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Fine dei motivi e dei generi cinematografici
Magazine, LINGUAGGI - Part II - Gennaio 2022
Tempo di lettura: 12 min
Lorenzo Picarazzi

Fine dei motivi e dei generi cinematografici

Il cinema tra realtà e distopia: le tecnologie per la sorveglianza di massa nei film di fantascienza e le riflessioni di Harun Farocki sulle trasformazioni dei linguaggi cinematografici

Harun Farocki nel 2014 con la sua installazione di 12 schermi “Workers Leaving the Factory in Eleven Decades”. Crediti: Carmen Jaspersen/European Pressephoto Agency.

Il confine tra reale e messa in scena si fa sempre più sottile nelle immagini del nostro tempo. Abituati dal cinema di fantascienza a immaginare futuri distopici, potremmo perdere questa abitudine nel momento in cui tale genere non avrà più motivo di esistere.

Bezos e staff durante l_atterraggio dopo il volo di 11 minuti, 2021.

Il 13 ottobre 2021 Jeff Bezos & team realizzano il secondo volo suborbitale, portando a bordo Audrey Powers, vicepresidente della missione di Blue Origin, Chris Boshuizen, co-fondatore della compagnia di osservazione terrestre Planet Lab, Glen de Vries, co-fondatore di un’azienda di software francesi deceduto nel novembre del mese successivo, e l’attore William Shatner, celebre per il suo ruolo di Capitano Kirk in Star Trek. In un parallelismo tra turismo spaziale e fantascienza cinematografica, la realtà si mostra come un set interamente immortalato e trasmesso in diretta planetaria.

Il 20 febbraio 2018, Elon Musk spedisce una Tesla Roadster in orbita verso Marte, con una gigantesca trovata pubblicitaria in concomitanza dell’inaugurazione del suo razzo Falcon Heavy, inaugurando di fatto l’ipotesi del turismo spaziale. Le riprese mostrano l’automobile in orbita verso Marte. In questo caso, il parallelismo tra generi cinematografici e realtà si mostra nella scritta sul cruscotto dell’auto, che recita “Don’t Panic”, citazione che appartiene al mondo del cinema di finzione. I video arrivati dallo spazio mostrano l’automobile con le ruote ferme, e un fantoccio come pilota, rendendo l’oggetto obsoleto, non più in grado di compiere il suo lavoro.

Tesla Roadster nello spazio, 2018.

Come smettere di immaginare

In tutti i lavori di Farocki c’è sempre uno sguardo rivolto al cinema. In Sguardi di controllo possiamo tirare le fila verso una cultura cinematografica molto ampia. Qui, nella sua brevità, il paragrafo intitolato La fine dei motivi cinematografici e dei generi risulta emblematico:

«Si è già detto che, a breve, la scena della visita in prigione si troverà a non avere più alcuna corrispondenza con la realtà. E con l’introduzione della valuta elettronica persino rappresentare una rapina in banca diventerà praticamente impossibile. Se si arrivasse al punto in cui le armi hanno una sicura elettronica e solo l’autorizzato può aprire il fuoco, in cui ogni sparo viene registrato automaticamente in centrale, allora quella sarebbe la fine dei duelli cinematografici con pistola».11Incredibile come questa scena ipotizzata da Farocki compaia, anni dopo, in Cosmopolis di David Cronenberg (2012).

Lo scanner dell’iride, oggi in grado di determinare l’identità di un individuo, minaccia la commedia degli equivoci. Sarà quasi impossibile raccontare la storia di un uomo che va in prigione al posto di un altro, o di un visitatore che scambia gli abiti con un detenuto per farlo uscire di prigione. Con l’aumento dei dispositivi elettronici di controllo, la vita quotidiana diventerà difficile da rappresentare e drammatizzare, così come è accaduto con il lavoro di tutti i giorni.

David Cronemberg, Videodrome, 1983.

Il genere della fantascienza appartiene a diverse categorie: letteratura, cinema, televisione, radio ecc. Il boom degli anni ’70, l’avvento di Internet e delle “nuove” tecnologie mediali hanno spinto l’immaginazione verso confini sempre più lontani. A questi appartengono soprattutto quei film di finzione (science-fiction) caratterizzati da una morale espressa in una forte critica verso la società, o verso una società che si ipotizza raggiungibile

Steven Spielberg, Minority Report, 2002.

Il germe orwelliano della distopia ha invece radici negli anni ’80 e ’90, quando la memoria collettiva conserva ancora il ricordo di guerre da poco trascorse e in cui tuttavia si affacciano nuove prospettive belliche: il timore di andare sempre più incontro a una realtà distopica dominata dalla tecnologia e le possibilità, in quel momento poco esplorate, dei nuovi dispositivi smuovono l’opinione pubblica. 

