Lo scorso venerdì 3 giugno, in occasione del Pride Month 2021, abbiamo presentato, in collaborazione con Accademia Unidee e Spazio Hydro, l’evento “Riprogettare il maschio: la sfida ecoqueer al Maschiocene”, incontro online per indagare i rapporti tra l’attuale crisi ambientale e i sistemi di oppressione dell’Antropocene.
L’evento è stato strutturato come una tavola rotonda dove la redazione si è confrontata con tre figure: Aurelio Castro, ricercatore post-doc e professore a contratto all’Università di Bologna, Marta Palvarini, attivista transfemminista co-fondatrice della casa editrice Asterisco Edizioni, e Veronica Sicari, avvocata presso il Foro di Catania.
L’incontro prende le mosse da un testo proposto dagli studenti di Accademia Unidee (Nicholas Ferrara e Annalisa Zegna): The Carrier Bag Theory of Fiction di Ursula Le Guin (1986), un racconto in cui l’autrice mette in dubbio la narrazione dominante che vedrebbe l’arma come più importante manufatto prodotto dagli esseri umani e determinante per la loro evoluzione. Al suo posto, si dà invece importanza alla carrier bag, il contenitore, uno strumento che, letteralmente, contiene, conserva, si prende cura. Il rapporto tra i due simboli consente così di riflettere sulle basi che hanno determinato l’era dell’Antropocene, in questo incontro indagata dal punto di vista della responsabilità del soggetto maschile, bianco, cisgender ed eterosessuale, nonché sintetizzata nel termine “Maschiocene”.
Che cosa intendiamo con ridiscussione della maschilità egemone? Come si costruiscono i “modelli di maschilità”? In che modo questa ridiscussione può aiutare nella crisi ambientale che stiamo vivendo? Cosa vuol dire ecofemminismo? E, infine, come agiscono gli immaginari maschiocentrici all’interno del mondo del gaming?
Di seguito la trascrizione della prima parte dell’incontro.
Dario Alì: Inizialmente confinata in ambito accademico e scientifico, oggi la discussione sull’Antropocene viene estesa non solo ai diversi ambiti di interessi e ricerca extra-accademici, ma persino ai mezzi di comunicazione di massa, dove è spesso affrontata in maniera superficiale e con eccessivo sensazionalismo.
Con questo termine, coniato negli anni ’80 dal biologo Eugene Stoermer e poi diffuso nel 2000 dal nobel per la chimica Paul Crutzen, siamo soliti riferirci all’inizio di una nuova epoca geologica, successiva all’Olocene, in cui l’ambiente terrestre si trova condizionato su scala locale e globale dagli effetti della cosiddetta “forza antropogenica”, l’insieme di tutte quelle attività umane (come agricoltura, allevamento, industrializzazione e, in generale, tutte le attività estrattive) che hanno trasformato irreversibilmente il profilo geologico e climatico del nostro pianeta.
La diffusione capillare di questo termine all’interno degli ambiti della sociologia, della filosofia, dell’arte e della cultura ha spinto autrici e autori, soprattutto negli ultimi due decenni, ad attenzionare aspetti della questione che sono stati inizialmente tralasciati o messi da parte. Secondo alcuni ricercatori, infatti, il termine suggerisce un’interpretazione degli esseri umani come tutti ugualmente responsabili delle trasformazioni geologiche e climatiche del nostro pianeta, non tenendo in considerazione l’analisi delle relazioni di potere e dei diversi rapporti di forza esercitati nello scacchiere geopolitico globale.
La postulazione di una colpa universale dell’uomo (in quanto specie) ignora infatti le ragioni storiche e sociali sottese, incentivando così un processo di deresponsabilizzazione collettiva e ignorando completamente il discorso sui modelli culturali e sociali attraverso i quali l’essere umano si è sviluppato nelle diverse epoche.
Questo è ciò che ha notato, per esempio, il sociologo statunitense Jason W. Moore, quando ha introdotto il termine Capitalocene, per indicare un’epoca geologica avviata con la nascita del sistema capitalistico, con le sue polarizzazioni tra oppressi e oppressori, colonizzati e colonizzatori, e con tutte le attività estrattive e di sfruttamento intensivo che ci hanno rapidamente condotto alla sesta estinzione di massa.
Si avvicina a questa prospettiva anche Donna Haraway, quando interviene a proposito di Piantagionocene per focalizzare l’attenzione sui danni causati all’ecosistema terrestre dalla diffusione delle piantagioni monocolturali da parte dell’Occidente, o ancora quando a tutte le summenzionate epoche geologiche contrappone la proposta di uno Chthulucene, vale a dire un’epoca in cui le soggettività umane e non umane possano influenzarsi e co-costituirsi a vicenda in meccanismi di intra-azione.
Considerate queste premesse, un ulteriore aspetto correlato alla questione dell’Antropocene e non ancora sufficientemente dibattuto riguarda invece l’intreccio dei rapporti di dominio che si basano su genere, orientamento sessuale, etnia e classe, tutti aspetti che intendiamo far confluire nella proposta di un nuovo termine geologico da aggiungere a quelli sopraccitati, ossia: Maschiocene.
Il termine è traduzione dell’inglese Manthropocene, utilizzato nel 2017 all’interno di un testo di Giovanna Di Chiro – Welcome to the white (M)Anthropocene –, da noi tradotto e incluso nella nostra raccolta antologica Earthbound. Superare l’Antropocene. Il termine si riferisce all’epoca del soggetto storicamente egemone (appunto il maschio bianco, cis ed eterosessuale) protagonista del sistema capitalistico di sfruttamento e distruzione delle risorse, e per questo imputabile come principale responsabile della crisi ecologica in atto.
Il concetto di Maschiocene, tuttavia, non sottende un rifiuto della maschilità in termini di per sé assoluti, ma la messa in crisi e in discussione di uno specifico modello di maschilità. Seguendo questa prospettiva, affermare il Maschiocene non significa pertanto distruggere o rifiutare “il maschio”, ma appunto reinventare e riformare la maschilità attraverso la produzione di immaginari alternativi a quelli finora assunti e con contro-narrazioni in grado di scardinare ogni forma di essenzialismo biologico e di polarizzazione dei generi, da cui derivano pregiudizi, stereotipi e discriminazioni sociali.
