: La fabrique, 2013); Samuel Issacharoff, Richard Pildes, Drones and the Dilemma of Modern Warfare, in Drone Wars: Transforming Conflict, Law and Policy, ed. Peter Bergen, Daniel Rothenberg (Cambridge: Cambridge University Press, 2015), 388-420; Lauren Wilcox, Embodying Algorithmic Violence: Gender, Race and the Posthuman in Drone Warfare, «Security Dialogue», 48, no. 1 (2017): 11-28; Elke Schwarz, Prescription Drones: On the Techno-Biopolitical Regimes of Contemporary ‘Ethical Killing’, «Security Dialogue», 47, no. 1 (2016): 59-75; e Lisa Parks, Drones, Vertical Mediation, and the Targeted Class, «Feminist Studies», 42, no. 1 (2016): 227-35. L’Ufficio di Giornalismo Investigativo provvede al mantenimento di un database aggiornato e accessibile degli attacchi di droni statunitensi e di altre azioni in incognito in Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia. «The Intercept» ha documentato nei “Drone Papers” il programma di assassinii dell’esercito statunitense in Afghanistan, Yemen e Somalia, preso da un “archivio di documenti segreti”. Più di recente, «The Intercept» ha documentato 550 attacchi di droni statunitensi in Libia dal 2011. Vedi Nick Turse, Henrik Moltke e Alice Speri, Secret War, «The Intercept», June 20, 2018.
«Il tempo è finalmente scaduto… Non sono una brava persona, ho fatto cose cattive. Ho ucciso, e ora è tempo che mi uccida». (Un veterano di Operation Iraqi Freedom, Operazione di Liberazione Irachena)
«La pura verità è questa: durante il mio primo servizio, mi hanno fatto partecipare a cose la cui enormità è difficile da descrivere. Crimini di guerra, crimini contro l’umanità. Nonostante non abbia partecipato volontariamente e abbia fatto ciò che ritenevo nelle mie possibilità per fermare questi eventi, ci sono delle cose da cui una persona semplicemente non può tornare indietro… Costringermi a fare quelle cose e poi a partecipare al successivo insabbiamento è più di quanto un governo abbia il diritto di pretendere. Poi, lo stesso governo mi ha voltato le spalle e mi ha abbandonato». (Un veterano di Operation Iraqi Freedom che descrive il suo suicidio come un’“uccisione per pietà”)
Queste voci raccontano la storia di un danno morale annichilente1515Brandon Bryant, Letter from a Sensor Operator, in Life in the Age of Drone Warfare, ed. Lisa Parks, Karen Caplan (Durham, NC: Duke University Press, 2017), 321-22.
e una verità altrimenti silenziata dalla propaganda militare e dal “patriottismo”. Odio il mio archivio, mi fa stare male, ma sento che tappandomi le orecchie disonorerei queste voci. Nelle loro agonie, nella loro resistenza inquieta, ci invitano a pensare oltre la responsabilità individuale, a riflettere sul “noi” e su cosa responsabilità e operato significhino in quanto bene pubblico. Non ho motivo di discutere le diagnosi, documentate, di salute comportamentale di questi soldati, compresa la PTSD, disturbo da stress post-traumatico (nel 2017 includeva ufficialmente solo il 50,8% di tutti i suicidi tra le forze militari statunitensi). Vorrei puntualizzare, ad ogni modo, che la psichiatrizzazione postuma di questi atti tende a reinserire questi individui in un ordine biopolitico, privandoli in effetti della stessa resistenza che le loro ultime parole – e le loro morti – spesso rappresentano. Considerate le parole di Saeed, un ventunenne palestinese: «In tutta onestà, se questa è la vita, e questo è il lavoro, la morte è più onorevole».1616Vedi Kent D. Drescher et al., An Exploration of the Viability and Usefulness of the Construct of Moral Injury in War Veterans, «Traumatology», 17, no. 1 (2011): 8-13. L’offesa morale è “fortemente” e “indipendentemente” correlata con il rischio di suicidio. Vedi Donna Ames et al., Moral Injury, Religiosity, and Suicide Risk in U.S. Veterans and Active Duty Military with PTSD Symptoms, «Military Medicine», 184, nos. 3-4 (2019): e271-78.
La sofferenza e la morte sono viscerali, nonostante la politica della “necessità”. E cosa farne dell’onore?
