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Lecture performance: educare attraverso la TV
Magazine, LOCUS - Part I - Marzo 2021
Tempo di lettura: 11 min
Lisa Andreani

Lecture performance: educare attraverso la TV

Dagli esperimenti della Open University all’opera di alfabetizzazione di “Telescuola” e “Non è mai troppo tardi” (RAI).

“The University is Now On Air: Broadcasting the Modern Architecture”, veduta della mostra, CCA Montreal, 2017. Credits: CCA.

 

Definire la pratica della lecture performance non è affatto semplice, è una sfida tuttora in atto, priva di una storia scritta. Questa pratica, definita come un sottogenere delle arti performative, si compone di due termini che implicano un duplice rapporto spaziale: da un lato quello personale, del corpo, dall’altro lo spazio del discorso, sia esso istituzionale, educativo, intimo. Nonostante i pochi saggi sull’argomento11Si vedano tra questi: Patricia Milder, Teaching as Art. The Contemporary Lecture Performance, in «PAJ: A Journal of Performance and Art», 2011; Falk Hübner, Hard Times: Lecture performance as gestural approach to developing artistic work-in-progress, https://www.researchcatalogue.net/view/158044/158045; Daniel Ladnar, The lecture performance: contexts of lecturing and performing, Aberystwyth University, 2014.
fissino la nascita di questa pratica negli anni Sessanta, esistono buone ragioni per guardare più indietro. A rigor di logica, la sua storia infatti potrebbe avere origini lontane, arrivando a includere persino l’antichità classica.

Si potrebbe far cominciare tutto dai sofisti, primi insegnanti di professione che si guadagnarono da vivere devolvendo sapere. La loro pratica si fondava sulla retorica e sul ruolo persuasivo del discorso orale. Altri esempi furono la scuola eleatica, con le argomentazioni di Parmenide e Zenone – i suoi esponenti più rappresentativi –, e la retorica ciceroniana, che si configurò a tutti gli effetti come un’azione performativa che contemplava quale suo elemento caratterizzante l’actio: una gestualità teatrale congiunta a una buona capacità di esprimersi era fondamentale al fine di persuadere il proprio interlocutore.

Qualunque sia l’origine storica della lecture performance, è interessante notare come essa, nell’ultima decade, sia stata adottata esponenzialmente nella pratica di numerosi artisti e in diverse istituzioni museali. In particolar modo, la sua diffusione capillare sembra essere dettata da ciò che è stato definito, nella storia dell’arte contemporanea, come Educational Turn.

Intorno agli anni 2000, il Processo di Bologna (1999), volto alla standardizzazione dei curricula negli stati membri dell’UE, è stato da un lato criticato come modello per un’economicizzazione della conoscenza, dall’altro utilizzato come segnale per istituire modelli alternativi e orizzontali che hanno immaginato l’accademia non come un training ground, ma come uno spazio per la ricerca di nuovi sistemi di valutazione. L’urgenza di formule partecipative e di metodi educativi anti-egemonici ha dato vita a scuole temporanee, progetti artistici o curatoriali che nella veste di para-institutions – quindi con l’intento di generare una frizione con le dinamiche istituzionali più interne22Per la definizione di para-institutions si faccia riferimento al testo di Nora Sternfeld, Deprovincialising the Museum. What Would a Museum Be If It Were Not a Western Concept?, in Body Luggage: Migration of Gestures, a cura di Zasha Colah, Archive Books, Berlin, 2016, p.159.
– si sono inseriti all’interno di musei dalle strutture gerarchiche ben definite o in manifestazioni quali biennali. Tra queste, troviamo Manifesta 6, che in origine si sarebbe dovuta tenere a Nicosia ma che fu in seguito cancellata e trasformata in un progetto editoriale dal titolo Notes for an Art School, Documenta 14 e The Silent University.

Proprio per questa sua possibilità di tenere i piedi in due scarpe, fuori e dentro l’istituzione, la lecture performance dovrebbe restare una pratica indefinita, sempre in grado di attualizzare un cortocircuito benefico al fine di un ripensamento dei modelli correnti.

In un testo seminale di analisi33Si veda Mick Wilson, Curatorial moments and discursive turns, in Curating subjects, a cura di Paul O’Neill, Open Editions, 2007, pp. 201-206.
di quella svolta che ha anticipato l’Educational Turn, ovvero il Discursive Turn, è possibile incontrare una citazione di Thomas Crow in cui si afferma: «Dovremmo fare una conferenza solo quando c’è una crisi. Altrimenti stiamo solo chiacchierando».44La citazione è ripresa da Gavin Wade e Dave Beech nell’introduzione di Curating in the 21st Century, a cura di Gavin Wade, The New Art Gallery, Walsall, 2000, pp. 9-10.
La spigolosa affermazione risulta interessante in un contesto come quello attuale in cui, nel pieno dell’emergenza pandemica da Covid-19, un profluvio di conversazioni è apparso su ogni tipologia di schermo. In una condizione di mancato accesso agli spazi deputati alla fruizione dell’arte, la conseguente traslazione e diffusione dei suoi contenuti è avvenuta su piattaforme online dedicate prettamente all’atto del conversare o alla necessità di raccogliersi.

