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Che fare con la nostalgia?
Magazine, LINGUAGGI - Part II - Gennaio 2022
Tempo di lettura: 8 min
Alessia Baranello

Che fare con la nostalgia?

Dai lavori del collettivo russo Chto Delat alla libreria di Joseph Brodsky: trasformare la nostalgia da prodotto a riflessione sulle rovine della storia.

La parola “nostalgia”, da nostos (“ritorno a casa”) e algos (“dolore”), abusata in letteratura, arte ma soprattutto in politica, compare però per la prima volta in medicina. Nel 1688 il laureando Johannes Hofer la usa per definire sintomi comuni ai soldati svizzeri, impegnati, lontano da casa, nelle campagne di Luigi XIV. La definizione di nostalgia, dunque, nasce con la guerra. Non è quindi un caso che nel corso del ’900 vi sia stato un picco di produzione nostalgica. Da malattia individuale, con i due conflitti mondiali la nostalgia comincia a essere definita da molti il “male del secolo”.

Grimes legge il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx nella sua prima apparizione pubblica dopo aver annunciato ildivorzio da Elon Musk, Los Angeles. Courtesy Jvshvisions / BACKGRID.

Più recentemente, Arjun Appadurai ha parlato di armchair nostalgia, una nostalgia-prodotto, che viene consumata non avendo vissuto e non avendo piena conoscenza di quel passato che manca. Questo destino è toccato anche alla nostalgia post-comunista non appena la caduta del muro l’ha fatta entrare nella cultura pop. Mentre tanti paesi dell’URSS si davano a un’iconoclastia reale e metaforica delle reliquie sovietiche, gran parte del mondo guardava alla simbologia comunista come il futuro del kitsch globale.

T-shirt souvenir con scritto “KGB is watching you!”, il Communist Bugs Bunny, Grimes che si fa fotografare leggendo il Manifesto del Partito Comunista: sono solo alcuni esempi di un riciclo della memoria che non si è mai fermato. Per Theresa Sabonis-Chafee ciò dipende dal fatto che la propaganda agit-prop, come quella di altri regimi totalitari, nasce già, in un certo senso, col kitsch incorporato. Dopotutto, il kitsch non è altro che un prodotto di bassa qualità, legato a una sorta di sentimentalismo popolare, realizzato in serie e con un messaggio semplice, che può incontrare il gusto di tutti. Che cosa di più vicino alla propaganda?

«L’agit-prop è immortale. Cambiano solo le parole». In Generation P Viktor Pelevin sembra presagire la situazione attuale. I simboli della propaganda sovietica, ormai totalmente disfunzionali, inondano la pubblicità, la ristorazione, l’industria dell’intrattenimento e quella museale. Ma per quanto l’estetica agit-prop e Good Bye, Lenin! mantengano ancora il loro fascino, mi chiedo: è davvero il consumo l’unico uso che possiamo fare della nostalgia cosiddetta post-comunista? È davvero possibile che l’unico lascito dell’esperienza del blocco orientale siano (paradossalmente) icone di consumo? E, soprattutto, cosa significa provare nostalgia nel XXI secolo?

Cosa significa provare nostalgia nel XXI secolo?

 

L’agit-prop è immortale, ma che me ne faccio?

Communist Cat Meme, courtesy memegenerator.net

Svetlana Boym nel testo del 2001, The Future of Nostalgia, traccia due correnti nella nostalgia: una restaurativa e l’altra riflessiva. La prima pone l’accento su nostos, il ritorno a casa, l’idealizzazione e ricostruzione della patria perduta. La nostalgia restaurativa è la più pericolosa, quella che rende schiavi della memoria. Izkor. Slaves of Memory è il titolo di un lungometraggio di Eyal Sivan, dove il regista israeliano mostra il legame che intercorre tra trauma, nostalgia restaurativa, e violenza. Ai bambini delle scuole di Israele lo stato impone di ricordare, e lega il trauma della Shoah a una futura rivalsa. In una materna, al posto delle filastrocche, si recita: «Il sangue ebraico chiede vendetta». Questa corrente nostalgica crea una versione della storia tautologica, univoca e lineare: crepe e contraddizioni non sono ammesse nelle narrative ufficiali.

