Ritrovare lo sguardo al tempo di Gaia
Uno dei tratti peculiari dell’Antropocene, questa “nuova” era di cui la specie umana è forza geologica condizionante, è l’intrusione di Gaia: il pianeta Terra ha ormai assunto i contorni di una soggettività minacciosa e imprevedibile, che si trova inevitabilmente legata alla storia geopolitica globale. Questa presenza ipersensibile del mondo ha incrinato le pretese dello Sguardo moderno (come teorizzato da Cartesio e Kant) rendendone inefficace la premessa fondamentale: la distinzione tra Soggetto e Oggetto, tra Cultura e Natura. Sintomo di questa profonda discontinuità è la Object-Oriented-Ontology, quella scuola di pensiero11Per una ricerca sulla Object-Oriented-Ontology si vedano i testi di Graham Harman, Levy Bryant, Timothy Morton, Quentin Meillassoux e Ray Brassier.
che considera il mondo come indipendente da ogni relazione con il pensiero umano: una presenza che esclude ogni mediazione, sia di esperienza, sia di linguaggio. Sembrerebbe che l’imprevedibilità di questo nuovo rapporto con il mondo impedisca ogni formalizzazione, costringendo lo sguardo a rincorrere una realtà che, ormai autonoma, procede secondo oscillazioni proprie.
In questo scenario radicalmente materialista, quale ruolo assumono le immagini che, da sempre, hanno mediato il rapporto dell’essere umano con ciò che lo circonda? Come guardare criticamente le immagini del cambiamento climatico?“…Come guardare criticamente le immagini del cambiamento climatico?” Sono le domande a cui tenta di rispondere questa riflessione, nel tentativo di una riabilitazione del potenziale critico dello Sguardo nel tempo instabile dell’Antropocene. A partire dall’apparente scomparsa di ogni mediazione sotto l’egida di Gaia, diventa necessario riconfigurare spazi critici di contemplazione: urgenza che trova voce nelle parole del filosofo Federico Ferrari, secondo cui occorre «ritrovare l’intervallo, la pausa […] per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale».22Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine (2013), Johan & Levi, Monza, 2013, p. 48.
L’Artico come laboratorio del tempo
Questa ritrovata necessità dello sguardo, nel suo tentativo di formare delle basi critiche per visualizzare un pianeta in continuo cambiamento, si confronta, forse, con il problema principale causato dall’intrusione di Gaia: il problema del tempo. L’Antropocene rende infatti urgente il rapporto con un tempo inedito e precario, che sfugge a qualsiasi perimetrazione ideologica. L’antropologo Eduardo Viveiros de Castro,33Eduardo Viveiros De Castro (Rio de Janeiro, 1951) è un antropologo e accademico brasiliano. Dal 1984 insegna antropologia presso l’Università Federale di Rio de Janeiro.
nelle prime pagine di Esiste un mondo a venire? parla di instabilità meta-temporale44Eduardo Viveiros De Castro, Déborah Danowski, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano, 2017.
(sintomatico il fatto che il testo in questione rifletta sul tema della fine del mondo), ragionando poi sulla gravosità di quel “meta” che evidenzia come a cambiare non siano gli eventi nel tempo, ma lo status del tempo nella sua interezza. Nello spazio ipersensibile della Terra-Gaia, «le cose cambiano così velocemente che per noi è difficile star loro dietro».55Bruno Latour, Facing Gaia: Six Lectures on the Political Theology of Nature, Being the Glifford Lectures on Natural Religion, Edimburgo, 18-28 febbraio 2013, citato in Esiste un mondo a venire?, p. 35.
Nello specifico, il progressivo affaticamento dell’Artico è uno dei sintomi più immediati di tale accelerazione senza precedenti: per questo il Nord del mondo è stato scelto come campo di indagine delle righe che seguono. Mantenendoci su una dimensione visuale ed estetica verrà delineata, nella prima parte, un’interpretazione critica di alcune immagini relative allo scioglimento della criosfera artica: la grammatica delle immagini satellitari della NASA e delle fotografie estetizzanti dello svedese Christian Åslund rivelerà tensioni temporali intrinseche, le prime in relazione a un presente strutturalmente vulnerabile, mentre le seconde in riferimento a un passato quasi-mitologico. Il Tempo rimarrà protagonista nella seconda parte, in cui si prenderà in esame il progetto Alaska RiverTime dell’artista Jonathon Keats, dove il ritmo del tempo viene scandito dalla corrente dei fiumi artici, configurando un nuovo sguardo che guarda al futuro con una progettualità inedita. L’Artico sarà punto di partenza e luogo di approdo di queste tre ipotesi di visualizzazione che, tramite le immagini e il linguaggio dell’arte, andranno a coinvolgere le tre dimensioni di passato, presente e futuro, ipotizzando una traiettoria critica sul problema del Tempo nell’era dell’Antropocene.