Film come la trilogia di Matrix (Lana e Lilly Wachowski, 1999), Blade Runner (Ridley Scott, 1982), Nirvana (Gabriele Salvatores, 1997), Tetsuo (Shinya Tsukamoto, 1992), Tron (Steven Lisberger, 1982), Avalon (Mamoru Oshii, 2001), Videodrome (David Cronenberg, 1983), Akira (Katsuhiro Ōtomo, 1989) – solo per citarne alcuni – incarnano l’idea della fusione tra essere umano e macchina, tra tecnologia e vita, con tensioni cyberpunk.22Genere che comprende letteratura, cinema e arti nato nella prima metà degli anni Ottanta. Il termine è coniato da Bruce Bethke come titolo del suo racconto Cyberpunk (1983). Mescola al suo interno componenti di cibernetica, tecnologia e fantasy, spesso con un arco narrativo propenso alla ribellione.

Steven Spielberg, Minority Report, 2002.

Il film Minority Report (Steven Spielberg, 2002) mi è stato presentato durante un ciclo di incontri dedicati al cinema nel sociale, nell’anno della sua uscita nelle sale. La persona che introdusse il film lo contestualizzò per il suo indiscutibile valore visionario: il film ci porta infatti in un futuro in cui occhi-macchina vagano per le città identificando le persone attraverso la scansione dell’iride, uno strumento che denuncia l’anonimato e instaura un regime di controllo degli individui. Altri elementi rappresentativi dell’implementazione tecnologica in atto nella società in cui il film è collocato sono: automobili automatiche prive di autista, comandi vocali, esperienze videoludiche in realtà aumentata, software in grado di tradurre i pensieri in immagini ecc.

Grazie al sistema Precrimine, considerato infallibile, la polizia di Washington è convinta di poter prevedere i crimini prima che questi siano compiuti, attraverso le premonizioni di tre oracoli, e di incarcerare così i “potenziali” assassini prima che commettano il delitto. Dopo l’arresto, i “colpevoli” vengono quindi segregati all’interno di una prigione, immobilizzati e costretti a guardare uno schermo che invia in ripetizione una serie di immagini della propria vita.

Questo panorama futuristico si ispira al racconto omonimo di Philip K. Dick, contenuto nella raccolta Le presenze invisibili (1987): il tema dell’invisibilità è fondamentale per la comprensione dell’atmosfera che si respira nel film. Gli esseri umani vengono controllati in qualsiasi momento, sono tracciati attraverso la scansione dell’iride, nei luoghi pubblici (metropolitana, uffici), così come all’interno di quelli privati (abitazioni, automobili). Tutto il sistema, seguendo una volontà superiore, è in grado di innescare una caccia all’uomo molto rapida e dettagliata.

Steven Spielberg, Minority Report, 2002.

Il finale a sorpresa di Minority Report fa tuttavia trapelare la speranza che ad avere l’ultima parola resti comunque la volontà umana, solo a patto, però, che si abbia comprensione e cognizione del proprio futuro, in modo da riuscire a compiere una scelta.
Giunti ai nostri anni, la filmografia cyberpunk conta migliaia di titoli, con case di produzione che spendono cifre esorbitanti per trasmettere immagini sempre più dettagliate e narrazioni ancora più “veritiere” e riflettenti la società in cui viviamo. In questo calderone di immagini perfette e futuri distopici, Farocki si colloca in silenzio, riflettendo su un contesto cinematografico che va oltre le immagini artificiali elaborate al computer. Tornando a Sguardi di controllo e alle sue due opere che trattano di potere, libertà e prigionia – Prison Images (2000) e I thought I was seeing convicts (2000) –, le immagini estratte dalle videocamere di sorveglianza superano l’immaginazione filtrata da sguardi contemporanei elaborati al computer. Involontariamente, Farocki oltrepassa il cyberpunk utilizzando la matrice della realtà impressa sulla memoria digitale carceraria. Analizzando il sistema dall’interno, ci mostra che cosa accade, per esempio, durante una rissa tra detenuti: «La cosa interessante delle immagini della telecamera di sorveglianza è che sono usate in uno stile puramente indicativo, che i sospetti o le ipotesi non sono mai in discussione, solo fatti».33Harun Farocki su Prison Images, contenuto in Working on the Sightlines, edito da Thomas Elsaesser, Amsterdam University Press, trad. mia, p. 282.