La seconda corrente nostalgica teorizzata da Boym è, invece, ironica, riflessiva, intima. Permette agli individui di entrare nella storia e riscriverne la memoria. Il primo vero boom di nostalgia post-comunista avviene, curiosamente, proprio a ridosso della deideologizzazione della perestrojka, che spingeva per una maggiore trasparenza politica e la riscoperta delle storie oscurate dal regime comunista. Con la glasnost’ nasce il desiderio di scoprire una counter-memory nelle macro-narrative dell’Unione Sovietica. Anche in questo processo, appare il dualismo che Boym teorizza solo qualche anno più tardi. Nascono due organizzazioni completamente diverse tra loro: la Memorial, che ancora oggi scava per riportare alla luce le atrocità dei gulag, e la Pamjat, di matrice nazionalista e antisemita, che voleva restaurare, sentimentalmente, la Russia pre-rivoluzionaria.

Chto Delat, Map of Slow Orientation in Zapatismo – Paris version, 2017, tessuti misti (cuciti), pittura acrilica, 300 x 200 cm, (realizzata da Nikolay Oleynikov con la SHVEMY sewing cooperative), vista dell’installazione ad Artissima 2021, foto dell’autrice.

Il movimento della counter-memory ha attraversato il lavoro di numerosi artisti provenienti dall’ex blocco, tra cui Chto Delat. La ricerca del collettivo di San Pietroburgo apre le porte a un nuovo uso del linguaggio nostalgico. Con il Perestroika Banner, per esempio, guarda ai lati distruttivi e controversi della perestrojka. Il gonfalone è diviso a metà. In basso a destra, vengono esposti i risultati della liberalizzazione: reddito e qualità della vita subirono un enorme collasso e l’economia andò fuori controllo. Conseguenze simili, come l’aumento dei senzatetto che vivevano negli ex bagni provinciali sovietici, erano già state setacciate dagli artisti ucraini Ilya e Emilia Kabakov. Un esempio è la famosa The Toilet, l’installazione realizzata al posto dei bagni pubblici del Fridericianum per Documenta 9. Ilya racconta che, dopo la perestrojka, lui e la madre furono costretti a vivere per anni nei bagni della scuola, dove lei lavorava.

Nella parte alta del gonfalone, invece, il collettivo sonda i se e i ma di una storia non scritta, quello che sarebbe potuto accadere se la perestrojka fosse stata davvero una ricostruzione, se i lavoratori avessero preso dal basso il controllo delle industrie, se i governi avessero abbandonato le armi e investito nel futuro del pianeta. Insomma, se l’economia globale avesse davvero abbracciato una terza via percorribile tra capitalismo sfrenato e socialismo democratico, senza cadere sul filo spinato.

Un’opera di nostalgia, un esercizio dell’immaginazione, che non vuole ricostruire il mondo prima dell’89, né romanticizzare il passato sovietico, ma trasforma la storia in fiction e apre a mille futuri possibili, a più di una terza via. Questa è la seconda corrente della nostalgia, quella che non vuole restaurare la patria perduta, ma che è innamorata della distanza e nasce dal dolore (algos) per questa distanza. La nostalgia riflessiva non crede in una Verità nazionale, ma alla sovrapposizione di memoria collettiva e individuale.

Frame da Izkor, Slaves of Memory (1991) di Eyal Sivan. Courtesy Eyal Sivan e Jewish Film Institute.

Questo approccio trova un forte antecedente nei film del lituano Jonas Mekas, che nel 1944 parte per gli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione stalinista. Prendiamo, per esempio, Lithuania and the Collapse of the URSS (1990). Spezzoni dai telegiornali statunitensi raccontano la nascita della neonata Lituania, il primo paese del blocco a dichiarare l’indipendenza, e il progressivo collasso dell’URSS. Mekas filma la propria televisione, nell’appartamento di Manhattan dove è finalmente riuscito a trasferirsi, dopo aver passato quasi dieci anni nelle comunità di immigrati di Brooklyn. I rumori della casa americana si sovrappongono alle voci di protesta del paese d’origine e, nel brusio, le due diventano indistinguibili.

