Speculum! è un progetto di divulgazione filosofica a cura di: Alessandro Y. Longo, Marco Mattei, Vincenzo Grasso. Nel 2020 Speculum è andato in onda su Decamerette. Nel 2021 nasce “Filosofia dal Futuro”, una newsletter che indaga le intersezioni tra filosofia e Futuro.
Di seguito pubblichiamo un articolo di Alessandro Y. Longo apparso nel n.6 della newsletter.
Credits: East2West News.
È necessaria un’intera civiltà per costruire un iPhone. Il design e il progetto vengono dalla assolata California, il chip audio viene dal Texas e lo schermo da un’azienda del Kentucky, che tuttavia produce in Giappone e a Taiwan. I materiali che creano i campi magnetici, le terre rare, vengono dalle miniere della Mongolia. I 5-10 grammi di cobalto necessari provengono invece probabilmente dalle miniere del Congo, all’estremo sud dell’Africa, estratto a mano usando di frequente manodopera minorile. Ingegneri coreani lavorano ai microchip usati da Apple e alle funzionalità touch dello schermo, mentre un’azienda franco-italiana in Svizzera lavora sul giroscopio, il sensore di movimento del dispositivo. Tutte queste componenti vengono messe insieme efficientemente nelle fabbriche in Cina, come quella della Foxconn, dove i lavoratori e le lavoratrici dormono dentro gli stabilimenti.
Un qualsiasi dispositivo tecnologico contemporaneo – con i dovuti distinguo – concentra su di sé queste differenze geografiche. Come l’idea di piega sviluppata da Deleuze, un dispositivo raccoglie i reami del microscopico e del macroscopico, dalla conoscenza degli ingegneri coreani alla stratificazione dei minerali nel sottosuolo. Questo dominio complesso di relazioni viene concretizzato in un artefatto digitale: catene di approvvigionamento globali sono necessarie per farci giocare a Candy Crush sull’autobus. Vecchia lezione della storia militare: più le catene di approvvigionamento diventano lunghe, più divengono fragili.
E se questa fragilità diventasse insostenibile? In un mondo in cui, tra ottant’anni, le estati dureranno circa sei mesi, uno scenario del genere potrebbe non essere così distante, seppure si tratti sicuramente di una prospettiva catastrofica o collassista. Secondo le ipotesi più ottimistiche, le temperature del pianeta aumenteranno di almeno 2°C. In una situazione del genere, non è difficile immaginare il caos politico che ne seguirà e gli sconvolgimenti che avverranno in tutto il mondo. Inoltre, dato il recente “scandalo” sul consumo energetico della tecnologia NFT, un simile esercizio di immaginazione può rivelarsi utile per comprendere l’impatto ambientale dei dispositivi e delle tecnologie che utilizziamo.
Miniera di litio.
Non si tratta di un esercizio di immaginazione particolarmente estremo, dal momento che eventi del genere hanno già avuto luogo in varie parti del mondo. Nel settembre 2017, quando l’uragano Maria ha colpito Porto Rico, le infrastrutture energetiche e delle telecomunicazioni sono state profondamente danneggiate. L’uragano ha abbattuto 1.360 delle 1.600 torri per le comunicazioni di Porto Rico e l’85% dei cavi telefonici e Internet in superficie, secondo i dati di NOVA: un collasso quasi totale del sistema ICT della piccola isola. Il crollo delle comunicazioni, l’impossibilità di comunicare tramite i sofisticati dispositivi che abbiamo creato ha moltiplicato il peso del disastro ambientale. Ancora, lo scorso febbraio, quando una tempesta di neve e un’ondata di gelo hanno bloccato il Texas, la rete elettrica dello Stato americano ha completamente fallito nel suo scopo. Le temperature hanno portato la domanda di elettricità a un nuovo record invernale che ha persino superato lo scenario di domanda “estrema” che era stato previsto. Decine di centrali a gas naturale e alcune turbine eoliche sono andate rapidamente fuori linea, facendo precipitare la rete del Texas in uno stato di crisi. I tubi dell’acqua, i pozzi di gas naturale e le stesse strade hanno subito danni rilevanti a causa del freddo, aggravando ulteriormente la situazione.
Al picco della crisi, oltre 5 milioni di persone in Texas sono rimaste senza corrente, alcune per più di tre giorni. Dopo anni di politiche di privatizzazione dell’energia, è quasi scontato affermare che queste interruzioni siano state avvertite in modo sproporzionato nelle aree a basso reddito e nei quartieri dove vivono le minoranze. Senza il necessario supporto energetico, in queste aree la possibilità di restare connessi è svanita e ne ha causato un isolamento dal resto del paese.
via Twitter.
