Un primo tentativo di abolizione della schiavitù non umana si ha con lo sviluppo del pensiero postumano e transumano. L’espressione “non umano” si riferisce a un vasto complesso di soggettività tra cui animali, forme di vita modificate e menti artificiali. Nello specifico, le questioni principali del dibattito internazionale sui diritti degli esseri non umani riguardano la loro libertà e uguaglianza, le tutele, i privilegi, la responsabilità giuridica, nonché i concetti legali e politici di cittadinanza, aborto, diritti fetali e riproduttivi. Dall’altro lato, invece, parlare di noi come di “animali umani” può aiutarci forse a cambiare prospettiva. Già nel 1989, Richard Ryder considerava lo specismo – ossia il rifiuto di riservare un trattamento egualitario agli esseri viventi non umani solo per ragioni connesse all’assenza di un legame di specie – il più grave errore etico e morale che contraddistingue la società occidentale antropocentrica.11Richard Ryder, Victims of Science: The Use of Animals in Research, Davis Poynter, London, 1975; Richard Ryder, Animal Revolution: Changing Attitudes towards Speciesism, Basil Blackwell, Oxford, 1989.
A proposito di questo cambio di prospettiva, Steven M. Wise, presidente del Nonhuman Rights Project, ci ricorda infatti che «gli esseri umani sono anche animali, gli unici animali con diritti legalmente riconosciuti e applicabili».
Il teorico e scrittore americano Ihab Hassan, primo a utilizzare nel 1977 il termine “postumanesimo”, a proposito dei cambiamenti introdotti dal sempre più rapido sviluppo tecnologico affermava: «Prima di tutto, dobbiamo capire che la forma umana – contenente desideri umani e tutte le sue rappresentazioni esterne – può subire cambiamenti radicali ed è quindi da rivedere».22Ihab Hassan, Prometheus as Performer: Toward Posthumanism Culture?, «The Georgia Review», vol. 31, n. 4, s. 843, 1977.
Questi cambiamenti erano profondi e difficili da elaborare, ma portavano con sé nuove consapevolezze. I postumanisti, «nella struttura simbolica [dell’umanesimo]», cominciano infatti a vedere «non solo il quadro teorico che serve a giustificare l’unicità dell’uomo in relazione alla sfera non umana (ossia animali, piante e altri esseri viventi e inanimati), ma anche, indirettamente, il consolidamento delle disparità e delle relazioni di sfruttamento».33Agnieszka K. Adamczyk, Przemysław Zawadzki, Post- i transhumanizm w kontekście wybranych zjawisk artystycznych technokultury, «AVANT», X, 3/2019.
Sebbene la comunicazione interspecifica tra animali umani e non umani non sia nuovo oggetto di indagine nella nostra società, nel mondo dell’arte essa ha acquisito solo recentemente, per molti artisti, una rilevanza centrale. L’arte, infatti, riflette naturalmente questi cambiamenti di prospettiva, esprimendo curiosità ed empatia verso il nuovo sconosciuto e manifestando il desiderio di oltrepassare i confini delle categorie attraverso le quali abbiamo circoscritto la vita e la non vita, a partire da riflessioni come: “Che cosa significa essere vivi?”. Un esempio è la performance May the Horse Live in Me, nella quale Laval-Jeantet (che, insieme a Mangin, fa parte del collettivo Art Orienté Objet), indossando dei trampoli a zoccolo di cavallo, si inietta del plasma equino per trasformarsi in un essere ibrido tra umano e non umano.
Un’altra delle numerose opere trasgressive di questo genere è il cyborg Nomadic Plant dell’artista messicano Gilberto Esparza, una struttura meccanica su cui si reggono piante e vari organismi che vivono in maniera simbiotica spostandosi e nutrendosi liberamente in natura. La “pianta nomade” è infatti un ibrido organico e inorganico che si muove verso i fiumi per mantenersi autonomamente in vita indipendentemente dal suo creatore. Opera concettualmente affine a questa è Parásitos Urbanos, dello stesso Esparza, fatta di organismi artificiali in grado di sopravvivere negli ambienti urbani traendo nutrimento dall’energia sottratta alla rete elettrica di una città per interagire con l’ambiente circostante. Questi organismi si muovono ed emettono suoni comunicando con altri parassiti della stessa specie, ed entrando così a far parte del paesaggio sonoro urbano.
Cosa intendiamo per “comunicazione interspecifica”?
Gli organismi comunicano tra loro e con le altre specie. Sappiamo infatti che persino «i batteri possiedono elaborati sistemi di segnalazione chimica che consentono loro di comunicare al loro interno e tra specie diverse».44Michael J. Federle, Bonnie L. Bassler, Interspecies communication in bacteria, «J Clin Invest», 112(9), Nov 1, 2003, pp. 1291-1299.
I nostri tentativi di comunicazione con le altre specie animali fanno parte del nostro vissuto quotidiano“…I nostri tentativi di comunicazione con le altre specie animali fanno parte del nostro vissuto quotidiano”, che si tratti di animali domestici, come cani e gatti, o di altri animali familiari all’essere umano, come cavalli o uccelli, con i quali siamo soliti instaurare legami affettivi. Il canale YouTube “Special Books by Special Kids”, fondato da Chris Ulmer, mi sembra particolarmente esemplificativo di questa attitudine. L’autore intervista persone con disabilità, affette da malattie genetiche, mentali, o altre condizioni, che influenzano il loro modo di comunicare con il mondo esterno. Una delle intervistate è Callie Truelove, una ragazza adolescente a cui è stata diagnosticata la sindrome di Williams, rara malattia genetica che si manifesta sin dalla nascita. Alcuni mesi dopo la prima intervista con Chris, Callie viene invitata allo show per una seconda volta, dove racconta di aver stretto amicizia con Nick:
«Mi emoziono solo a parlarne [della nostra amicizia]. È come se finalmente avessi trovato qualcuno che mi capisce, quando nessun altro lo fa. Prima di Nick, l’unico animale che mi avrebbe mai capito era [il mio cane] Doodle. Adesso, a capirmi, è anche un essere umano».
Come afferma Michael John Gorman – direttore e fondatore di BlOTOPIA Naturkundemuseum Bayern e docente universitario di “Life Sciences in Society” all’Università Ludwig Maximilian di Monaco – la comunicazione interspecifica tra animali umani e non umani è una storia che dura da almeno centomila anni.55Per una panoramica del rapporto tra esseri umani e non umani dell’antichità greco-romana si veda Thorsten Fögen, Animal Communication, in Gordon Lindsay Campbell (ed.), The Oxford Handbook of Animals in Classical Thought and Life, 2014. Per una trattazione più incentrata sui legami con il mito si veda invece la voce Animals in Mythology di encyclopedia.com.