Presente. Scioglimento dell’immagine: estetica del time-lapse
Il ritmo sempre più imprevedibile dello scioglimento della criosfera artica ha reso ormai chiara l’esigenza di specifiche tecniche di visualizzazione: un’urgenza che coinvolge il campo della ricerca scientifica e delle “immagini informazionali”.66Si veda a proposito James Elkins, La storia dell’arte e le immagini che arte non sono (1999), in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Raffello Cortina, Milano, 2009, pp. 155-205.
In questo campo, la NASA è una delle realtà più all’avanguardia. Si pensi al “NASA Scientific Visualization Studio” o al “NASA Earth Observatory”: due laboratori di immagini satellitari e animazioni che informano sullo stato attuale del nostro pianeta. Grande spazio è riservato alle aree più sensibili al cambiamento climatico, tra le quali spicca la calotta artica. Si tratta di immagini realizzate con sensori tecnologici ad altissima sensibilità, che conferiscono un solido valore documentario della progressiva perdita di mare ghiacciato nel Nord del mondo. Poiché si tratta di un fenomeno in divenire, la grammatica visiva più utilizzata è quella della comparazione, il confronto dei diversi stati di materia a distanza di decadi, lustri, mesi o addirittura giorni (le distanze variano a seconda delle analisi particolari). Ed ecco un inevitabile paradosso: l’unità di queste immagini implica la divisione del loro soggetto; un solo Artico nella realtà e tanti Artici, affiancati ma diversi, nelle immagini che aderiscono a questa materia sempre più fluida.
Quali tensioni temporali emergono da questo Artico che si ripete all’interno di una stessa cornice? Ogni sotto-immagine è indice di un determinato stato fisico, eppure si dimostra fatalmente anacronistica e poco funzionale se non accompagnata da altre immagini sorellastre che documentano il “prima” (ciò che l’Artico era) e il “dopo” (ciò che l’Artico sarà). Per quanto questa progressione sia necessaria per tentare di arrivare a una conoscenza autentica del problema, essa testimonia come queste immagini si rivelino affaticate se prese singolarmente – “too little, too late”77Viveiros De Castro, Danowski, cit., p. 35.
–, incapaci di una visione esaustiva della questione. Ogni momento diventa istante dentro un flusso in cui il Tempo sembra accelerare sempre di più.
Se si scomponessero queste immagini-contenitore, si rimarrebbe a contemplare immagini ipersensibili così come la stessa criosfera: immagini che per esistere devono essere coinvolte, come il ghiaccio a cui si riferiscono, in un processo di inevitabile scioglimento. Ghiaccio, immagini e sguardo scientifico condividono una stessa vulnerabilità, quella di un presente che si scioglie in un time-lapse continuo dove è esclusa ogni sospensione. Le grammatiche visuali del flusso e dell’accostamento prevalgono sull’immagine singola, perché non sembra più esserci spazio per alcun intervallo contemplativo.
Questa intuizione sembra presente anche nel linguaggio, apparentemente diverso da quello scientifico, dell’arte: si pensi all’affermato artista islandese Olafur Eliasson, che con il suo progetto del 2019, The Glacier Melt Series 1999/2019, torna sugli stessi ghiacciai che, vent’anni prima, erano stati fotografati nel lavoro The Glacier Series (1999). Il nuovo progetto non procede per immagini singole, ma si compone di trenta coppie che mostrano i ghiacciai a vent’anni di distanza. Anche qui la necessità di documentare si unisce all’impossibilità di uno sguardo unitario: la chiarezza dell’informazione visiva implica la fragilità delle immagini utilizzate, che sembrano sciogliersi come il ghiaccio a cui aderiscono.