Un ulteriore esempio di collasso, per quanto più localizzato, è il recente incendio di un datacenter Ovh a Strasburgo: come ha titolato Wired, “un pezzo di Internet” che prende fuoco. Ovh è la più grande compagnia europea per servizi cloud e hosta sui propri server circa 1.5 milioni di pagine web, che nei giorni successivi non sono più state raggiungibili (un esempio è stato il sito del Centre Pompidou di Parigi). Inoltre, si è sospettato che diversi dati, privi di backup, rischiano di andare perduti per sempre. L’incendio del server Ovh può essere letto come un doloroso promemoria di quanto sia fisica la smaterializzazione economica e digitale che stiamo vivendo. Che cosa accadrebbe se sparissero i servizi online che ospitano i nostri dati medici? Se, a causa di un problema con i server, non si potesse più accedere alla pubblica amministrazione o al proprio servizio bancario?
Incendio in un data center, polizia di Stasbrugo via Twitter.
È impossibile pensare che avvenimenti simili non si ripeteranno in futuro, magari persino in forme peggiori. Il collasso tech è bifronte: da una parte potrebbero venire meno le infrastrutture telecomunicative, i network che ci collegano o le fonti di energia che li alimentano, come negli esempi di cui sopra; dall’altra, a venire meno potrebbero essere le risorse computazionali di cui siamo circondati: tablet, smartphone e laptop potrebbero ridiventare beni di lusso.
In La guerra dei metalli rari, Guillaume Pitron ha documentato la dipendenza dell’intera industria tech dalle provviste di metalli rari, la cui estrazione è stata “delocalizzata” in Cina, in Sud America e in Africa portando con sé instabilità politica e grande inquinamento. L’Occidente è dipendente da tali risorse: se, per ragioni ambientali o politiche, uno di questi paesi interrompesse i suoi scambi di terre rare con l’Europa e gli USA, potremmo vivere una vera e tangibile situazione di scarsità digitale. In modo simile alla crisi petrolifera del 1973 o allo shock energetico del 1979, possiamo immaginare un periodo di austerità digitale, in cui l’accesso alle risorse digitali potrebbe essere razionato o limitato dalle autorità, con lunghe file per accedere ai servizi online fondamentali. Potrebbero essere posti limiti ai dispositivi acquistabili: un laptop a famiglia, per esempio. La Cina detiene di fatto il monopolio sulle terre rare, più di quanto l’OPEC lo avesse sul petrolio negli anni ’70: da questo ruolo di potere, non si capisce perché la Cina non dovrebbe sfruttare questo vantaggio a suo favore. Del resto, nel 2019, all’apice della guerra commerciale tra il “Regno di Mezzo” e Donald Trump, la Cina ha minacciato di interrompere l’export di terre rare, confermando la propria egemonia nell’estrazione dei metalli da cui dipende il nostro sviluppo tecnologico.
Una svolta storica del genere potrebbe persino avere effetti positivi sulla consapevolezza collettiva: come lo shock petrolifero mise, in parte, un freno ai sogni del boom economico, uno shock digitale ci ricorderebbe quanto sia importante l’aspetto puramente materico della rivoluzione digitale. La follia dell’obsolescenza programmata potrebbe venire ulteriormente limitata, mettendo in luce l’importanza di ciò che è stato definito come il “diritto alla riparazione”. In una situazione estrema, dovremmo imparare a prendere confidenza con i nostri device e disseminare le conoscenze necessarie alla manutenzione, magari facendoci finanziare dalle aziende che hanno spudoratamente venduto per decenni device di breve durata.
Ciascuno di questi possibili scenari, più o meno gravi, richiede un generale ripensamento del nostro rapporto con la tecnologia. In un cortocircuito temporale, potremmo vedere ritornare dal nostro passato le tecnologie adatte per il futuro. È il caso di Collapse OS: un sistema operativo pensato per sopravvivere a una catastrofe. Lo scopo dichiarato di Collapse OS è «preservare la capacità di programmare microcontrollori attraverso il collasso della civiltà».
Che cosa si aspetta dal futuro l’ingegnere paranoico che sta dietro a questo progetto? Sul sito di Collapse OS viene descritto uno scenario molto simile a quello di cui abbiamo parlato finora. Entro il 2030 le supply chains non ce la faranno più, il limite dei 2°C in più è la previsione più ottimistica e, ciononostante, creerà eventi non controllabili nei limiti della nostra società. L’estrazione di olio ha raggiunto o raggiungerà a breve il suo apice, il cosiddetto peak oil e la scarsità energetica in cui finiremo non ci consentiranno di intraprendere in tempo la svolta sostenibile di cui abbiamo bisogno. L’idea di Collapse Os può essere ricondotta a quella della Deep Adaption, una strategia a lungo termine che prende sul serio le previsioni catastrofiche che ci giungono, ai giorni nostri, dalla comunità scientifica, e non solo da qualche fanatico appassionato di bunker. La Deep Adaption è l’idea secondo cui l’umanità può sopravvivere al collasso della civiltà capitalistica. La distruzione del sistema non è un tunnel diretto per l’estinzione, ma potrebbe attivare forze positive e costruttive, nuove idee e organizzazioni in grado di navigare l’instabilità della catastrofe. È lo stesso mood dello slogan apparso in diversi centri delle rivolte globali del 2019-’20: Parigi, il Cile, Minneapolis. L’idea è semplice e radicale: un’altra fine del mondo è possibile.
l’immondizia potrebbe essere la via maestra per la rivoluzione.