Nel corso della conferenza The Future Of Interspecies Communication, Gorman ha portato l’esempio della popolazione Yao, in Mozambico, che interagisce da secoli con la specie di uccelli Prodotiscus per aiutarli a recuperare la cera d’api dagli alberi. Questa specie, infatti, possiede la capacità innata di scovare i nidi d’ape, ma si rivela incapace, da sola, di prelevarne la cera. Per questa ragione, la collaborazione mutualistica che si viene a instaurare tra esseri umani e specie animale si rivela vantaggiosa per entrambi: l’uccello trova il nido, e invia così dei segnali agli esseri umani, in modo che questi ultimi possano prelevare il miele, mentre il primo la cera.
Un ulteriore esempio di relazione interspecifica stabile tra umani e non umani è quella che si ha tra i tradizionali pescatori giapponesi e la specie di uccelli detta Phalacrocorax carbo (più comunemente i “cormorani”). Questo tipo di uccello, dotato di abilità eccezionali nella pesca, da più di mille anni viene impiegato dai pescatori come strumento di cattura dei pesci fluviali: legati alle imbarcazioni, i cormorani si immergono nell’acqua per andare a caccia, catturano la propria preda e la portano al pescatore, dividendola con lui.
Rapporti utilitaristici di questo genere sono frequenti, si pensi ai topi utilizzati per fiutare le mine anti-uomo o alle unità cinofile di salvataggio che rischiano frequentemente la vita per salvare esseri umani in pericolo. Scrive in proposito Jules Howard su «The Guardian»:
«Guardate da vicino i cormorani e vedrete un laccio posto alla base della gola per impedire loro di ingoiare i pesci più grandi (che i pescatori vogliono per sé stessi). Siamo quasi sempre noi a gestire i termini dell’accordo. Quando lavoriamo insieme agli altri animali siamo quasi sempre noi che possediamo l’affare quando lavoriamo con altri animali».
A proposito dei numerosi tentativi di studio e osservazione animale, nel 1919 il filosofo polacco Daniel Zgliński, all’interno del suo libro Dusze zwierząt i ludzi w zarysach (traducibile in italiano come “Anime di animali ed esseri umani a grandi linee”), esprime alcune considerazioni relative al pensiero animale, rapportato a quello degli esseri umani, e scrive:
«[Tra gli animali] non esiste stupidità. L’essere umano, invece, agisce in modo assurdo. Gli animali non lo fanno, non commettono le cosiddette “sciocchezze”, soprattutto con un piano ben congegnato, come accade invece con gli esseri umani. Perché il livello del loro ragionamento non è solo basso, ma anche semplice, completamente diretto e rivolto verso un fine molto ravvicinato. E pertanto, per loro, non vi è nemmeno la possibilità di commettere sciocchezze».
Più avanti, l’autore sottolinea che l’assenza di un’intenzionalità cattiva negli animali non equivale, tuttavia, alla loro presunta stupidità:
«Se una pernice si lascia catturare in una trappola che è stata tesa per lei, questa non è prova della sua stupidità. Perché davanti a una trappola, anche se di altro genere, persino il saggio si lascia catturare, e ciò non prova affatto che colui che tende una trappola sia più saggio della sua vittima. Se addestriamo un cane da caccia affinché catturi un cinghiale, ciò non prova la stupidità del cinghiale o, d’altro canto, il nostro ingegno. Il cinghiale si muove in buona fede attraverso il bosco, mentre l’essere umano lo prende segretamente di mira con la sua cattiva volontà. Il trucco, l’eccesso di violenza non costituiscono prova per la ragione. Sono solo un sintomo di mani immorali slegate, non trattenute dagli scrupoli della ragione. Anche uno stupido può superare in astuzia uno saggio».
La comunicazione interspecifica tra animali umani e non umani è onnipresente nelle nostre vite quotidiane, anche quando non ce ne accorgiamo. Persino l’insetto più piccolo, allontanandosi da noi alla nostra vista, in quel momento ci sta inviando un preciso segnale di comunicazione non verbale, così come fanno in continuazione i nostri animali domestici verso di noi. Se è vero che tali interazioni sono parte intrinseca della nostra cultura e società, è interessante notare invece come la scienza abbia affrontato, negli anni, la complessità di questo rapporto e i presupposti di questa comunicazione tra specie.
Le ricerche scientifiche sulla comunicazione interspecifica
Se parliamo del rapporto tra scienza e sperimentazione animale, nomi come Dolly, Laika, Pavlov e Nim Chimpsky sono certamente noti a molti. I progetti di ricerca, provenienti dagli ambiti più disparati – dall’antropologia alla psicologia, dalla genetica alla fisica –, che hanno incentrato l’oggetto della propria indagine sullo studio e l’utilizzo degli animali sono innumerevoli. Un’enorme percentuale di premi Nobel per la medicina (76% nel 1901) si è affidata alla sperimentazione animale, mentre moltissime specie sono state utilizzate a scopo scientifico con una pressoché nulla regolamentazione. Oggi, circa il 95% degli animali usati a tale scopo è costituito da pesci, uccelli, topi e ratti, di cui questi ultimi costituiscono una larga maggioranza. Oltre all’utilizzo degli animali a scopi medici e per facilitare le ricerche sul campo, un ulteriore ramo scientifico denominato Animal Science sta diventando sempre più popolare come materia universitaria, offrendo un’ampia gamma di nuove opportunità professionali. L’Animal Science comprende produzione, gestione, istruzione, ricerca, servizi agricoli, genetica, microbiologia, comportamento animale, nutrizione, fisiologia, riproduzione, economia, marketing agrario, aspetti legali e ambiente. All’interno di questa vasta raccolta che comprende diversi aspetti della vita animale non umana, mi concentro qui su un oggetto di indagine in particolare, ovvero il comportamento animale e, più precisamente, la comunicazione interspecifica. Si tratta di un ambito scientifico abbastanza recente ma che ha goduto di uno sviluppo particolarmente intenso sin dalla sua nascita, ovvero nel corso degli anni ’60.