Passato. Congelamento dell’immagine: estetica delle rovine
Se nelle immagini satellitari della NASA l’Artico viene visto dall’alto, mostrando un perimetro cangiante e difficilmente inquadrabile, la fotografia adotta uno sguardo più terreno, tridimensionale. Numerosi progetti fotografici contemporanei si approcciano alla questione dello scioglimento della criosfera unendo estetica del paesaggio e sensibilizzazione politica. È il caso, per esempio, del fotografo svedese Christian Åslund e del suo progetto Dead End – Oil Exploration in the Arctic: una serie di tredici fotografie scattate in Groenlandia tra agosto e settembre 2015, in occasione della campagna Save the Arctic di Greenpeace, con l’obiettivo di informare sulle continue attività di trivellazione nel mare Artico. Si tratta di immagini che, come evidenziato dalla direttrice dell’Arctic Institute Victoria Hermann,88Victoria Hermann è anche un’accademica e ricercatrice: tra i suoi temi di ricerca ci sono il cambiamento climatico, l’adattamento comunitario, le strategie di resilienza e la migrazione. Nel 2019 è stata inserita da «Apolitical» tra le cento persone più influenti in politica del clima.
fanno eco al tema seicentesco della Vanitas,99Victoria Hermann, Arctic Vanitas: Temporal Tensions of Imaging the Anthropocene, Anchorage Museum.
visualizzando il carattere effimero non solo del capitalismo occidentale ma anche, e soprattutto, della natura in sé: un memento mori che in questo caso sembra segnare tragicamente il destino dell’Artico. Tuttavia, se l’idea di vanità rimanda all’inevitabile trascorrere del tempo (come per le immagini della NASA), in questo progetto sembra emergere anche un’altra traiettoria estetica: quella che si richiama al fascino settecentesco delle rovine. Gli iceberg fotografati da Åslund acquisiscono una perturbante monumentalità, perfettamente contenuta nell’inquadratura fotografica, che evoca un intervallo di tempo immobile e sospeso. In generale, Dead End è una denuncia della frammentazione dei ghiacciai artici a opera di compagnie petrolifere, eppure in queste immagini, con un netto sbilanciamento della dimensione estetica a scapito di quella politica, sembra imporsi proprio quel fascino del frammento che, nel XVIII secolo, caratterizzò le tele di Caspar David Friedrich e i disegni di Johann Heinrich Füssli. Un’attitudine nostalgica e una ritrovata sacralità configurano un’atmosfera di eroica decadenza, come se gli iceberg fossero «frammento di un antico edificio, deteriorato o crollato»; e in senso figurato «quanto resta (di ciò che è stato distrutto o si è deteriorato».1010Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 23.
La dinamicità dei ghiacci della Groenlandia viene offuscata da una “estrema attenuazione temporale” che relega questi corpi naturali in un passato antico e a-temporale. L’idea che queste rovine siano ultime testimoni di una grandezza passata è affascinante, ed è proprio per questo che si corre il rischio di allontanarsi dalle urgenze che oggi, al contrario, rendono l’Artico più vivo che mai. Il progetto di Åslund intende informare circa la vulnerabilità dei ghiacciai, e per farlo utilizza una grammatica visuale che si rifà ai canoni dell’estetica sublime, in cui la natura raffigurata sembra essere solida e maestosa, dotata di una potenza al di fuori di ogni categoria razionale umana. Purtroppo la realtà dei fatti – e il progetto del fotografo muove proprio da qui – è esattamente opposta: nella realtà il ghiaccio si scioglie sempre più velocemente, in queste immagini sembra essere roccia imperturbabile.
Se lo sguardo satellitare della NASA, così come le immagini prodotte, si espone a un processo di scioglimento nel flusso temporale, lo sguardo frontale e idealizzante di Dead End procede in direzione opposta: l’immagine, così come gli iceberg che raffigura, è eternamente congelata, facendo evadere la materia artica in un tempo di sospensione assoluta. Basta pensare al primo titolo del mare ghiacciato di Friedrich: “Una scena idealizzata del mare Artico, con una nave naufragata su una massa di ghiaccio”, oppure a un’altra denominazione utilizzata durante la vendita: “Immagine di ghiaccio. La catastrofe della spedizione al Polo Nord”.