Grazie all’apporto di studi teorici come l’ecofemminismo e la queer ecology e attraverso le enormi potenzialità immaginative della science fiction e della sottocultura del gaming, decostruire e riassemblare la maschilità può rivelarsi un esercizio utile per immaginare mondi nuovi e proporre alternative concrete per una più variegata e inclusiva narrazione dei generi.
Annalisa Zegna: L’idea di questo incontro nasce da alcune riflessioni legate alla storia, alla storiografia e al potere che ha la narrazione di costruire e decostruire immaginari legati al passato, al presente e al futuro. Abbiamo fatto ricerca nel campo della fantascienza, in particolare sulla possibilità di usarla come chiave interpretativa rivolta al passato, anziché al futuro. Nello specifico, ci siamo soffermati sulla lettura di un testo della scrittrice di fantascienza Ursula Le Guin, pubblicato nel 1986 e mai tradotto in Italia: The Carrier Bag Theory of Fiction. In questo breve racconto, Le Guin contesta l’idea che l’arma sia il primo strumento creato dall’uomo, proponendo al suo posto il contenitore (carrier bag) come primo strumento utile per la vita umana sulla Terra. Secondo questa visione, prima delle lance, degli strumenti lunghi e appuntiti per uccidere, la più grande invenzione dei nostri antenati è stata proprio il contenitore: il cesto, la rete per raccogliere semi, frutti ed erbe; e la casa, concepita come sacro contenitore delle nostre storie. Citando Le Guin, «prima dell’arma, ossia lo strumento che forza l’energia verso l’esterno, abbiamo creato lo strumento che porta a casa l’energia. Sono una sostenitrice di quella che Fisher chiama “The Carrier Bag Theory of Human Evolution”».
Qui, Le Guin fa riferimento a Woman’s Creation, testo di Elizabeth Fisher pubblicato alla fine degli anni ’70, per mettere in discussione la logica fallica e omicida della lancia, raccontando al suo posto la storia del contenitore: all’interno di questo contenitore vuoto, i primi esseri umani hanno trasportato più acqua e cibo di quanto ne potessero tenere in mano, per conservarlo e nutrire così i loro simili. Questa teoria ci interessa perché sposta l’attenzione che poniamo verso il passato dell’umanità da una narrazione basata sulla caccia e sul dominio a una fondata invece sulla raccolta, il mantenimento e la condivisione:
«Quindici ore alla settimana per la sussistenza lasciano molto tempo per altre cose; così tanto che forse gli individui più irrequieti, che forse attorno non avevano un bambino ad animare la propria vita, o abilità nel fare qualcosa, nel cucinare o nel cantare, oppure pensieri interessanti da pensare, decidevano di svignarsela e andare a caccia di mammut. Gli abili cacciatori tornavano con un carico di carne, molto avorio e una storia. Non era la carne a fare la differenza, era la storia. Quella storia non ha solo un’azione, ma ha un eroe. E gli eroi sono potenti».
Nicholas Ferrara: In questo passaggio, Le Guin porta la riflessione sul suo terreno, ovvero la scrittura, affrontando il tema della narrazione e la forma del romanzo, come strumento per raccontare storie diverse da quella egemone. Il romanzo non è portatore di una narrazione univoca, ma è un contenitore di storie, così come la borsa. Contiene tutta una serie di elementi che entrano in relazione tra loro e si aggrovigliano in modi disorganizzati e conflittuali, senza posizioni dominanti. Citando Le Guin:
«È chiaro che l’eroe non sta bene in questa borsa, ha bisogno di un palco, di un piedistallo, un pinnacolo. Se lo metti in un sacco, l’eroe sembra un coniglio o una patata. È per questo che mi piacciono i romanzi, perché al posto degli eroi ci sono le persone».
A differenza della lancia, che segue una traiettoria lineare verso l’obiettivo e riflette la temporalità della storia occidentale basata sul progresso, la borsa permette quindi di pensare allo storytelling come uno strumento di continuo legame, per raccontare e leggere, tenere insieme, mettere in relazione storie diverse. Già da qui emerge la necessità di cambiare il punto di vista, di abbandonare la storia dell’eroe, che è tossica, come dice la stessa Le Guin, che a tale proposito afferma:
«Questa storia dell’eroe, la meravigliosa, velenosa storia del botulino, la storia dell’assassino… a volte sembra che questa storia si stia avvicinando alla fine. Per evitare che non si raccontino più storie, alcuni di noi, qui fuori nell’avena selvatica e in mezzo al mais alieno, pensano che sia meglio iniziare a raccontare un’altra storia, che forse la gente potrà continuare quando quella vecchia sarà finita. Può darsi. Il problema è che abbiamo tutti lasciato che diventassimo parte di questa storia dell’assassino, e quindi con essa potremmo finire anche noi. Per questo motivo, è con una certa urgenza che cerco la natura, il soggetto, le parole dell’altra storia, quella non raccontata: la storia della vita».
Quella di Le Guin è una visione della storia che scardina la consueta narrazione basata sul progresso dell’eroe, quasi sempre maschio, che domina sull’altro con la tecnologia, diventando sempre più forte. L’“altro” è qui inteso sia come individuo che come animale o qualsiasi altra cosa (anche non vivente). Il legame di questa situazione con l’Antropocene è piuttosto evidente.
Ancora Le Guin:
«La narrativa che incarna questo mito è stata e sarà trionfale (l’uomo infatti conquista la Terra, lo spazio, gli alieni, la morte, il futuro…) e anche tragica (apocalisse, olocausto, in passato così come oggi). Se tuttavia si evita la modalità lineare del tecnoeroico e si definisce la tecnologia e la scienza come un bagaglio principalmente culturale piuttosto che come un’arma di dominazione, un piacevole effetto collaterale sarà che la fantascienza potrà essere vista come un campo meno rigido e ristretto, e non necessariamente prometeico e apocalittico».