Irene Maxine Pepperberg, attualmente ricercatrice associata e docente presso la Harvard University, nota per i suoi studi sulla cognizione animale, in particolare in relazione ai pappagalli, spiega gli inizi di questo ambito scientifico durante la conferenza The Future Of Interspecies Communication, tenuta a DLD New York. Tutto è cominciato in Inghilterra, quando William Homan Thorpe ha provato a decifrare il canto degli uccelli e nel frattempo Jane Goodall studiava il comportamento di un gruppo di scimpanzé selvaggi sul proprio territorio nativo. In quel periodo, negli Stati Uniti, Trixie e Allan Gardner insegnavano alla scimpanzé Washoe a usare la lingua dei segni americana, tentativo fatto anche alcuni anni più avanti, alla Columbia University, da Herbert S. Terrace con lo scimpanzé Nim Chimpsky (il nome è un richiamo esplicito alla figura del linguista statunitense Noam Chomsky, il quale considerava l’abilità linguistica quale prerogativa esclusiva dell’essere umano: sebbene gli altri esseri viventi sappiano comunicare in modi molto diversi tra loro, solo gli umani sono in grado, infatti, di stabilire una grammatica universale e di produrre e comprendere sequenze infinite di segni, usando regole grammaticali specifiche che si applicano alla lingua. Durante la conferenza, spiega Pepperberg a proposito di uno degli esperimenti condotti con gli scimpanzé:
«Dunque, è successo che l’animale ha cominciato a usare la lingua umana per comunicare con gli uomini, per fare domande, per parlare del suo ambiente e descrivere ciò che vedeva. Non gli era chiesto di farlo, non lo faceva per ottenere in cambio un premio, ma proprio al solo scopo di comunicare».
C’è dell’altro in questo racconto. Diversi scienziati, infatti, non confermano questo genere di conclusioni né tante altre ricerche condotte in questo campo, convinti che questi tentativi di comunicazione da parte degli animali sottoposti a test siano soltanto presunti, casuali e non effettivi, in altre parole il risultato di un’azione forzata dai ricercatori più che consapevolmente compiuta dagli animali. Molti esperimenti di questo tipo, inoltre, si sono rivelati causa di danni psicologici e fisici per gli oggetti delle ricerche. Lo scimpanzé Nim Chimpsky, per esempio, è diventato sempre più aggressivo ed è deceduto, a causa di un attacco di cuore, alla prematura età di 26 anni.
Nel 1973, il premio Nobel per la medicina viene assegnato congiuntamente a Karl von Frisch, Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen, per le loro ricerche sulla comunicazione interspecifica.66Sulla motivazione si legge: «Discoveries concerning organization and elicitation of individual and social behavior patterns».
Su questo stesso ambito, David Premack introduce poco più avanti, nel 1979, i due concetti rivoluzionari di intenzione e comunicazione simbolica: «Quando l’uomo e lo scimpanzé gareggiavano per un obiettivo comune, gli scimpanzé imparavano sia a trattenere le informazioni o fuorviare il destinatario, che a sminuire o confutare gli stessi segnali fuorvianti del mittente».77Guy Woodruff, David Premack, Intentional communication in the chimpanzee: The development of deception, «Cognition», 7, 4, 1979, pp. 333-362.
Secondo Premack, pertanto, questa capacità di trasmettere e utilizzare informazioni accurate e fuorvianti, tenendo conto della natura del mittente o del destinatario, dimostra che questa specie di primati ha una capacità di comunicazione intenzionale.
Dagli anni ’60 a oggi le ricerche scientifiche, soprattutto negli ultimi tempi, si stanno focalizzando sempre di più sul tentativo di instaurare un rapporto di comprensione reciproca nella comunicazione tra la specie umana e le altre animali. Tra i numerosissimi esempi di comunicazione interspecifica non ancora menzionati ricordiamo anche le storie della gorilla Koko, del delfino Peter, del pappagallo Alex e del bonobo Kanzi. Alcune di queste ricerche hanno previsto l’uso di strumenti e approcci che oggi apparirebbero eufemisticamente controversi, con conseguenze drammatiche. Per esempio, dopo appena tre mesi dall’inizio del progetto, il delfino Peter, a causa della mancanza di fondi, fu trasferito dalla sua ampia e comoda Dolphin House a una squallida vasca isolata di Miami, dove filtrava pochissima luce solare.
Peter, che era stato oggetto di un esperimento condotto da Margaret Howe, sostenuta da John Lilly, aveva trascorso 24 ore al giorno per sei giorni a settimana insieme all’assistente di ricerca, instaurando con lei un legame che da più parti venne definito morboso, sebbene Howe continuò a difendere strenuamente i buoni propositi della propria ricerca (ossia, insegnare a Peter la lingua inglese). Isolato e sempre più depresso nella sua vasca di Miami, Peter un giorno smise di respirare. La storia del primo delfino suicida arrivò sulle prime pagine di tutti i giornali: The Dolphin Who Killed Himself Over A Broken Heart (“Il delfino che si è ucciso per un cuore spezzato”); Died of a Broken Heart (“Morto di cuore spezzato”); I Had a Sexual Relationship with a Dolphin (“Ho avuto un rapporto sessuale con un delfino”).
Non sorprende che le scoperte pioniere e scioccanti degli anni ’60 e ’70 siano subito entrate a far parte della cultura popolare. Ne è un esempio lo sketch “Gerald the Gorilla”, dalla serie britannica Not The Nine O’Clock News (dal 1979 al 1982 in onda su BBC Two), ancora popolare dopo quarant’anni sulle piattaforme online e continuamente nutrito da nuovi commenti sui social network. L’episodio in questione riprende un’intervista tra un docente di comunicazione interspecifica e il gorilla chiamato Gerald, interpretato da un uomo in costume. Gerald non solo agisce come un essere umano, ma sembra persino più sveglio del mediocre professore che lo ha portato via dalla giungla. Lo sketch richiama oggi alla mente alcune questioni sociali ed etiche rilevanti connesse all’agency animale, nonché una considerazione più ampia sulla presunta superiorità degli esseri umani sulle altre specie, qui messa sarcasticamente in questione.
Anche oggi gli esperimenti continuano, ma gli sperimentatori sembrano più accorti nel considerare e preservare le soggettività degli animali non umani. Le domande e i paradossi con cui ci scontriamo sono ancora molti, e alcune sentenze giuridiche cominciano a ridefinire i termini attraverso i quali siamo stati soliti considerare l’animalità.
Il desiderio di osservare e comprendere il mondo animale è più vivido che mai e si manifesta continuamente nelle nostre forme di intrattenimento: nei romanzi – si pensi agli esempi storici di Tarzan delle Scimmie (1912) e Miss Kelly (1947) –, così come nelle loro trasposizioni cinematografiche più attuali – per esempio, Mowgli. Il figlio della giungla (2018), basato sul romanzo di Rudyard Kipling pubblicato nel 1894. E se da un lato la presenza dei circhi diminuisce in relazione a nuove riflessioni di natura etica, dall’altro Internet non smette invece di interessarsi alla vita animale, sostituendosi come fonte di intrattenimento educativo (un esempio emblematico è il canale YouTube The Dodo con più di 11 milioni di iscritti). Sui media mainstream, inoltre, si continua ad assistere a un interesse spiccato nei confronti degli animali – per così dire – meno ordinari e in grado di suscitare fascino e paura – si veda in proposito il caso di David Salmoni, di Animal Planet, durante lo show di Jimmy Kimmel nella serie Wild Animals with Dave Salmoni.