Percezione della catastrofe e idealizzazione romantica si intrecciano nelle fotografie di Åslund. Le immagini in time-lapse della NASA si dimostrano necessariamente deboli nell’aderire a una realtà accelerata; al contrario, le fotografie di Dead End possono risultare eccessivamente forti nell’evadere in un passato completamente immobile.
Futuro. Guardare la corrente: lo sguardo fluviale
Nel corso di questa riflessione sono emerse dalle immagini dell’Artico due temporalità, opposte e complementari: il flusso e la sospensione. Il tempo, nella sua visualizzazione, acquista in questa ipotetica traiettoria critica una materialità coincidente con quella dei ghiacci artici, oscillanti tra i due estremi dello scioglimento perpetuo e del congelamento illusorio. Sicuramente la documentazione della NASA e la seduzione delle immagini di Christian Åslund sono esigenze legittime e necessarie nell’indagine dei rapporti tra l’Artico e il cambiamento climatico; tuttavia, queste due narrazioni sembrano condividere, alla base, un inconscio disorientamento per quanto riguarda qualsiasi proiezione futura. Se il presente diventa un imperativo e il passato diviene evasione, il futuro si rivela come grande assente“…Se il presente diventa un imperativo e il passato diviene evasione, il futuro si rivela come grande assente”, relegato alle utopie ingenue dei sognatori. Occorre allora una ricalibrazione, uno sguardo che intuisca il futuro evitando ogni attesa messianica, ma costruendo traiettorie nella fluidità del presente. Uno Sguardo, quindi, che riveli un tempo a metà tra il movimento continuo e l’arresto sublime. Quale elemento naturale può essere fonte di questa nuova temporalità? Se il ghiaccio può evocare uno sguardo troppo-liquido o troppo-solido, allora occorre un soggetto diverso: il fiume, in cui tempo, sguardo e materia condividono una fluidità sempre aperta e mobile. Proprio i fiumi artici sono i protagonisti del progetto Alaska RiverTime dell’artista e filosofo americano Jonathon Keats.1111Jonathon Keats (New York, 1971) è un artista concettuale e filosofo sperimentale. I suoi progetti si caratterizzano come esperimenti di pensiero su larga scala, dalla forte componente sociale e politica. Attualmente vive e lavora tra San Francisco e l’Italia.
Alaska RiverTime è un progetto del 2020 realizzato in collaborazione con il SEED Lab (Solutions of Energy and Equity through Design) dell’Anchorage Museum. Nel lavoro di Keats il tempo diventa imprevedibile e fluido, perché è la corrente dei fiumi a scandirne il ritmo. A partire da un network di cinque fiumi (Ship, Campbell, Knik, Matanuska e Susitna), l’entità media della corrente calcolata nel lungo periodo (11-73 anni) si confronta con quella attuale: se la corrente attuale risulta più veloce della media storica, il tempo fluviale andrà più veloce di quello standard; al contrario, se il flusso attuale risulta più lento, anche il tempo del fiume scorrerà più lentamente di quello convenzionale. La media di queste cinque comparazioni genera a sua volta un RiverTime unitario che, dal primo gennaio del 2020 e per la durata di un anno, è visibile sulla facciata del museo e sull’apposito sito www.alaskarivertime.org.
La registrazione scientifica e il fascino dell’arte si incontrano in questa dimensione di ascolto della natura, a sua volta fonte di una temporalità errante e contingente, che lega la vita quotidiana al tempo profondo del pianeta, costituendosi come feedback costante del rapporto uomo-natura. Il progetto di Keats sembra richiamarsi alla stessa imprevedibilità delle immagini satellitari del “NASA Earth Observatory”; tuttavia, è proprio in questo allontanamento dai paradigmi del tempo astratto e artificiale che lo sguardo rivela tutto il suo potenziale creativo, e non una strutturale vulnerabilità. Il carattere cangiante del tempo fluviale diventa qui un’opportunità, come si legge in un testo critico di Julie Decker, direttrice dell’Anchorage Museum, che si approccia alla pratica di Keats con il concetto “Principled Uncertainty”:1212Julie Decker, Principled Uncertainty. The Art & Science of Jonathon Keats, “Alaska RiverTime”.