Questa sovrapposizione crea una sorta di intimità diasporica11Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, Basic Books, 2001, p. 254, traduzione dell’autrice.
: «L’intimità diasporica può essere vista come l’attrazione mutuale tra due immigrati da diverse parti del mondo o la sensazione di un comfort precario in una casa straniera».

 

Intimità diasporica e alienazione: perché Brodsky non è felice in Occidente?

Due immigrati di paesi diversi che trovano un momento di intimità e di comfort in una terra straniera. È impressionante come qui Boym sembri descrivere la trama di Nostalghia di Tarkovskij. I personaggi soffrono lo stesso destino dei frammenti filmici di Mekas: diasporico e di eterna separazione. Questa distanza è, però, anche un dono e un device creativo.

Ilya & Emilia Kabakov, The Toilet, 1992, vista dell’installazione al Museum Fridericianum (Kassel), Courtesy dell’artista.

Alla fine del volume Boym studia le case e le vite degli immigrati dell’est in America e Inghilterra. Per far fronte alla nostalgia di casa, sembra che tutti loro utilizzino la strategia dell’estrangement. Questa è un’alienazione nella sua accezione positiva, un estraniamento dalla realtà che di solito avviene tramite i libri, i souvenir e gli utensili della casa, che muta in una sorta di wunderkammer della diaspora. Decorare la propria abitazione diventa una terapia creativa e la terra straniera il palco per mille nuove rappresentazioni della vita.

Tra i più famosi device per l’estrangement c’è di sicuro la libreria di Joseph Brodsky, che consentiva al poeta di avere la sua “stanza e mezzo” nell’appartamento in comune che condivideva con i genitori a San Pietroburgo, dove libri occidentali e gondole veneziane creavano uno spazio per le avventure. Si dice che gli amici di Brodsky si chiedessero ironicamente dopo la sua partenza “Perché non è felice in Occidente?”. Alla fine tutto ciò che aveva sempre voluto era entrare in un paese democratico.

Brodsky, arrivato a ovest, capisce che la libertà che cercava fuori dall’Unione Sovietica esiste solo nella sua immaginazione, nella nostalgia riflessiva che nasce dall’esilio e dalla diaspora. In questo spazio, terra natale e terra straniera si sovrappongono come le voci dei televisori di Mekas. Realtà, passato e finzione si evolvono nella stessa cosa.

Gilles Deleuze forse la chiamerebbe una linea di fuga, Paolo Virno una specie di esodo creativo dalla terra del faraone, Svetlana Boym parla di una nuova flessibilità. Sta di fatto che la nostalgia, in questo caso, non è più un prodotto, un bene di consumo. Diventa un modo per indugiare sulle rovine della storia, per sfidare l’irreversibilità del tempo. Ma soprattutto, per riflettere sulle potenzialità di tutti quei passati che non sono stati (i “cosa sarebbe successo se” del Perestroika Banner), per pensare ad altri futuri e modelli di vita possibili.

Frame da Nostalghia di Andrej Tarkovskij (1983). Courtesy dell’artista.

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di Alessia Baranello
  • Alessia Baranello scrive di arte contemporanea, cultural e memory studies. Ha lavorato come mediatrice culturale per diverse istituzioni, tra cui la Triennale di Milano. Si laurea in Economia per Arte, Cultura e Comunicazione alla Bocconi e prosegue i suoi studi in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, Milano.
Bibliography

Theresa Sabonis-Chafee in Communism as Kitsch: soviet symbols in post- soviet society a cura di Adele Marie Baker Consuming Russia: popular culture, sex and society since Gorbačëv, Durham, London, Duke University Press, 1999.
Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, Basic Books, 2001.
http://www.kabakov.net/installations/2019/9/14/the-toilet
https://chtodelat.org