All’interno di un simile contesto non sorprende naturalmente imbattersi in personaggi noti al grande pubblico che promuovono movimenti finalizzati a supportare i diritti degli animali, come fa per esempio Kevin Richardson attraverso il suo profilo su Instagram.
Su Internet esiste persino un intero spazio virtuale interamente dedicato alla comunicazione interspecifica. Come si legge dalla sua descrizione, il progetto Interspecies.Io mira a:
«Creare interfacce per abilitare la comunicazione bidirezionale; sviluppare sistemi interattivi per fornire una maggiore scelta e controllo; applicare i big data per decodificare i segnali di comunicazione degli animali; archiviare ricerche scientifiche sulla comunicazione interspecie, creando un dizionario online open source di segnali semantici noti di altri animali; e sviluppare software educativi e interattivi incentrati sulla comunicazione, la conservazione e il benessere di altri animali».
L’animalità nell’arte contemporanea
Scopo dei paragrafi precedenti non è stato soltanto di far emergere i legami tra scienza, cultura e arte nel campo dell’osservazione animale e della comunicazione interspecifica, ma anche quello di stimolare un pensiero critico e una contestualizzazione più ampia della ricerca. Il mondo dell’arte fa spesso ricorso più o meno esplicito alle teorie scientifiche, a volte perdendo di vista lo scopo dell’opera e della mostra e limitandosi a un’esposizione di informazioni, anziché di stimoli, come nel caso di Broken Nature: Design Takes On Human Survival, tenuta nel 2019 alla Triennale di Milano; altre volte, invece, con esiti più felici, come nel caso di A Leaf-Shaped Animal Draws The Hand, la personale di Daniel Steegmann Mangrané tenuta presso Hangar Bicocca, a Milano, tra settembre 2019 e gennaio 2020. Peggio è quando l’opera finge invece di essere allineata con la scienza, confondendo gli spettatori attraverso la rappresentazione di teorie obsolete presentate come nuove e ancora valide, o quando il valore puramente artistico passa in secondo piano senza un adeguato bilanciamento con il valore scientifico dell’opera e della mostra presentate al pubblico.
Ripercorrendo la storia dell’arte, gli animali sono sempre stati accanto a noi. Lo erano circa 17.500 anni fa, a Lascaux, nelle cui grotte vediamo raffigurati cavalli, tori, cervi e bisonti. E lo sono stati anche millenni più avanti, come elementi iconografici, simboli, attributi, oggetto di nature morte e scene di caccia. Solo più di recente l’arte ha cominciato a considerare più profondamente la soggettività animale, parlando di emozioni, spesso tentando di mettersi nei panni del non umano, di restituirgli (o meglio, attribuirgli) la parola. Molti gli esempi, sia di stampo più tradizionale che dal tono più trasgressivo: dai leoni di Adrian Ghenie (Hungry Lion, 2018) agli scoiattoli (Bidibidobidiboo, 1996) e i piccioni di Maurizio Cattelan e Hanna Antonsson; dalla piramide animale di Katarzyna Kozyra (Piramida zwierząt, 1993) e dagli strani insetti di Zuza Piekoszewska (Ready to Hatch, 2019, e You Are a Little Soul Carrying About a Corpse, 2020) agli imponenti complessi scultorei di Max Hooper Schneider ispirati alle forme biologiche marine, fino ad arrivare alle figure animalesche scolpite sul marmo di Helena Hladilova; e ancora, tartarughe (The Hermit di Liam Denny, 2021), ritratti di cani (Monika Chlebek per la mostra Animal Show di Acappella Gallery, 2022), cavalli e altri animali (Lucrezia Testa Iannilli con Cheval à bord, 2017, Animalia, 2016, Gates, 2021, e New Humans, 2021), molti di questi sacrificati “in nome dell’arte” – come nel caso di Damien Hirst.
Rispetto agli esempi riportati si aggiunge oggi un ulteriore insieme di ricerche artistiche sugli animali, ovvero quelle che agli animali intendono ridare una voce. Ne vediamo di seguito alcune.
Orgy for 10 People in One Body: 5
Isabelle Albuquerque è scultrice e performer. Una delle opere che ha presentato nel 2020 alla mostra Sextet presso Nicodim Gallery si intitola Orgy for 10 People in One Body: 5 e consiste in una scultura in cui l’artista “incarna” il corpo di una cerva distesa su un cuscino d’erba. Nel comunicato stampa della mostra leggiamo che:
«Il corpo, per Albuquerque, è un contenitore poroso per l’empatia e l’emozione individuale. Si immerge nell’ambiente circostante attraverso l’osmosi – una lotta con un amante, un incontro con il sublime, un bambino che piange, un calzino scomodamente bagnato in una serata gelida – e si riempie di esperienza, solo per lasciare sfuggire gradualmente questi momenti in qualche forma, spesso irriconoscibile per il corpo stesso. Ogni oscillazione del gomito è un ricordo dimenticato che si riafferma, ogni arricciatura delle dita dei piedi è una vita passata alla ricerca di un nuova casa».
Per Albuquerque, tutte queste forme immobili, nelle quali il suo sé psicologico viene a moltiplicarsi, non sminuiscono la sua presenza ma, anzi, la amplificano, estendendo così la sua superficie empatica interiore. Albuquerque spiega che tutti noi spettatori diventiamo strumenti all’interno della sua sinfonia di gesti irrisolvibili.
Balena Project
Balena Project è un’opera itinerante di Claudia Losi e consiste in una serie di forme e azioni che ruotano intorno al corpo di una balenottera comune ricostruita a grandezza naturale con un tessuto di lana grigia. L’opera, che indaga il rapporto che noi esseri umani abbiamo con l’animalità, è stata trasportata in diverse parti d’Italia, in riva a un fiume, in una piazza, in un quartiere di periferia e nel cortile di una scuola.
Come racconta l’artista, Balena Project nasce da una scoperta che segna profondamente il suo immaginario. Nel 1934, un farmacista scoprì per caso sugli Appennini – meta di vacanza per l’artista, quando era bambina – lo scheletro di una balena risalente al Pliocene. Un tempo, dunque, gli Appennini sono stati parte del mare, ricoperti dall’oceano Tetide.