Harun Farocki, Prison Images, 2000

La realtà supera l’immaginazione di un futuro distopico e mostra, attraverso le parole e le immagini ritrovate da Farocki, come la distopia del controllo sia già attuata nelle carceri americane. Il libro di Jonathan Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2013), comincia descrivendo come la privazione del sonno sia stata una delle forme di tortura inflitte alle numerose vittime di cattura e trasferimento extragiudiziale: stipati all’interno di minuscole celle chiamate Dark Sites, i prigionieri sono stati costretti a restare continuamente in piedi, sotto la luce di lampade ad alta intensità e con musica riprodotta a volume elevato.44Jonathan Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015, pp. 7-8.

Nello scritto in nota, Farocki spiega come il sistema carcerario si stia indirizzando sempre più verso un sistema panottico di stampo settecentesco: celle con sbarre da cui il detenuto può essere sempre osservato ma che lo privano del suo proprio sguardo sul mondo:

«Un’altra clip proviene dalla prigione di Snake River in Oregon. Le guardie volevano dimostrarci le loro abilità tecnologiche zoomando su una coppia che si passava un pezzo di carta da sotto il tavolo. La stessa scena poteva anche essere vista da un’altra prospettiva. Dalla stessa prospettiva, con inquadrature simili, si vedeva una donna tirar fuori due monete dalla sua borsetta trasparente. Una moneta era un nuovo quarto di dollaro, appena messo in circolazione; l’altra era invece un vecchio quarto. L’uomo si chinò e confrontò i due pezzi con grande curiosità. Da come ho interpretato la scena, la moneta nuova indica che cose importanti stanno accadendo fuori dalla prigione e che lui non vi sta partecipando. Che un prigioniero sia tagliato fuori da quello che accade è una storia spesso raccontata, soprattutto tramite il modo in cui sua moglie o la sua ragazza lo stanno lasciando».55Farocki, cit., trad. mia, p. 283.

Il motto è: isolamento, non più massimo ma pur sempre chiuso in un luogo senza tempo, scandito da una logica fordista di lavoro in fabbrica, dove i prigionieri sono passati dal lavoro costrittivo della prigione-lavoro al lavoro sul proprio corpo, per mantenersi forti e pronti agli scontri. Farocki ci racconta la visione di una registrazione dal carcere di massima sicurezza di Corcoran: un detenuto aggredisce un altro. Immediatamente tutti i prigionieri presenti si accasciano a terra, sanno cosa sta per accadere. L’inquadratura della telecamera è posizionata nello stesso punto in cui si trova un fucile che sarà presto utilizzato per sedare la rissa, dapprima sparando proiettili di gomma e in seguito, se la situazione lo richiederà, proiettili veri. Farocki si sofferma su alcuni elementi peculiari di queste immagini, come l’audio muto e la cortina di fumo accanto alla videocamera che indica appunto gli spari.

 

L’umano invisibile e la fine del cinema di genere

«Le guardie devono venire a contatto il meno possibile con i detenuti, e come accade nella produzione delle merci, in cui praticamente non ci si serve più di uomini ma soltanto di macchine, così anche la gestione dei detenuti non richiede più il diretto intervento dell’uomo».66Luisa Farinotti, Barbara Grespi, Federica Villa (a cura di), Harun Farocki. Pensare con gli occhi, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2017, p. 84.

In questa prospettiva, è piuttosto evidente che la metafora contenuta in Matrix della futura battaglia tra macchine ed esseri umani stia mutando in una visione più sottile e attuale della questione, nonché interna ai nostri sistemi. Guerre con macchine, controllo con macchine, lavoro con macchine. La figura umana è sempre più difficile da far pervenire. Nelle immagini di I thought I was seeing convicts sembra che i detenuti siano in eterno conflitto con le macchine, più che con le guardie, subordinate appunto all’utilizzo delle tecnologie, come mostra l’articolo di Alan Boyle su «GeekWire» riguardo al caso dell’implementazione dei bracciali elettronici ai dipendenti Amazon.

In Minority Report vediamo macchine con guida automatica che trasportano persone sedute al loro interno, comode, che non mostrano attenzione alla guida, fiduciose del proprio viaggio. Questa previsione metaforica non è più tanto distante dalla realtà. Lo dichiara anche Bob Lutz: «Tra vent’anni non saremo nemmeno autorizzati a guidare, a meno che non saremo tanto ricchi da poterci permettere delle piste private». 

Sempre in Minority Report si può notare che la componente umana rappresenti lo scacco in grado di rendere Precrimine fallace: il rapporto di minoranza che viene ricercato dal protagonista è l’errore come parte di un umano agire e che proprio l’umano tende a eliminare per raggiungere un grado di perfezione che sia accettabile dall’opinione pubblica, in vista di un ampliamento dell’azienda su scala nazionale.

Jean Ganet, Un chant d_amour, 1950.