Effettivamente, la fantascienza diventa più un genere realistico che mitologico, un realismo strano ma, del resto, viviamo in una realtà strana, come dice Le Guin.
In questa prospettiva, la scrittura deve raccontare la realtà con un punto di vista alternativo e più libero, avendo così la possibilità di creare mondi e scambiare ruoli consueti e suggerendo nuovi riferimenti e punti di vista, di cui abbiamo bisogno per costruire nuovi immaginari e nuovi tipi di relazioni meno disfunzionali.
Valeria Minaldi: Dalla lettura che Annalisa e Nicholas hanno portato e che in un certo senso è stata di ispirazione per questo incontro, si evince come la narrativa con la quale siamo cresciuti abbia sostenuto una certa visione della storia umana, una storia fatta di eroismo machista, di strumenti per uccidere, ferire e colpire, di conquiste e bandiere piantate.
Nel suo articolo, Il sesso degli scheletri, Annalisa Prestianni ci parla di come la narrazione della preistoria, quella che troviamo nelle illustrazioni di molti libri scolastici, abbia influenzato e influenzi ancora la nostra rappresentazione dei ruoli di genere. In particolare, vengono citati i tre punti che, secondo Sandra Bem, autrice e psicologa femminista, improntano questa narrazione:
«[Ci sono] tre caratteristiche significative del punto di vista maschile: l’androcentrismo, la polarizzazione dei generi e l’essenzialismo biologico. L’androcentrismo si basa sull’idea che tutto ciò che è maschio sia naturale, che il maschile sia la norma rispetto cui il femminile rappresenta la devianza, l’alterità. La polarizzazione di genere è l’assunzione che il femminile sia fondamentalmente differente, tanto da implicare una onnipresente organizzazione della vita basata sulla distinzione tra i generi biologici. L’ultimo aspetto, l’essenzialismo biologico, che opera rendendo intrinseche al sesso biologico le differenze culturalmente distribuite tra i generi, tende a dare l’impressione che l’androcentrismo e la polarizzazione dei generi siano legittimate da una fondamentale naturalità, positivamente e razionalmente esplicabile».
A partire da questi tre punti, Bem comincia il suo contributo teorico nella definizione di un differente approccio all’archeologia. A questo proposito, la prima domanda la rivolgo a te, Aurelio, e ti chiedo: come diresti che si sia costruita la narrazione della maschilità egemone? In che modo essa può diventare tossica? E qual è la distinzione tra mascolinità egemone e mascolinità tossica?
Aurelio Castro: Non è un compito facile rispondere a questa domanda. Diventa molto complesso riassumere tutto quello che sappiamo dalla ricerca, ma anche tutto quello che sappiamo dal fronte dell’attivismo, della storia e dei movimenti LGBT. In generale, possiamo partire dal chiederci che cosa voglia dire “maschilità”, da dove arriva e dove pensiamo che essa sia situata. Quando dicevi che abbiamo delle “storie” sulla preistoria, che ci danno fin da quando siamo piccoli e piccole, veniamo socializzati con una certa rappresentazione, una certa idea di che cosa ci si aspetta: le donne a raccogliere frutta e verdure e gli uomini a caccia, a fare le cose da maschi. C’è questo grande aspetto per cui apprendiamo, dalle aspettative della nostra famiglia, dei nostri parenti, dei copioni ben definiti e che tendiamo anche a riproporre.
Le stesse aspettative che hanno i nostri genitori ci influenzano anche nelle prestazioni e nei compiti che vengono considerati tipicamente maschili o femminili. Dalle ricerche psicologiche sappiamo che, per esempio, le bambine che hanno genitori che pensano che le donne non siano brave in matematica avranno delle performance molto peggiori in matematica.
Quindi intanto dovremmo chiederci da dove arrivano i generi, che cosa vuol dire fare genere e che cosa vuol dire “essere uomini”. Definire la maschilità è un compito estremamente complesso. Chi fa ricerca – come per esempio [Michael] Kimmel – dice che la maschilità è tutto ciò che gli uomini credono sia maschile. La maschilità non riguarda soltanto gli uomini, non riguarda soltanto i generi, ma si riferisce a come la costruiamo in contesti specifici, sia storici che all’interno delle nostre narrazioni, e di come la agiamo.
Quando ci riferiamo e parliamo di egemonia e di tossicità all’interno di un genere (all’interno del genere maschile, in particolare), possiamo già inquadrare un po’ di più il nostro focus all’interno di teorie specifiche. Ovvero, quando parliamo di egemonia maschile, dei rapporti di potere tra generi basati sul rapporto tra uomini e altri uomini, altre donne, altri generi. Oppure, si fa molto riferimento alla letteratura dei men’s studies, ovvero a tutti gli studi della maschilità che ci sono sempre stati, fino a quando si è iniziato a studiare gli aspetti sessuali e del genere; o gli studi femministi sulla maschilità, dove io mi colloco, e su come ragioniamo su dove stia il maschile, su come gli uomini definiscano sé stessi in quanto uomini. Ed è molto complesso partire da qualsiasi definizione di genere: non esiste un’unica maschilità, abbiamo diversi modelli, teorie e posizioni di che cosa voglia dire essere uomini, e vi è l’idea che ci siano delle gerarchie create, più che reali, di quello che le persone dicono della maschilità. E non parlo soltanto dell’idea del maschio alfa, del maschio beta o del maschio sigma, ossia di tutte le varie invenzioni che nascono da quelle appropriazioni naturali, come per esempio la teoria dei lupi alfa, che non ha un valore ecologico vero, ma è nata da osservazioni poi confutate dalle ricerche naturalistiche. Lo stesso autore che ha sostenuto che esistono i lupi alfa ha poi smentito dicendo che la sua ricerca è stata fraintesa.
Dobbiamo parlare di quello che la maschilità è o è stata, di come parliamo della maschilità stessa e di come viene usata per portare avanti determinati tipi di retoriche e di immaginari: dall’essere l’uomo virile che non chiede mai e ha tutte le persone a sua disposizione, sempre sessualmente attivo, che non dice mai di no e che lotta in continuazione per avere ciò che vuole, alle rappresentazioni e agli immaginari maschili che acquisiscono invece ruoli di complicità, [una differenza tra] chi segue la maschilità alfa egemone, che tende a prevaricare le altre persone, e chi invece viene oppresso.