La balena è inoltre simbolo pregno di significati, fissato non solo nell’immaginario privato dell’artista, ma anche, parallelamente, in quello collettivo, nell’immaginario di ognuno di noi. Il progetto è un insieme di forme varie – libro, performance, installazione, oggetto – e attraversa i campi delle scienze naturali, dell’antropologia, della zoologia e della tutela ambientale, divenendo catalizzatore di una collaborazione al progetto che ha visto migliaia di persone coinvolte. Per esempio, Losi ha lavorato con gli alunni della Erdington Hall Primary School realizzando vari disegni di balene che sono stati poi utilizzati dai residenti locali, all’interno di una sartoria temporanea, come modelli per produrre centinaia di altre piccole balene di stoffa. Leggiamo sul comunicato stampa:
«Lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali mette infatti in pericolo non solo la sopravvivenza materiale dei cetacei, ma anche quella degli archetipi immaginativi, radice dell’umano, che essi rappresentano. La trasformazione del “fuori misura” in qualcosa che è “a misura d’uomo” messa in atto da Claudia Losi […] risponde al bisogno di comprendere l’idea stessa del gigantesco, del grandioso, dello straordinario, di far sopravvivere e anzi vivificare e moltiplicare la potenza di una forma del tutto particolare».
E, ancora, Felice Cimatti su «Antinomie»:
«“Uscirò dal suo ventre. Forse”. È vero, si esce, alla fine, ma mai del tutto. Non si esce dal ventre della balena, o meglio, non si fa che continuare a uscire dal ventre della balena. Se la balena è un passaggio, infatti, non si smette di coincidere con quel passaggio che non passa mai. Ma questo significa, anche e simmetricamente, che in quel ventre non si smette mai di ri-entrarci. La balena è appunto questo movimento, e per questo è così potente il pensiero balena, la whale theory che in realtà non vuole affatto essere una teoria del cetaceo come oggetto artistico, quanto una sorta di “guida” per farsi prendere dal pensiero balena. Per questo, scrive ancora Claudia Losi: “La metafora che più spesso è stata adoperata per definire Balena Project riguarda la sua capacità ‘contenitiva’. Le balene, quelle vive, restano parzialmente invisibili, come la parte sommersa dell’iceberg: un impensabile che chiede un supplemento di immaginazione per risalire in superficie. Le balene contengono, raccolgono nella loro massa altra massa”».
If Only You Could See What I’ve Seen with Your Eyes
Katja Novitskova è artista visiva estone di fama internazionale, ormai considerata madrina del movimento post-digitale di fine anni 2000. È inoltre autrice del libro Post Internet Survival Guide 2010, una “guida per la sopravvivenza” nata – ci dice l’artista – «come risposta al bisogno umano fondamentale di far fronte alla crescente complessità. Di fronte alla morte, all’attaccamento personale e alla confusione, per sopravvivere occorre sentire, interpretare e indicizzare questo oceano di segni». Oltre alle mostre personali alla Whitechapel Gallery, al Museo Migros e al City Hall Park di New York City, nel 2017 Novitskova ha rappresentato l’Estonia alla 57a Biennale di Venezia. Kiriakos Spirou ne commenta così la ricerca:
«La sua pratica artistica è caratterizzata da un ampio uso di materiale fotografico che trova online, che porta poi nel mondo fisico sotto forma di stampe ingrandite su alluminio e installazioni. Novitskova è interessata principalmente a come intendiamo la natura attraverso il mondo digitale».
L’artista indaga i modi in cui intendiamo, o piuttosto, ri-definiamo o ri-costruiamo la natura attraverso gli strumenti tecnologici e digitali. Un esempio di questa ricerca è la mostra If Only You Could See What I’ve Seen with Your Eyes. Stage 2, che si è tenuta al Kumu Art Museum di Tallinn. L’intero fulcro della mostra, il cui titolo riprende una conversazione tra il replicante Roy Batty e il designer e ingegnere Hannibal Chew in Blade Runner (1982) di Ridley Scott, è la visione artificiale. L’esposizione consiste in un ambiente immersivo abitato da macchine viventi, grafici incorporati in materiali sintetici e sculture bidimensionali di forme di vita selvagge e geneticamente modificate. Al suo interno figurano anche i nematodi Caenorhabditis elegans, organismi impiegati nella ricerca biologica dello sviluppo e in neurologia, che Novitskova ha ingrandito notevolmente ottenendo le medesime dimensioni degli orsi polari, degli scimpanzé e dei leopardi presenti in mostra. A proposito dell’esposizione Neringa Černiauskaitè scrive su «Art Forum»:
«Camminare da una stanza all’altra è come girovagare per un museo di storia naturale o di scienza, anche se la distinzione tra natura e scienza diventa controversa: non esiste più un ambiente naturale, perché tutto è stato oggetto a manipolazione scientifica e tecnologica. […] Mettendo insieme queste specie, l’artista mostra come la modernità abbia eroso la differenza tra prigionia e libertà: l’occhio della tecnologia controlla tutti gli organismi, nonostante la loro posizione e scala. La prigionia assume nuova forma e significato: non rappresenta più l’incarcerazione fisica, ma piuttosto morbidi tentacoli invisibili di apparati di localizzazione. Per la scienza e il capitale, il corpo non è semplicemente un’unità fisica, ma un insieme di dati in continuo cambiamento».
L’habitat naturale di questi animali e organismi è stato sostituito dallo spazio fisico della mostra, uno spazio che tenta di riflettere l’immagine di un mondo ossessionato dalla tecnologia. In modo piuttosto drammatico, siamo messi di fronte alla constatazione che gli esseri più fragili del pianeta sono anche quelli più continuamente esposti alla violenza e a forme di controllo.
Altro interessante progetto di Novitskova è Gignesthai (2021), dal greco γίγνομαι (“essere prodotto, diventare, essere”). Qui la scultura raffigura una chimera creata da un software di intelligenza artificiale, dopo essere stato alimentato dall’artista con immagini di animali riprese dal suo archivio. L’installazione attiva subito nello spettatore un senso d’angoscia, per la qualità spettrale e scintillante dell’immagine, una caratteristica probabilmente dovuta al fatto che la maggior parte di queste immagini sono state scattate, nella più completa oscurità, da telecamere con visione notturna.
I Do Not Know What It Is I Am Like
Uno dei primi artisti che, precorrendo i tempi, ha tentato di attuare un rovesciamento di prospettiva nelle sue opere per mettere al centro l’animalità è Bill Viola. I Do Not Know What It Is I Am Like (1986) è un video di 89 minuti in cui si susseguono ingrandimenti rallentati sulla vita di alcuni animali. Viola descrive il lavoro come «un’indagine personale degli stati interiori e delle connessioni con la coscienza animale che tutti portiamo dentro». Questa ricerca di trascendenza e conoscenza di sé è stata infatti descritta sul «The Wall Street Journal» come: «Spiritualità nell’era dell’ironia» («Spirituality in an Age of Irony»). Strutturata in cinque parti, l’opera realizza una complessa indagine sul rapporto tra soggetto e oggetto, tra l’osservare e l’essere osservati, presentando una scena peculiare che diviene metafora visiva indelebile per lo spettatore: l’immagine dell’artista riflessa nella pupilla dell’occhio di un gufo.