Collapse OS unisce lo spirito open-source con il survivalismo post-apocalittico. Si tratta di un sistema operativo progettato per «funzionare su macchine minime e improvvisate», magari «costruite da parti di scarto con strumenti a bassa tecnologia». Collapse OS consentirà di interfacciarsi con tastiere e display improvvisati, di leggere, scrivere e memorizzare dati e anche assemblare sé stesso per essere distribuito su un’altra macchina. Secondo il suo creatore, il sistema intende essere
«il più autonomo possibile. Con una copia di questo progetto, una persona capace e creativa dovrebbe essere in grado di riuscire a costruire e installare Collapse OS senza risorse esterne (cioè Internet) su una macchina di sua progettazione (magari composta da parti di scarto)».
Inoltre, Collapse OS può assemblare processori (gli Z80) da 8 bit: una tecnologia molto limitata rispetto a quella che usiamo oggi e che era impiegata in vari ambiti tra gli anni ’70 e gli ’80. Il creatore del progetto l’ha preferita per la sua solidità e semplicità, come a dimostrare che alcune risposte ai problemi del futuro possono essere trovate attraverso una tecnologia del passato. Per testare Collapse OS esiste un simulatore online, anch’esso dal sapore retrò e dall’estetica simil-Fallout.
via Twitter.
Forse la risposta al collasso hi-tech è quindi l’adattismo low-tech, di cui Collapse OS è un esempio. Tecnologie non perfette e tecnologie che si adattano all’ambiente circostante, con le sue criticità, senza cercare nuovamente di modellarlo a propria immagine. Un ulteriore straordinario esempio di questa attitudine è Low-Tech Magazine, un sito alimentato a pannelli solari e, per questa ragione, talvolta offline (il sito è stato persino stampato interamente all’interno di un libro). Anche in questo caso il design è spartano, con una pagina statica e retrò, per risparmiare spazio ed energia. Il sito esplora molte tecnologie “obsolete” o alternative, poco raffinate, che tuttavia si possono rivelare utili per un futuro davvero sostenibile, in cui inevitabilmente il “progresso” è dovuto arretrare di qualche passo. Ciò che oggi è bollato come anacronistico dai tecno-ottimisti potrebbe in realtà costituire la migliore alternativa per il nostro futuro. Rompere il determinismo tecnologico in cui viviamo, per cui l’alternativa più auspicabile è sempre quella più sofisticata e avanzata, con la conseguenza che i problemi vanno sempre inquadrati come “problemi tecnici”, passa anche dall’immaginazione di questi contro-futuri e di passati alternativi. Per riassumere con una parola, potremmo chiamare questa attitudine salvagepunk. Tale termine, coniato dall’autore di fantascienza China Miéville, gioca sul significato dell’inglese salvage: il termine, come sostantivo, significa “resti”, “rottami”, mentre come verbo può essere tradotto con “salvare”, “mettere al sicuro” qualcosa di danneggiato. Il salvagepunk è sia un genere letterario che un’attitudine verso i disastri del passato e del futuro: esemplificato da film come Mad Max o dai romanzi dello stesso Miéville, il salvagepunk immagina mondi futuri in cui l’umanità riparte dagli scarti della nostra società, formula strategie creative di adattamento post-collasso e ricostruisce una nuova tecnica. Come dimostrano Collapse OS e Low-Tech Magazine, esistono tecnologie abbandonate nel passato da cui possiamo ancora imparare molto: l’immondizia potrebbe essere la via maestra per la rivoluzione. Serve una civiltà per costruire l’iPhone: una civiltà fragile, materiale, ingiusta ed ecocida. Da questa civiltà possiamo ancora uscire vivi. Quando la distopia si trova nei rapporti ufficiali dei governi o delle agenzie per il clima, è ai limiti della nostra cronistoria che dobbiamo cercare l’utopia e la speranza. Rovistando tra questi limiti, potremmo concretizzare e progettare la nostra fuga.
"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
di Alessandro Y. Longo
Torinese di nascita, Alessandro Y. Longo studia Digital Humanities a Bologna. È il fondatore del progetto REINCANTAMENTO, che vive tra Instagram e Medium, e scrive per una newsletter che si chiama Speculum!. Ha parlato di musica trap su Dance Like Shaquile 'O Neal e di design su Menelique.
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