Quando parliamo di maschilità egemone parliamo di contributi sociologici e psicosociali. Per esempio, mi viene in mente Connell, che con la sua ricerca ha dato un grandissimo contributo ai men’s studies, parlando di una specifica forma di maschilità in uno specifico contesto storico e in un mondo sociale che legittimizza relazioni di genere inique tra uomini e donne, tra maschilità e femminilità, ma anche tra maschilità stesse. Abbiamo quindi una gerarchia che si viene a creare in base a chi è percepito come più maschile o più femminile (e la femminilità, in questo caso, diventa l’opposto della maschilità e di ciò che è virile). Un uomo che si comporta in maniera femminile è legittimo che venga ostracizzato, picchiato o perseguito, e qualsiasi forma di femminilità viene considerata sbagliata, non normativa o non adeguata perché non è una cosa da uomini. Stiamo già parlando del 1987, quando si inizia a definire la natura dei rapporti di potere all’interno dei generi e come essi vengano mantenuti.
Dove ci posizionano, a noi uomini, all’interno di queste gerarchie? A volte, in ruoli di prevaricazione nei confronti delle altre persone, sulla base di quanto siamo o meno prototipici rispetto ai modelli di virilità. Molte volte, però, siamo noi stessi a riproporre questi modelli, anche quando facciamo parte di identità discriminate.
Sappiamo per esempio che molti uomini omosessuali discriminano gli uomini trans o gli uomini bisex perché non sono abbastanza gay o abbastanza uomini, [e sappiamo] che possono esserci dei copioni dominanti anche all’interno dei gruppi discriminati… questo perché incontriamo questa socializzazione al dover essere “veri uomini”. Ma se chiediamo a una persona: «Definiscimi un vero uomo»… Che cos’è, una persona che non piange mai, che non soffre e riesce a superare qualsiasi ostacolo senza venire mai fermato da nulla o da nessuno? È un criterio praticamente irraggiungibile.
Sappiamo che se prendiamo tutte le concezioni della maschilità nelle varie culture non riusciamo a ricavare caratteristiche comuni. Tuttavia, della maschilità sappiamo due cose: 1) che gli uomini devono assolutamente ottenerla, altrimenti non hanno alcun valore all’interno della società; e 2) che, una volta ottenuta, devi avere paura di perderla. La maschilità genera ansia. Ed è necessario che la maschilità mantenga uno stato di prevaricazione nei confronti di chi non ce l’ha perché, se non lo fai, allora la tua sessualità viene messa in discussione: un assunto egemone che ci spiega perché alcune persone si sentano legittimate ad attuare bullismo e mobbing, o di far male ad altre persone per rivendicare sé stesse.
Connell riprende il concetto di egemonia da Gramsci per riferirsi alle legittimazioni delle strutture sociali di potere. Per riassumere, in generale sappiamo che vi sono dei rapporti di potere in cui noi uomini (o comunque chi si identifica nei generi maschili) ci troviamo a dover affrontare e negoziare con altri all’interno del nostro spazio, a confrontarci a volte con complicità, altre in un’ottica prevaricatrice verso altri uomini, persone o generi, oppure proviamo a resistere in vari modi a questi copioni e immaginari: per esempio, dando significati nuovi a ciò che significa “essere uomini” nella maschilità, o evitando di ragionare in un’ottica di prevaricazione, cercando la solidarietà maschile in un’ottica femminista, come nel mio caso. Proprio perché ci sono uomini che soffrono a causa di altri uomini possiamo essere in grado di costruire insieme questa resistenza.
Che cosa succede invece quando la maschilità, da egemonia, diventa anche “tossica”? Si tratta di un termine particolare che ha una sua connotazione specifica: qualcosa di tossico è qualcosa che inquina l’ambiente, lo colonizza, prende tutto ciò che è presente sul pianeta. Penso in questo caso a The word for world is forest di Ursula Le Guin, con la figura del capitano colonialista che arriva sul pianeta di New Tahiti, brucia tutti gli alberi, usa e abusa di tutte le risorse naturali per il proprio ego.
Quando la maschilità diventa un mezzo per prevaricare e cancellare tutto, diciamo che è tossica perché inquina l’ambiente, il dibattito, i social (il termine è infatti diventato molto più presente online, al punto che spesso le persone sono portate, in maniera difensiva, a dire che non tutte le maschilità sono tossiche. Certo che non lo sono, perché ce ne sono di tantissimi tipi, abbiamo tante idee su cosa significhi essere uomini.
La maschilità è come l’acqua: se dico che una certa acqua è tossica, che non è potabile, non vuol dire che tutta l’acqua del mondo non si possa bere. Ci sono pertanto differenze che riguardano i rapporti di potere, nei men’s studies si parla infatti di egemonia quando facciamo riferimento alle strutture di potere. La maschilità tossica fa anche riferimento agli effetti negativi sulla salute mentale di chi è uomo (o si riconosce nel genere maschile), a come questi copioni, questi modi di fare di “essere uomo” incidano negativamente sulla nostra salute e a come tendano a inquinare qualsiasi dibattito e a non creare solidarietà maschile: quel venirsi incontro in maniera empatica, quel parlare dei propri sentimenti nell’avere una persona a cui potersi affidare e con cui poter essere vulnerabili sapendo che puoi esserlo e che ciò non ti rende meno uomo e non ha nulla a che vedere con gli ideali della “vera maschilità”.