Everything Human Is Alien to Me
Accanto agli esempi finora citati, intendo qui raccontare la genesi di una ricerca artistica e di un lavoro che ho personalmente realizzato e che mi sembrano coerenti con i contenuti e gli argomenti finora trattati. Everything Human Is Alien to Me è un video che ho realizzato nel 2012, ispirato alla storia della tredicenne Carly Fleischmann, affetta da disturbo dello spettro autistico. Rinchiusa nel suo mondo interiore e impossibilitata a comunicare con i membri della sua famiglia, Carly, un giorno, utilizzando la tastiera di un computer, riesce a scrivere tre parole: “dolore”, “denti”, “aiuto”. Lo stupore di questo momento memorabile è raccontato da Arthur Fleischmann, padre di Carly, con queste semplici parole: «All’inizio non potevamo crederci. Eravamo terrorizzati. Abbiamo parlato di Carly per anni come se lei non ci fosse».
Il mio lavoro consiste in una registrazione audiovisiva di circa due ore realizzata da un cervo selvatico, sulle cui corna ho posizionato una telecamera. Si tratta di una registrazione spontanea e interamente gestita dal cervo, che ha raccolto una serie di scene che ricostruiscono l’immaginario della sua vita e di quella degli altri membri del gregge. Durante il percorso, gli animali incontrati dal cervo reagiscono alla sua presenza in svariati modi: alcuni lo (ci) guardano, si avvicinano, altri passano accanto quasi sfregandosi o saltano via. In questa serie di immagini riusciamo quasi a percepire la loro corporeità, la materialità e la vitalità delle loro vite. La resa dell’immagine, proprio perché gestita inconsapevolmente dall’animale, è difficile da assimilare, dobbiamo adattarci alla sua realtà: la telecamera traballa, il cervo attraversa il terreno in modo incomprensibile e illogico per noi, cerca qualcosa che sfugge alla nostra intuizione. Otteniamo così una prospettiva voyeuristica in cui diventiamo origliatori, sbirciatori, invadendo un territorio che non ci appartiene ma con il quale arriviamo quasi persino a fonderci.
A completamento di quanto espresso a proposito di questo lavoro, mi sembra utile riportare ciò scrive Emilia Chorzępa in Spektakl przemienienia. Dziedzictwo tradycyjnych (nie)martwych natur a wybrane realizacje z obszaru sztuki technologicznej absorbujące idee posthumanistyczne (2018):
«Siamo costantemente osservati, altri animali reagiscono in modo vivido verso di noi, sembrano guardarci “dritto negli occhi”. A proposito del ruolo della vista e dell’attività del vedere in ambito animale, Giovanni Aloi si avvale delle osservazioni di John Berger, storico dell’arte, che negli anni ’80 ha arricchito questo campo con la presenza di teorie legate allo studio e all’apprendimento degli animali. Discutendo dei successi di Berger, indica una delle sue osservazioni più interessanti: nell’era del capitalismo, gli animali sono scomparsi dalla forma originale in cui ci erano conosciuti prima e sono stati neutralizzati, ridotti a simboli “levigati”. Più avanti nel libro, l’autore descrive l’effetto della fotocamera che diventa un’arma che spara l’immagine – innocente, levigata –, l’autore usa persino la frase “uccidere un animale” in modo simbolico per registrare la sua immagine, ottenere una rappresentazione “per i posteri”. In questo modo, la natura viene ridotta alla sola bellezza, e quindi oggettivata. Qui la fotocamera non congela le immagini, non cerca inquadrature estetiche, pur trovando comunque la bellezza (meno evidente), registra la realtà senza censure perché guidata dall’animale stesso. Agli animali viene data la loro natura, “non pulita”, di cui noi stessi siamo partecipi».
La base teoretica di questo video è il concetto di dissonanza cognitiva di Leon Festinger, uno stato della spiacevole tensione psicologica che si verifica quando proviamo opposte esperienze cognitive contemporaneamente. Nell’ottica di Festinger, l’individuo esposto alla dissonanza cognitiva può reagire in tre modi: aggiungere un nuovo elemento conoscitivo, cambiare uno degli elementi che sono in collisione tra loro o riformulare il significato di uno degli elementi incompatibili. Ciò che vediamo sullo schermo non è simile a ciò che abbiamo mai visto prima o a ciò che abbiamo nel nostro immaginario sia privato che collettivo. Il cervo si muove diversamente dalla mano dell’uomo, per gran parte del tempo vediamo immagini “inutili”: l’erba brucata dall’animale, l’acqua che beve; si tratta di un immaginario a volte incomprensibile, proveniente da un altro mondo, un mondo per la cui lettura non possediamo la chiave. Ancora Chorzępa:
«Il disagio che sorge è la combinazione del senso di una certa appartenenza e fusione fisica, una dissonanza cognitiva che si manifesta quando constatiamo che ciò che vediamo è inesplicabile nel quadro di una conoscenza non acquisita. Non siamo esterni, ma ancora diversi – questo status assurdo sembra essere il più razionale, ci permette di mantenere un sano equilibrio nei rapporti interspecie –, non è né l’edipizzazione degli animali, né la credenza nell’esistenza di un totale, e quindi differenza assolutamente irriducibile tra “loro” e “noi”».
Quando guardiamo il video, la spiacevole dissonanza cognitiva aumenta, crescendo in forza con il tempo. A un certo punto, spinti dalla tensione, siamo forzati a cambiare atteggiamento. La soluzione migliore dello stato di dissonanza di cui siamo partecipi è unirsi con l’oggetto che registra, ovvero collegarsi con la coscienza dell’animale. L’immagine, estranea ma elementare, dà la possibilità di sperimentare direttamente il sé dell’altro: «Lo spettatore così implicato nel quadro […] guarda le immagini del film con gli occhi di un cervo, deve rinunciare alla sua posizione contemplativa, non è un osservatore passivo, diventa quasi un cervo».
Your Urge to Breathe Is a Lie
Your Urge to Breathe Is a Lie (2019) è un video di Miriam Simun che racconta il futuro dell’essere umano di fronte alla crisi climatica dal punto di vista della nostra comunicazione con la società e l’ambiente. Il lavoro fa parte della serie intitolata Training Transhumanism (I Want to Become a Cephalopod), ovvero un training psicofisico sviluppato presso il MIT Media Lab in collaborazione con la coreografa Luciana Achugar, ideato da Simun. Il progetto analizza il tema dell’evoluzione umana in un mondo futuro segnato da cambiamenti ecologici e tecnologici sempre più rapidi. Gli esercizi di cui consiste il training sono volti a sviluppare nuove sensibilità e abilità nell’essere umano, basate sul modello dei cefalopodi:
«Utilizzando i cefalopodi, piuttosto che le macchine, come modello per un futuro umano, e reclamando il concetto di “transumanesimo” nelle mani dei tecno-profeti, il progetto propone un programma di formazione che consente di diventare un transumanista definito come fisicamente, cognitivamente ed emotivamente migliorato. […] L’allenamento utilizza le capacità presenti nel corpo umano biologico e i piaceri radicati nello sforzo del corpo; esplora le possibilità di utilizzare la conoscenza mitologica, incarnata e primaria in un progetto di innovazione; pone la “specie modello” come modello di un qualche tipo di umanità, non solo come strumento scientifico; e comprende la formazione come una tecnologia incorporata nella pratica, lo sviluppo delle capacità interne e l’uguaglianza di accesso».