“Incertezza di Principio”. Lo sguardo fluviale di Alaska RiverTime non cade in nessuna iper-documentazione o idealizzazione sublime e, soprattutto, non imbriglia il tempo negli estremi dello scioglimento o congelamento, accogliendone invece il suo carattere fluviale di positiva imprevedibilità. Un nuovo sguardo nel presente che diventi punto di partenza di una ricalibrazione più generale: “Cosa succederebbe se gli appuntamenti si organizzassero in base al tempo fluviale?”, oppure “Cosa succederebbe se le transazioni di denaro avvenissero in base al tempo fluviale?” sono due tra le possibilità speculative pensate da Keats e presenti sul sito del progetto.
Dal ghiaccio al fiume: sguardo e tempo condividono qui una stessa corrente che elude l’angoscia dell’accelerazione dovuta all’intrusione di Gaia, ma si fa laboratorio di nuove immagini future in continuo divenire. Lo sguardo fluviale sembra ricalcare la definizione di insieme vuoto data da Federico Ferrari: sguardo paradossale, che si concepisce soltanto mettendosi «nella condizione di esporsi alla meraviglia della visione, al suo moltiplicarsi senza fine, in una pluralità incommensurabile di intersezioni possibili, di insiemi e sottoinsiemi la cui ricchezza delinea un orizzonte dalle frontiere imperscrutabili».1313Ferrari, cit., p. 22.
Intuire il futuro, tracciando traiettorie nella corrente imprevedibile del presente.
Conclusione. L’Artico come materia dello sguardo
Guardare l’Artico ai tempi dell’Antropocene significa muoversi a passi incerti nell’instabilità del tempo di Gaia.“…Guardare l’Artico ai tempi dell’Antropocene significa muoversi a passi incerti nell’instabilità del tempo di Gaia.” In questa inquietudine la grammatica dello sguardo si intreccia a diverse temporalità: l’aderenza al presente, la regressione nel passato, l’ipotesi del futuro. Tensioni implicite che nei primi due casi sono racchiuse nelle immagini, mentre nel terzo le oltrepassano entrando in una dimensione speculativa. In questa costellazione critica, Tempo e Sguardo sono legati da un terzo polo cruciale: la Materia. I ghiacci e i fiumi dell’Artico non si limitano soltanto a essere oggetto di visione, ma assumono un ruolo decisivo nel dare corpo a quest’ultima che, in questo modo, assume tutti i tratti e le complessità dell’elemento naturale su cui si posa: allora lo sguardo sui ghiacci si rivela ghiaccio anch’esso, pronto a sciogliersi nel presente o congelarsi nel passato; al contrario, esso si fluidifica guardando i fiumi, diventando corrente di nuove possibilità sul futuro.
L’Artico si mostra quindi come laboratorio per sviluppare questo nuovo spazio critico della visione che, unendo in un legame quasi alchemico Sguardo, Tempo e Materia, propone una nuova postura nell’interpretazione delle immagini del cambiamento climatico in generale. Se, parafrasando parte del pensiero del filosofo Bruno Latour, siamo costretti a vivere e pensare in un mondo sublunare, mutevole e contingente, allora lo Sguardo deve muoversi qui, sotto il cielo; deve entrare nella Materia naturale su cui si posa, accogliendone le contraddizioni, accettandone le debolezze, e intuendone le possibilità.
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Piermario De Angelis (Pescara, 1997). Dopo aver completato il liceo scientifico si trasferisce a Milano, per frequentare il corso di laurea triennale in Arti, Design e Spettacolo presso l’università IULM. Attualmente è studente al secondo anno del biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ricerca vuole essere un’esplorazione del potenziale critico dell’arte e delle immagini in relazione alle urgenze della contemporaneità.
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
Julie Decker, Principled Uncertainty. The Art & Science of Jonathon Keats, “Alaska RiverTime”.
Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine (2013), Johan & Levi, Monza, 2013.
Victoria Hermann, Arctic Vanitas: Temporal Tensions of Imaging the Anthropocene, Anchorage Museum.
Antonio Pinotti, Andrea Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano, 2009.
Eduardo Viveiros De Castro, Déborah Danowski, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (2014), Nottetempo, Milano, 2017.
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