Sono tante le questioni, ma tutte legate all’idea di dove stia il maschile e di cosa voglia dire essere un “vero uomo”, un ideale irraggiungibile che in quanto tale genera nelle persone tante frustrazioni e ansia, per la necessità di dover continuare a dimostrare. E molto spesso questo bisogno di dimostrare avviene proprio attraverso l’omobitransfobia. Ciò avviene perché la prima cosa che fa un uomo per rivendicare il suo essere uomo, il suo essere un vero maschio è dire: «Non sono mica gay». Qui è l’eterosessualità che genera la maschilità, ed entrambe sono in un rapporto fortemente vicendevole, sia per quanto riguarda i rapporti di privilegio che quelli di dipendenza. Le maschilità egemoni hanno bisogno dell’eterosessualità per rimarcare chi è un vero uomo e chi non lo è. La femminilità viene così posizionata come l’antitesi del maschile, quando invece non lo è, poiché si tratta solo di forme diverse di generi. Quindi, in sintesi, cambiare le storie passa necessariamente dal togliere e decostruire tutti i copioni appartenenti al “vero uomo”, all’eroe, per proporre un’idea di maschilità diversa che sia solidale nei confronti degli altri uomini, che sia resistente, non dura.
Simona Squadrito: Ciao Veronica, per introdurti la mia domanda, voglio citare un estratto da Welcome to the White (M)Anthropocene? di Giovanna Di Chiro, docente di studi ambientali allo Swarthmore College della Pennsylvania. Nella sua ricerca Di Chiro analizza le intersezioni tra scienza e politica ambientale, con particolare attenzione alle disparità sociali ed economiche e ai diritti umani. Questo breve estratto è preso dalla seconda edizione di Earthbound. Superare l’Antropocene, edito nel 2021 da KABUL:
«“Le donne portano il peso di un cielo in caduta”, scrive Barbara Kingsolver su Ms. Magazine, riferendosi al pesante fardello della risposta ai pericolosi rischi per la vita associati all’inasprirsi del cambiamento climatico, che in modo impari ricade sulle spalle delle donne. “Dalle Ande ai tropici del Sud dell’Asia fino alle Pianure Africane”, continua [Kingsolver], le donne provenienti da comunità impoverite e vulnerabili del Sud globale insorgono per affrontare i problemi del costante aumento di inondazioni, siccità, mancanza di cibo e risorse energetiche, elevati tassi di malattie infettive e altre crisi sanitarie causate dall’innalzarsi delle temperature e da un clima sempre più imprevedibile. Non solo sono proprio le donne le prime a risponderne, sostiene Kingsolver, ma sono spesso anche le prime ad adattarsi al cambiamento climatico contribuendo con smisurata energia e soluzioni creative a mitigarne gli effetti e costruire “resilienza”. […] Tuttavia, i fautori del consenso climatico hanno escogitato l’Antropocene proprio nel momento in cui attivisti e ricercatori dei movimenti femministi e di giustizia ambientale hanno cominciato a sensibilizzare il grande pubblico sul fatto che a “sostenere il peso di un cielo in caduta” siano proprio le donne povere e marginalizzate: siamo tutti colpevoli e tutti dobbiamo correggere i nostri comportamenti e diventare più resilienti. Femministe di tutte le razze, generi, sessualità ed etnie riconoscono come familiare questa manovra condotta da chi è al potere e professa la collettività come tattica per distogliere l’attenzione dall’accountability storica e dalle responsabilità “diversificate”, in questo caso, nei confronti del cambiamento climatico».
Nel novembre 2020, hai scritto per noi Ecofemministe contro il patriarcato, un articolo che ripercorre l’origine del femminismo e i suoi punti di connessione con i movimenti ambientalisti. Nella tua ricerca, che cosa comporta sul piano sociale e dei diritti l’egemonia della narrazione maschile/maschilista? Come combattere la narrazione dominante del maschio? E soprattutto che tipo di alternative possono essere proposte?
Veronica Sicari: Si tratta di tematiche molto vaste. Tengo molto a quell’articolo perché personalmente mi sono imbattuta nell’ecofemminismo quasi per caso, mentre frequentavo un master in diritto dell’ambiente. All’epoca stavo studiando le fonti internazionali del diritto dell’ambiente, in particolare la Dichiarazione di Rio e la Convenzione di Pechino.
Grazie alle fonti di diritto internazionale – in particolare alla Conferenza di Rio e alla conseguente Dichiarazione di Rio del 1992 –, ho scoperto che la comunità internazionale aveva già individuato il ruolo fondamentale delle donne nella gestione dell’ambiente e dello sviluppo, una partecipazione considerata fondamentale per la realizzazione e attuazione dello sviluppo sostenibile. Questi princìpi sono stati enunciati anche durante la Conferenza di Pechino del ’95, nella quale si affermava espressamente la necessità per i governi non soltanto di coinvolgere le donne nei processi decisionali relativi all’ambiente, ma anche di porre in essere tutte le misure necessarie per ridurre l’impatto e i rischi conseguenti al deterioramento ambientale nei confronti delle donne. Altre norme stabiliscono una vera e propria connessione con la necessità di tutelare l’ambiente, poiché in tal modo si tutela maggiormente la posizione delle donne, quindi dichiarando apertamente una maggiore vulnerabilità femminile davanti alle catastrofi ambientali.
Ho cercato quindi di capire perché si poneva attenzione proprio sulle donne, ed è così che ho scoperto l’ecofemminismo. Chiaramente io sono una donna occidentale, bianca, una libera professionista, la mia impostazione iniziale è stata di tipo eurocentrico, sono andata quindi a indagare un ecofemminismo di tipo occidentale. Tuttavia, man mano che ho proseguito nella ricerca, mi sono resa conto che il movimento è radicato anche e soprattutto nei Paesi del Sud del mondo. Si può ben affermare che sia nato lì, sebbene la sua elaborazione, per così dire, teorica venga fatta risalire all’opera di un’autrice femminista francese, Françoise d’Eaubonne, negli anni ’70, che per prima utilizza il termine nella sua opera Le femminisme ou la morte.
Ciò che mi ha più colpito sono state le riflessioni di questo movimento, che riconnette la violenza sull’ambiente e la violenza sulle donne a un’unica matrice, quella appunto maschiocentrica della società eteropatriarcale.
In effetti, per quanto riguarda il nostro mondo occidentale, non è poi così immediato il collegamento tra il deperimento delle risorse naturali e il peggioramento delle condizioni di vita delle donne. Tuttavia, andando avanti nella ricerca, mi sono resa conto che non soltanto l’ecofemminismo è un movimento molto più radicato in quei paesi che noi definiamo come il Sud del mondo (mi riferisco all’America Latina e all’Africa, ma anche a India, Pakistan ecc.), ma anche che in questi luoghi la correlazione tra violenza eteropatriarcale sulle donne e violenza di matrice capitalistica ed economica nei confronti dell’ambiente è molto evidente.