Il video presenta i cefalopodi come modello di riferimento atto a garantire un corretto sviluppo evolutivo per gli esseri umani. La scelta è ricaduta su questa specie animale nel momento in cui l’artista ne ha compreso la struttura biologica, la quale è in grado di scardinare e rompere il divario cartesiano tra mente e corpo: i neuroni dei cefalopodi sono infatti distribuiti su tutto il corpo, e ciò non consente pertanto di riconoscere e attuare il distinguo dicotomico.
Iris i Rex
Nel video Iris i Rex, l’artista Justyna Górowska instaura davanti alla telecamera un contatto sensuale, modellato sul comportamento erotico umano, con i suoi due cani. Jakub Majmurek descrive l’azione in questo modo:
«Gli animali leccano il latte dal suo corpo, leccandole il viso; la lingua dell’essere umano e del cane si incontrano in un bacio interspecie. Da un lato questa immagine ha una sua derivazione diretta da performance a sfondo pornografico, fa riferimento al trasgressivo “porno interspecie”; dall’altro sviluppa invece una sorta di utopia transumanista, che fa sparire la differenza tra ciò che è “umano” e ciò che è “disumano”. L’essere umano ritrova qui il contatto con la sua base animale, crea con gli altri animali un’autentica comunità “etica”».
I Like America and America Likes Me
In questa sua performance concepita nel 1974, Joseph Beuys interagisce per tre giorni consecutivi, all’interno di una stanza, con un coyote selvatico. Arrivato nel maggio del ’74 all’aeroporto JFK di New York, Beuys si fa trasferire immediatamente all’interno di una stanza della René Block Gallery di West Broadway, dove comincerà a condividere lo spazio con l’animale. Canide indigeno del Nord America, il coyote rappresenta il simbolo delle origini americane e, all’interno di questa performance, assume il ruolo di attore protagonista, mantenendo la propria autonomia. Se inizialmente l’animale diffida dell’uomo, arrivando a strappare a morsi una coperta, in un secondo momento sembra invece accettarne la presenza e diventare più tollerante nei suoi confronti. Opera complessa e ricca di possibili interpretazioni, I Like America and America Likes Me spinge lo spettatore a una riflessione sui motivi di così tanti conflitti che hanno segnato, in passato e nel presente, gli Stati Uniti:
«Per quanto complessa nella sua natura, ha a che fare con la differenza. Piuttosto che abbracciare ciò che è sconosciuto, la società americana ha teso alla paura e al suo rifiuto. […] La sua idea del gesamtkunstwerk, una scultura sociale e un’opera d’arte in cui chiunque può essere coinvolto, spalanca le porte a una società aperta e partecipativa. Solo attraverso uno sforzo e il desiderio di guarire, direbbe, possiamo sradicare la paura e gli stereotipi: ma è semplice come passare del tempo insieme».
Beuys non è l’unico artista ad aver introdotto animali della famiglia dei canidi all’interno delle proprie opere, scelta che ha inevitabilmente sollevato riflessioni e polemiche sulla legittimità che sta dietro al coinvolgimento di questi e altri animali, del tutto inconsapevoli. In alcuni casi l’illegittimità si è persino trasformata in vera e propria immoralità, come nel caso dell’artista costaricano Guillermo Vargas, tristemente noto per aver esposto nel 2007 un cane emaciato in una galleria del Nicaragua.
Second Livestock
Con un registro e un tono nettamente diversi, Austin Stewart, docente di design alla Iowa State University, presenta Second Livestock, un’opera che esiste come sito web e come performance e che, attraverso una parodia di Second Life, invita il pubblico a riflettere sulle ragioni e le conseguenze del trascorrere la maggior parte della propria vita negli spazi virtuali. L’opera propone lo sviluppo di uno strumento tecnologicamente avanzato che consentirebbe di trasformare radicalmente le nostre modalità di allevamento dei polli. Le cuffie “Cockulus Rift”, dotate di visori per la realtà virtuale, farebbero infatti credere ai polli di trovarsi all’interno di un ambiente più bello e meno stressante rispetto alla gabbia. Naturalmente la parodia, che prende in giro i dispositivi di marketing e il clamore suscitato dalle aziende tecnologiche nel momento in cui introducono una nuova tecnologia “dirompente”, mira a tracciare un parallelismo tra il modo in cui trattiamo gli animali e il modo in cui invece trattiamo noi stessi.
Pteridophilia
Quella di Zheng Bo è una pratica artistica politicamente e scientificamente informata. La serie di video Pteridophilia (2016-in corso) esplora il filone di ricerche ecoqueer, indagando i legami tra esseri umani e natura da una prospettiva di genere. In uno dei video vediamo un gruppo di uomini in una foresta stabilire relazioni fisiche ed emotive con le felci. Uno di questi, protagonista di un altro video, arriva persino a intrattenere un rapporto sessuale con una felce nido d’uccello (Asplenium nidus), per poi cominciare a mangiarla. Per quanto sia “naturale” mangiare le piante – la felce nido d’uccello è una prelibatezza molto diffusa a Taiwan – fare l’amore con loro è universalmente percepito come “innaturale”, quando non persino “immorale”. Dalla biografia dell’artista riportata sul sito della galleria Edouard Malinge leggiamo:
«Pteridophilia mette in scena un incontro sensibile e riflessivo tra esseri umani e piante – l’accettazione di quel desiderio di connettersi attraverso il corpo piuttosto che il linguaggio per trasformare il piacere. Posizionato contro il flusso della società meccanizzata, Zheng Bo suggerisce nella sua pratica provocatoria che le nostre fantasie sono essenziali per tessere nuove favole del postumanesimo, estendere i nostri desideri di dissolversi in altre forme di vita e rinnovare la nostra comprensione della politica della vita».
L’artista si chiede: come possono le piante, in particolare in tempi di rapido cambiamento climatico, diventare parte di un’idea politica e aiutare ad allontanarsi dalla nozione antropocentrica di libertà? Come si può immaginare e realizzare l’uguaglianza delle specie sul pianeta?