Dopo aver mostrato la presenza di tecnologie sempre più disumanizzanti all’interno delle prigioni, Farocki analizza l’impatto che queste avranno invece sulle narrazioni cinematografiche, in quanto, per esempio, una scena in cui ci siano due amanti – un prigioniero e una persona in visita – che si incontrano in carcere per dialogare presto non sarà più plausibile: negli Stati Uniti, infatti, le visite ai detenuti sono sempre più limitate e sempre più sostituite da un sistema di videochiamate da remoto. Molte rappresentazioni, quindi, non saranno più possibili:

«Ho qui 24 minuti di nastro da tale ora di visita. La telecamera è mobile e l’ufficiale si avvicina per documentare le trasgressioni, il che ovviamente sembra molto voyeuristico. A lui o lei è sfuggito qualcosa: un detenuto nero ha rivolto lo schienale della sedia verso la telecamera e ha messo tra le sue gambe le mani della donna che lo sta visitando. Ho osservato diverse volte scene di ore di visita in carcere, ma non credo di aver mai visto accadere qualcosa del genere. Abbiamo esperienza di una trasgressione del genere solo dalla nostra vita, di solito dall’infanzia, spesso in relazione con le proibizioni connesse all’amore».

Qui Farocki sta raccontando un video preso dai suoi archivi ma anche un film, precisamente una scena da Un chant d’amour (1950) di Jean Genet, dove una guardia spia un detenuto mentre si masturba con la consapevolezza di essere osservato come le donne dal foro su una parete di un locale pornografico.

Jean Genet, Un chant d’amour, 1950

Associazione di immagine, parola e significato. Osserviamo due guardie che non possono permettere ai detenuti di oscurare con un materasso la griglia di osservazione installata sulle porte delle celle. Irrompono con lacrimogeni e un ariete di ferro attraverso l’unico foro che collega il detenuto all’esterno, costringendolo alla resa e all’abbandono della barricata eretta per non essere osservato. Tutto questo sotto «l’occhio freddo delle videocamere che rende trasparente la prigione per liberarla dal mistero».88Harun Farocki, Prison Images, 2000, min. 09:27.
Occhi elettronici dappertutto, in ogni cella e in ogni angolo della struttura. L’edificio stesso, per la sua conformità, spostato dai centri urbani dove era collocato in tempi più remoti, dichiara il suo essere un luogo non umano.

Harun Farocki, Prison Images, 2000.

La differenza, oltre che strutturale e interna, è soprattutto dettata dal cambio di tono dei guardiani di questi nonluoghi. O luoghi non umani. Prima i guardiani si limitavano a un controllo sotto osservazione, erano quindi scrutatori. Ora sono invece educatori:

«Vediamo un film prodotto dal Bureau of Prison di Washington, per l’aggiornamento del personale carcerario. Un detenuto in cella è fuori controllo […], un gruppo operativo entra in scena, con un medico al seguito, irrompe nella cella, prende il sopravvento sul detenuto e lo incatena al letto. Tutto ciò è ripreso dalla videocamera per documentare il distacco che l’apparato della giustizia è chiamato a mantenere nei confronti dei prigionieri. Questa rappresentazione è troppo meticolosa per essere plausibile, finisce per operare come una negazione. Insiste troppo sul fatto che il personale agisce con freddezza e spassionatamente, sul fatto che non prova nessun piacere nell’assoggettare i prigionieri. Il messaggio è proclamato così spesso e con così tanta forza che si arriva a credere sia vero il contrario».99Farinotti, Grespi, Villa, cit., p. 87.

Ci domandiamo se le messe in scena della società dello spettacolo capitalista in cui viviamo possano permetterci ancora di immaginare realtà parallele, senza la pretesa che queste si compiano realmente. Il medium televisivo sta rompendo gli schemi dei generi cinematografici mettendo in mostra la fine – la punta brillante dell’iceberg – di questa società.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Lorenzo Picarazzi
  • Nasce nel 1990 a Milano, cresce sul Lago Maggiore e torna a Milano nel 2010 per intraprendere gli studi di filosofia all'Università Statale. Concluso il triennio nel 2014, si iscrive al corso di cinema e video all'Accademia di Brera, terminato nel 2018. Lavora come operatore e montatore video, realizzando cortometraggi, documentari, videoclip e documentazione video su tutto il territorio nazionale. Dal 2015 i suoi studi includono varie tematiche al confine tra filosofia e cinema che vanno a confluire nell’ambito della cultura visuale. Questi studi lo portano attraverso l’utilizzo di dispositivi e linguaggi altri come il recupero di videocamere obsolete o la ricerca di found footage, alla produzione di video-saggi, mostre e installazioni.
Bibliography

Jonathan Crary, Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015

Luisa Farinotti, Barbara Grespi, Federica Villa, Harun Farocki, Pensare con gli occhi, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2017