Le statistiche, del resto, sottolineano una maggiore vulnerabilità femminile rispetto a quella maschile. In questa impostazione culturale di tipo eteropatriarcale le donne sono relegate entro determinati ruoli di cura del nucleo familiare, con la responsabilità di reperire cibo, acqua ed eventuali combustibili. Spesso inoltre, a seguito di grandi disastri come siccità o carestie, le condizioni di opprimente povertà costringono le donne a prostituirsi per provvedere alla sopravvivenza della famiglia.
Un’impostazione culturale fortemente patriarcale, dunque, non soltanto limita il godimento di diritti per le donne, ma finisce per avere effetti nefasti per la loro stessa sopravvivenza e per la loro salute: le donne sono più esposte alle conseguenze delle catastrofi ambientali, così come ai fenomeni pandemici. Ciò si è visto anche durante l’emergenza del Covid-19 – ne ho parlato a lungo nel mio articolo –, che ha mostrato un inasprimento della violenza nei confronti delle donne durante il periodo del lookdown (soprattutto il primo), laddove le donne si sono trovate a convivere a stretto contatto con i propri maltrattanti. Adesso, anche in occidente, determinati rischi ambientali, come nel caso delle epidemie zoonotiche (di origine animale), cominciano a mostrare la maggiore vulnerabilità femminile.
Questa matrice eteropartriacale di tipo culturale ed economico ha un proprio riflesso anche nelle normative giuridiche e soprattutto nella legislazione vigente, prevedendo sistemi giuridici che possono spingersi fino a non considerare le donne soggetti e oggetti di tutela.
Era ciò che accadeva, per esempio, con le norme fortemente maschiocentriche emanate in Italia durante il periodo fascista, le quali rivelavano in modo evidente la posizione di inferiorità delle donne rispetto agli uomini. Basti solo pensare, all’interno del Codice penale dell’epoca, al capo dedicato ai delitti sessuali, laddove lo stupro veniva connsiderato violenza e punito, ma come reato posto a tutela della moralità pubblica e non dell’incolumità fisica e della libertà sessuale della vittima. Chiaramente questo accadeva perché l’atto sessuale, benché non consenziente, al quale la donna suo malgrado partecipava, veniva considerato come turbativa a quella che era la morale corrente. Infatti, lo stesso impianto normativo prevedeva istituti come il matrimonio riparatore, che permetteva allo stupratore di andare esente da pena qualora avesse sposato la propria vittima. È di tutta evidenza come questa impostazione non soltanto non desse rilevanza alle sofferenze atroci patite dalla donna abusata, ma non tenesse in considerazione nemmeno la sua volontà. Il matrimonio riparatore era la dimostrazione di come il biasimo sociale della condotta sessuale avvenuta al di fuori del matrimonio non venisse rivolto contro la condotta violenta dello stupratore, ma alla perdita di purezza della donna, considerata rovinata e, in assenza di matrimonio, emarginata dalla propria comunità. La donna subiva quindi una doppia violenza: lo stupro e l’obbligo di trascorrere il resto della sua vita con il proprio stupratore. All’epoca il divorzio non era previsto, e la donna era costretta ad accettare questa soluzione per non subire lo stigma sociale di essere rovinata perché fuoriuscita dall’ordine patriarcale del tempo e persino ripudiata dalla propria stessa famiglia.
Questa posizione di inferiorità femminile era particolarmente espressa nelle norme sul delitto d’onore, che prevedevano importanti attenuanti di pena qualora un soggetto maschio (padre, fratello, marito) avesse ucciso una donna per avere attentato all’onore della famiglia, per esempio decidendo di intraprendere una relazione con un altro soggetto al di fuori del vincolo matrimoniale. Sicuramente si tratta di norme che oggi destano indignazione, ma un’indignazione ancora maggiore è data dal fatto che queste norme sono sparite dal nostro ordinamento soltanto in tempi recentissimi: nel 1981 vengono aboliti il matrimonio riparatore e il delitto d’onore; mentre dobbiamo aspettare il 1996 per avere una riforma dei reati sessuali che porti alla tutela della vittima abusata.
Tutte queste norme tradiscono i rapporti di forza, le relazioni di potere tra i due sessi e la sottomissione legalizzata della donna. Chiaramente, questa narrazione maschiocetrica, incentrata attorno all’unico soggetto di diritto, ha peggiorato nel corso della storia la vita delle donne, la loro sopravvivenza e il rispetto dei loro diritti, e deriva dall’epopea dell’eroe, un eroe che deve avere specifiche caratteristiche biologiche e di genere: deve essere un maschio eterosessuale, cis e bianco. Questa epopea viene sovvertita e superata da una teoria formulata da Elizabeth Fisher e poi ripresa – a scopo più o meno provocatorio – da Ursula Le Guin nella sua teoria della sporta del narratore, che ci permette di guardare alle narrazioni altre, a quelle che sono state silenziate fino a questo momento. Se la società nasce nel momento in cui l’essere umano crea la sporta, il contenitore, essa nasce quando l’essere umano comincia a prendersi cura dei suoi simili. In fondo, queste narrazioni invisibilizzate sono quelle che vengono portate avanti dalle ecofemministe, narrazioni alternative che danno voce all’attivismo femminile, che fino a tempi recenti non veniva preso in considerazione, ma anche alla tutela delle creature altre dall’umano, tanto l’ecosistema faunistico quanto le stesse piante.
L’alternativa esiste.