«Zheng Bo vede la foresta come una strana assemblea in cui gli alberi prendono parte a un congresso della loro forma unica, più che umana. Crede che se vogliamo davvero entrare in un futuro in cui gli esseri umani non siano il centro del mondo, dobbiamo trattare le altre forme di vita e la materialità con pieno rispetto, biologicamente, intellettualmente e politicamente».
I Wanna Deliver a Dolphin
Anche in questo caso sollecitando l’idea di un’unione completa e totale con la natura, l’opera di Ai Hasegawa immagina una situazione proiettata nel futuro in cui gli esseri umani, grazie alla biologia sintetica, saranno in grado di partorire animali per rispondere a una grave carestia di cibo dovuta all’azione congiunta di sovrappopolazione e crisi ambientale. Grazie a una particolare modificazione della placenta, le femmine umane potranno diventare madri surrogate per specie in via d’estinzione, come nel caso del delfino di Maui, protagonista del video. Tuttavia, lo scenario prospettato apre le porte a un grande dilemma etico: le donne saranno davvero disposte a dare alla luce questi animali da consumo, oppure il legame che verrà a instaurarsi tra le due soggettività implicherà anche l’amore e la maternità?
frogs.picus.VANNA
Presentata nel 2021 come parte del progetto Green was the forest drenched with shadows, il programma di Almanac a cura di Giulia Colletti e Matteo Mottin con Leonardo Caffo, Ramona Ponzini e The Forest Curriculum, e tra gli eventi della Diciassettesima Giornata del Contemporaneo curata, nello stesso anno, da Gianluigi Ricuperati e Giulia Colletti a Castello di Rivoli, l’opera sonora a tre canali frogs.picus.VANNA, 2021 di Ramona Ponzini, co-fondatrice con Mottin di Treti Galaxie, fa riferimento alla pratica giapponese dello Shinrin-yoku ed è composta da tre fonti audio: frogs, 19′ 30” – il richiamo roco e intermittente della rana è sovrascritto dal cinguettio sommesso degli uccelli e dallo stridio degli insetti che l’artista ci sfida a identificare in picus, 18′ 58”; e VANNA, 19′ 16” – modulazioni elettroniche e liquide.
Il godimento e allo stesso tempo l’apprensione con cui ci concediamo un esercizio di sintonizzazione del respiro con la foresta riflette il successo dello scopo di «sfidare la frontalità di un DJ set dal vivo a favore di una circolarità immersiva», progettato dall’artista nella sua installazione sonora. L’ambiente audio creato attraverso metodi eterogenei giunge suggestivamente al nucleo della giungla archetipica, pericolosamente vicina all’io freudiano.
La Terra come entità vivente
Abbiamo visto come, a prescindere dal coinvolgimento diretto degli animali, l’arte dell’ultimo decennio indaghi intensamente le potenzialità delle forme organiche. Spesso le opere rimandano al margine ormai sfocato tra biologico e tecnologico, a nuove identità ibride, alla sospensione tra vita e non vita, a figure immaginarie composte da più specie e ad artefatti che richiamano miti, leggende e archeologie proiettate tuttavia non nel passato, ma nel futuro.
Altri esempi di mostre e ricerche artistiche che abbracciano questi argomenti sono: TTOA: Native Arrangement II, con Kai (Kari) Altmann, curata da Ben Sang; Falconer, con 011668, Riccardo D’Avola-Corte, Ben Sang, FITNESSS; Orrido 120, con Monia Ben Hamouda, Benni Bosetto, Lisa Dalfino/Sacha Kanah, Cleo Fariselli, Michele Gabriele, Andrea Magnani, Valerio Nicolai, Luca Pozzi, Federico Tosi, a cura di Something Must Break e Zoë De Luca; SUMO | THE ODD YEAR II, con Kris Lemsalu e Kyp Malone a hunt kastner | Temnikova & Kasela (EE); BOTOND KERESZTESI: Nothing Works Anymore (N.W.A) a lítost | Everybody Needs Art (HU); Mary-Audrey Ramirez: They Miss Being Aware Of Time al Polansky | Martinetz (DE); infine, i lavori di Michele Gabriele, Isabelle Andriessen e Pakui Hardware.
Tutte queste manifestazioni, allocate in ambienti naturali, spazi industriali o white cube, sembrano avere in comune un approccio diverso, rispetto al passato, nel modo in cui è affrontato l’argomento, e cioè è come se la maggior parte di queste mostre e di queste ricerche tentasse di presentare la natura non più come oggetto inerte di osservazione, ma come soggetto presente e dotato di agency, vivente e indipendente rispetto al contesto in cui si trova collocata.
A questo proposito mi sembra utile concludere con le parole riportate su «Cura Magazine» a proposito della mostra Life to Itself (2021) curata da Flora Katz:
«Non è sempre facile pensare alla Terra come un essere vivente, percepirne i movimenti, lenti o troppo veloci, o comprenderne i cicli con le sue relazioni causa-effetto spesso lontane. Life to Itself ricerca la vitalità della materia, i ritmi fuggitivi, le mutate trasformazioni. Anziché presentare opere fisse oggetto dello sguardo umano, miriamo a trovare reazioni a catena. […] Proporre un’opera d’arte o una mostra che sia senziente significa restituire autonomia estetica all’opera stessa e allontanarsi dalla modalità tradizionale di un soggetto che guarda un oggetto. L’opera d’arte senziente non ha più bisogno di essere guardata; si sviluppa semplicemente in relazione al suo ambiente, con o senza noi esseri umani. Considerare la mostra o l’opera come senzienti è un modo per rispondere al problema dell’Antropocene: se il cambiamento climatico richiede che gli esseri umani spostino la loro attenzione per ascoltare meglio la Terra, allora dobbiamo trovare nuovi modi di guardare. Non considerare più la Terra come una risorsa ma come un essere sensibile nei confronti di altri esseri, le cui reazioni sono talvolta impercettibili, ma hanno conseguenze importanti. Un’opera d’arte senziente può essere inoltre prodotta dalle sue connessioni con altri esseri viventi: possiede questa capacità di generare forme che non sono state previste dall’artista che l’ha originariamente creata. In relazione al suo luogo e agli altri esseri, trasforma e apre nuove possibilità che l’azione del tempo chiama alla luce».
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Dobrosława Nowak è scrittrice, ricercatrice, artista e curatrice. Laureata in Fotografia (2013) all'Università dell'Arte di Poznań (Polonia) e in Psicologia (2015) all'Università di Adam Mickiewicz a Poznań. Nel 2018 ha frequentato il corso "Ultime Tendenze nelle Arti Visive" all'Accademia di Belle Arti di Brera. Scrive d'arte per varie riviste in inglese, italiano, polacco e francese. Nata in Polonia, vive e lavora a Milano.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.