I terroristi suicidi e i suicidi dei militari occidentali: in maniera paratattica, ho avvicinato queste figure di morti ripudiate e resistenza a chi, nel combattere le asimmetrie del COVID-19, combatte in vario modo un nemico invisibile. Questo include coloro che sono stati infettati dal virus e che hanno esercitato la resistenza come una crisi medica personale, come chi oppone resistenza ai protocolli statali e di salute pubblica, chi protesta, chi rifiuta di indossare le mascherine, rappresentando così potenziali agenti di contagio e che, in alcuni casi, dopo essere stati infettati, hanno richiesto cure mediche al sistema sanitario. Non intendo mettere sullo stesso piano queste figure di resistenza, né suggerire che i rispettivi contesti siano equivalenti. Non lo sono. Eppure, categorizzare le vittime come “le loro” o “le nostre”, come vorrebbe la patriottica economia di guerra, non funziona. Parlano a e di una guerra che preferiremmo rimanesse taciuta. Se mettiamo da parte, per un attimo, le questioni di intento individuale (poiché tale libero arbitrio è incerto e non definito), in quanto comunità diventa difficile distinguere il nemico terrorista dal soldato occidentale e dal terrorista accidentale del COVID-19: a noi estranee, le loro vite sono utilizzate come armi e costituiscono un’oscura minaccia, rivelando la vita – la nostra e la loro – nella sua passività. Cosa cambia se la sofferenza ingiustificata e la morte sono immediate o massicciamente mediate dalle reti tecno-militari o capitaliste o biosociali? La morte non ha bisogno di essere lavorata di fino.
Nelle nostre guerre infinite di supposte “simmetrie”, “proporzionalità” e “necessità” – ora indispensabili alle economie nazionali – è frustrante cercare di distinguere il terrorista dal combattente per la libertà. Sforzandoci di esaltare quest’ultimo, fatichiamo invano a trovare un intento liberal-umanista – una purezza di intenti, un’identità, un desiderio di far vivere – che non sia implicato nelle agenzie di copertura delle condanne a morte intransitive. Come ha notato Talal Asad: «Per quanto proviamo a distinguere tra modi di uccidere moralmente buoni e moralmente sbagliati, i nostri tentativi sono tormentati da contraddizioni, e queste contraddizioni rimangono una parte fragile della nostra soggettività moderna».1717Citato in Nadia Taysir Dabbagh, Suicide in Palestine: Narratives of Despair (Northampton, MA: Olive Branch Press, 2005), 200. Saeed parla come un vero soggetto kantiano dell’Illuminismo: «Qualora un uomo non possa preservare la sua vita se non disonorando la sua umanità, farebbe meglio a sacrificarla» (Immanuel Kant, Lectures of Ethics, trad. Lewis White Beck [New York: Harper and Row, 1963], 156).
Questi esempi estremi fanno luce sui fallimenti istituzionalizzati e normalizzati dei buoni liberali solitamente “progressisti”, “illuminati”, o “tolleranti”, i quali non riescono ad associare il nostro essere vivi con la morte e l’espropriazione degli altri, che si sono suicidati (e si suicideranno) per mano della nostra società. Forse che queste morti non dimostrino una certa “vita della morte”, come dice Mbembe – la vita negata, perché invivibile o insopravvivibile? Qual è, in questo caso, la responsabilità nel lasciar morire, questo potere silenzioso di rinnegare alcune vite, di contarle come già morte, destinate alla morte, e rinnegare1818Talal Asad, On Suicide Bombing (New York: Columbia University Press, 2007), 2.
(ancora, e tuttora) le loro morti come morti?
Traduzione a cura di Alice Tartari.
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Stuart J. Murray è professore e ricercatore in Retorica ed Etica presso il Dipartimento di lingua e letteratura inglese e il Dipartimento di Scienze della salute dell'Università Carleton di Ottawa, Canada. Il suo lavoro si occupa della costituzione della soggettività umana e dei legami tra la retorica e l'etica della "vita", nei molteplici modi in cui questo termine viene utilizzato in termini biopolitici trattando i temi di salute, l'identità tramite i media digitali. Attualmente sta completando un libro relativo alla retorica della biopolitica e dell'etica dopo Foucault: “The Living From The Dead: Disaffirming Biopolitics”.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.