È possibile avere delle alternative? L’alternativa è il cambiamento del punto di vista, è l’abbandono della logica egemonica maschiocentrica“…È possibile avere delle alternative? L’alternativa è il cambiamento del punto di vista, è l’abbandono della logica egemonica maschiocentrica” che è già in atto attraverso la diffusione degli studi decoloniali. Esistono diverse studiose italiane che se ne occupano, per esempio la geografa di genere Rachele Borghi, che nei suoi studi affronta la questione della decolonità, vale a dire la necessità di abbandonare la logica coloniale, che altro non è che l’epopea eroica che ci portiamo dietro come substrato della nostra stessa cultura. Sebbene nello specifico non riguardi più l’invasione di territori dal punto di vista politico, essa riguarda certamente un sistema di pensiero ancora centrato su un’unica narrazione, ossia quella dell’uomo bianco.
L’alternativa esiste, l’unica cosa che possiamo fare è provare a decostruire questo sistema sociale e dare voce a chi, fino a questo momento, non ne ha avuta. In questo senso, il lavoro delle ecofemministe – anche nella loro ramificazione delle ecoveg femministe, le quali sottolineano l’importanza di alimentazioni consapevoli contro gli effetti nefasti degli allevamenti intensivi – è un lavoro di produzione di narrazioni alternative capaci di cambiare la società, così come è avvenuto nella nostra legislazione grazie all’impegno delle attiviste femministe della seconda ondata degli anni Settanta.
Questi cambiamenti epocali, avvenuti poche decine di anni fa, sono stati il frutto di anni di lotte. Si è trattato di battaglie, prima che dagli scranni parlamentari, da quelli culturali. Attraverso la creazione di reti di resistenza sociale, le donne, le femministe, hanno creato luoghi sicuri di resistenza, e a poco a poco hanno cambiato la morale corrente. Non è stato un percorso facile, non è un percorso terminato, ma è sicuramente un percorso ancora possibile. Le lotte femministe che hanno portato alla rivoluzione dei reati sessuali nel nostro Paese sono l’esempio di come soltanto l’approccio a una narrazione diversa sia in grado di modificare la situazione presente.
Francesca Vason: Marta, l’anno scorso è uscito per Asterisco Edizioni Fuori dal Dungeon, di cui sei curatrice, un’antologia critica sui sistemi ludici, in cui una serie di scritti e punti di vista di autori internazionali prendono in considerazione e analizzano le discriminazioni sistemiche interne al mondo dei giochi di ruolo e, allo stesso tempo, il potenziale di cambiamento insito in questa tipologia di gioco, che può trasformare lo spazio del gaming in un luogo di resistenza e inclusività. Fisica o virtuale, il gioco funziona come un’attività sociale. I ruoli e le persone coinvolte – siano esse entità fisiche o fittizie/immaginarie – agiscono/abitano uno spazio di rappresentanza in cui danno vita a identità sessuali, di genere, a culture e categorie diverse, e in cui adottano strategie di potere e regole di comportamento finalizzate a uno o più scopi previsti da ciascuno dei possibili scenari del gioco. Si tratta a tutti gli effetti di uno spazio politico.
Un aspetto interessante che emerge nel libro è il riferimento alla contraddizione esistente tra il potenziale narrativo e continuamente sperimentale che comprende tutto il mondo del gaming e del fantasy – che sprona a creare storie, dinamiche, a mettere in atto tattiche di gioco, conflitti e relazioni – e il riconoscimento di strumenti e fenomeni repressivi, insiti nelle piattaforme di gioco e che in alcuni casi possono essere percepiti come limitazioni di libertà o fenomeni di discriminazione.
Quali dinamiche di genere si instaurano all’interno dei mondi virtuali dei videogiochi e quanto sono presenti situazioni e casi di mascolinità tossica nella sottocultura del gaming?
Marta Palvarini: Per provare a parlare delle cose positive, che rappresentano in qualche modo le potenzialità creative del gioco di ruolo, dobbiamo partire innanzitutto parlando delle cose negative, che stanno un po’ alle origini del gdr e della creazione dello stesso concetto di gioco di ruolo.
Partiamo dal concetto di virtuale. Che cos’è il virtuale, oggi? Gli hacker delle ambientazioni sci-fi del cyberpunk fondono ciò che chiamano cyberspace con il meatspace (lo “spazio di carne”). Il virtuale attuale ha delle potenzialità insite estremamente positive. Nel suo Cybertypes, Lisa Nakamura identificava le potenzialità positive del cyberspazio, come possibile via di fuga e, allo stesso tempo, strumento di resistenza in grado di ricostruire i generi e di contrastare la discriminazione etnica e razziale. Detto ciò, oggi dobbiamo evidenziare come la sfera virtuale rappresenti qualcos’altro. Nell’attuale 2021 ci poniamo innanzitutto una domanda fondamentale: il virtuale è reale? Quanto lo è? Forse la risposta è che il virtuale è quasi più realista del reale, nel senso che l’intera strutturazione di ciò che è virtuale forma l’identità.
La vecchia concezione di “reale e virtuale” ormai si è fusa ed è diventata un unicum. Da un lato, lo spazio virtuale è uno spazio antropopoietico, che quindi genera umanità, mentre dall’altro è uno spazio creato dall’umanità stessa. In quest’ultimo senso, è evidente che in esso vi siano dei bias di tipo capitalista e patriarcale, dal momento che lo strumento virtuale è creato, e quindi influenzato, dai bias di chi lo crea. In questo caso, l’esempio dei social network è piuttosto scontato, come mostra il gruppo Ippolita in Nell’acquario di Facebook, approfondendone i concetti e le dinamiche di potere. Tuttavia, in generale, lo spazio virtuale si presenta come un sistema preciso creato per organizzare in forma numerica e algoritmica i corpi. Si tratta quindi di una riduzione dei corpi a numero, a sistema.
Questo preambolo per dire che il ghost è ormai la machine, per citare un noto manga (Ghost in the Shell) che ci parla proprio del superamento del dualismo cartesiano. Ed è proprio la science fiction che ci racconta di questo superamento. Ma quando la science fiction viene superata dal reale dobbiamo interrogarci su quello che realmente i sistemi comportano quando creano la realtà.
Il gioco, in quanto tale, è un sistema, un insieme di sistemi. Quando giochiamo – che sia attraverso lo schermo di un computer o attorno a un tavolo da gioco con persone reali –, abbiamo effettivamente la creazione di un sistema, l’utilizzo di un sistema che va a modellare le identità che lo attraversano. In questo, guardiamo a un gioco capostipite, che è Dungeons & Dragons, come alla matrice di realizzazione dello spazio virtuale ludico, e quindi reale e ludico allo stesso tempo. In Dungeons & Dragons si interpretano personaggi che sono avventurieri di un mondo fantasy, sono a tutti gli effetti come gli eroi citati, sono personaggi epici che intraprendono delle quest volte a farli crescere in maniera lineare. In questo senso, il capitalismo e il patriarcato strutturano letteralmente il concetto di progressione del personaggio. Quanto Maschiocene c’è in tutto questo? Quanto immaginario tossico è presente, proveniente proprio dagli albori della creazione del patriarcato?
L’avventuriero di Dungeons & Dragons è tuttora il cardine – sebbene la forma ludica di questo gioco sia mutata rispetto alle origini. Non racconta una storia, ma innanzitutto sale di livello. Il salire di livello, che è stato quasi inventato da Dungeons & Dragons, è diventato così pervasivo nell’ambiente ludico da entrare a far parte di qualsiasi concetto e ragionamento per circa l’80% dei videogiochi, così come anche per i giochi da tavolo.
Se guardiamo alla gamification del reale, a tutti i processi che attraverso un’app di delivery ti fanno guadagnare punti per salire di livello e acquisire sconti, troviamo riportata esattamente la stessa struttura. Quindi Dungeons & Dragons ha influenzato il reale, influenza la struttura ludica in maniera pervasiva. L’avventuriero di Dungeons & Dragons non fa altro che intraprendere la quest, collezionare tesori, salire di livello e sterminare chiunque gli si pari di fronte. Spesso, ai tavoli di gioco un po’ più progressisti, si fa del black humor su come il villaggio dei Coboldi – un gruppo di umanoidi con una loro cultura e una loro identità – venga sterminato senza remore da personaggi “buoni” ed eroici, solo per salire di livello e strutturarsi.
In tutto questo c’è una strutturazione della norma eterosessuale: il potere del personaggio rimane costante, anche quando cresce e affronta dei pericoli, non è intaccato da forze esterne. La difficoltà è semplicemente un modo per accrescere ulteriormente il tuo potere. Questo è tipico delle comunità privilegiate che non affrontano una precarietà esistenziale, né un sistema di oppressioni. È per questo motivo, appunto, che si parla di norma eterosessuale nel guardare l’avventuriero di Dungeons & Dragons come stereotipo incarnato del percorso facilitato che una persona privilegiata ha nel nostro mondo.
Tuttavia, esistono possibilità di fuoriuscita da questi meccanismi. Il concetto di avventuriero di Dungeons & Dragons ha formato inoltre il concetto del gamer (al maschile): spesso il gamer è maschio, bianco, cis ed eterosessuale, ha una precisa tendenza – se guardiamo alle categorie politiche degli Stati Uniti – vicina ai rami del libertarian, e quindi a un immaginario anarco-capitalista, individualista e che ha portato a fenomeni quali il gamergate, che fu una gigantesca macro-aggressione contro alcune giornaliste di videogiochi da parte di una comunità online polarizzata nella destra dell’alt-right (dunque sostenitrice di Trump e attualmente anche di QAnon). Oggi gamer, in determinate comunità, è un termine quasi vietato, proprio perché richiama ormai unicamente quell’immaginario.
Abbiamo un sistema che modella le identità, le struttura e le spinge verso determinate direzioni, in maniera – diciamo – non volontaria, almeno ai tempi in cui fu creato Dungeons & Dragons, ma semplicemente data da alcuni bias, dalle autorialità che stanno dietro questo gioco, e alimentata a 360 gradi da un’industria di produzione, sempre in mano alle stesse identità, alle medesime persone privilegiate che potevano costruire quelle identità. Siamo di fronte a un enorme processo antropopoietico involontario, che oggi tuttavia determina la definizione di un processo volontario di strutturazione politica di un gruppo vicino all’estrema destra internazionale. Questo si rivela oggi molto problematico. La figura dell’eroe, nei termini in cui ne abbiamo parlato, può essere decostruita e restare ugualmente un prodotto fictionale. Ma oggi, ancora una volta, come successe con i totalitarismi e, ancor prima, con tutte quelle strutture di potere fondate sulla centralità dell’eroe, assistiamo nuovamente al ritorno e al riutilizzo di questa figura come centro assoluto intorno a cui tutto ruota. Il punto è fuoriuscire da tutto questo e provare a costruire narrazioni altre, divergenti, e soprattutto ragionare sia dal punto di vista di chi produce che da quello di chi consuma, al cui interno è inoltre possibile riscontrare forme di attivismo.
More on Magazine & Editions
Magazine , AUTOCOSCIENZA – Parte II
Ecofemminismo magico
Il culto della Dea per prendersi cura del pianeta.
Magazine , AUTOCOSCIENZA – Parte II
Sei paranoicə? Questo scritto, purtroppo, è per te!
Due o tre cose da imparare, a proprie spese, sulla transizione.
Editions
Estrogeni Open Source
Dalle biomolecole alla biopolitica… Il biopotere istituzionalizzato degli ormoni!
Editions
Embody. L’ineffabilità dell’esperienza incarnata
Il concetto di coscienza incarna per parlare di alterità e rivendicazione identitaria
More on Digital Library & Projects
Digital Library
Come queerizzare le cose attraverso le immagini?
Sulla mancanza di fantasia nella performatività e sull’immaginatività del desiderio.
Digital Library
Virilità omolatente e cultura hip hop
Rappresentazioni della maschilità nel mondo hip hop e gestione delle relazioni omosociali in USA.
Projects
Earthbound. Ecologie di genere – Il video
Il video del talk "Earthbound. Ecologie di genere" in collaborazione con TCC e Careof
Projects
Riprogettare il maschio: la sfida ecoqueer al Maschiocene
KABUL presenta una tavola rotonda per indagare i rapporti tra l’attuale crisi ambientale e i sistemi di oppressione dell’Antropocene ed elaborare nuove narrazioni della maschilità.
Iscriviti alla Newsletter
"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.