Se la discorsività applicata alla fruizione dell’arte contemporanea sia stata o meno una valida soluzione per i mesi trascorsi, questo è ancora da dimostrare. Tuttavia, di fronte alla radicale riorganizzazione che ha coinvolto le nostre vite, è utile far emergere tutta una serie di esperienze che, attraverso l’utilizzo degli strumenti informatici, hanno realizzato progetti in grado di divulgare la trasmissione della cultura e della formazione. E in particolare queste esperienze richiamano proprio la pratica della lecture performance, che al contempo invita il corpo a presenziare sullo schermo implicando altresì un processo di formazione dell’individuo.

The Open University Timetable, in “Broadcasting the modern movement,” 1975. (By Tim Benton. Architectural Association Quarterly, London: The Architectural Association © The Architectural Association).

 

Shared channels, shared audience

«Open,

wireless,

of the air,

at a distance,

door-to-door,

by correspondence,

extramural,

remedial,

continuing and adult education».

Questo era lo slogan della Open University (OU), un’istituzione decentralizzata fondata nel 1969. L’esperienza, nata in Inghilterra, trasformava la tradizionale idea di università in un processo dinamico aperto e dialogico in grado di disseminare l’educazione attraverso metodologie innovative. I suoi tentacoli erano una miscela di canali televisivi e radiofonici, materiali cartacei, testi da studiare e su cui esercitarsi spediti direttamente a casa, gruppi di studio in centri locali o a livello regionale, nastri e videocassette distribuiti via posta. Le trasmissioni, in collaborazione con la BBC, occupavano fasce orarie che garantivano la possibilità di presa visione anche da parte dei lavoratori, impegnati nelle loro mansioni durante il giorno o la notte. Scopo dell’università non era quello di sostituirsi alle istituzioni correnti, ma di costituirne un supplemento attivo, una risorsa culturale pubblica e accessibile a chiunque.

Nel 2018, uno dei corsi, intitolato A305 History of Architecture and Design 1890-1939, è stato oggetto di un’importante ricerca e mostra al CCA55Per maggiori informazioni sulla mostra si veda qui.
(Canadian Center of Architecture) di Montréal, che ne ha restituito la storia attraverso materiali d’archivio e video.

«Reinterpretare l’architettura del passato è un’attività parallela alla creatività architettonica e ci aiuta a capire il quadro ideologico ed estetico della nostra cultura, tanto quanto quello del periodo studiato».66Tim Benton, Broadcasting the Modern Architecture, «Architecture Association Quarterly», 1, 1975, pp. 45-55.

All’interno del corso, l’architettura veniva infatti interpretata attraverso il corpo.

Alberto Manzi negli studi televisivi per il programma “Non è mai troppo tardi”.

I programmi televisivi erano dedicati a simulare una visita all’interno degli edifici stessi, mentre in radio erano invitate a conversare, o persino a tenere lezione, figure prominenti (architetti, designer, storici dell’architettura). Nel primo caso il montaggio e i movimenti compiuti dal conduttore/visitatore erano fondamentali per comprendere quali fossero gli aspetti più funzionali delle architetture in questione, mentre nel secondo l’obiettivo primario era quello divulgare la voce del movimento moderno.

Qualche anno prima, in Italia, nel 1958, prendeva forma un esperimento simile, che durerà nove anni provocando una profonda trasformazione all’interno del tessuto sociale, un esperimento chiamato Telescuola e Non è mai troppo tardi. Si tratta di due programmi televisivi,77I programmi furono anticipati nel 1954 da Classe Unica presentato sul Secondo Programma RAI come ciclo settimanale di lezioni.
entrambi realizzati in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, che in pochissimo tempo divengono propulsori di quella grande unificazione linguistica operata in Italia da radio e tv, tanto da essere riconosciuti anche in ambito accademico intorno alla metà degli anni Sessanta.

«La diffusione dell’ascolto televisivo, a partire dal 1953, […] ha inciso sulla lingua italiana più della scuola. […] C’è dunque un influsso positivo che viene anche dalla “malfamatissima” televisione italiana: ma ciò si spiega con il fatto che in Italia la scuola funziona così male che persino Carosello riesce ad avere una funzione utile».88Storie e culture della televisione italiana, a cura di Aldo Grasso, Mondadori, Milano, 2013.

Sono queste le parole di Tullio De Mauro, parole che oggi, pensando alla crisi legata all’emergenza pandemica e alle difficoltà della scuola italiana durante la DaD, non possono lasciarci indifferenti rispetto al ruolo educativo strategico che tv, radio e Internet possono ancora avere nella formazione dei nostri studenti.

Ideata dalla professoressa Maria Grazia Puglisi e prodotta dalla RAI, Telescuola aveva l’obiettivo di favorire il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria per i ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie. Chiamato per questa ragione anche corso “sostitutivo”, fu successivamente esteso anche agli istituti di pena, e di conseguenza premiato non solo per il grande contributo all’alfabetizzazione del Paese ma anche per la redenzione civile. Essendo inoltre questa analisi parzialmente piegata verso una riflessione sul sistema artistico contemporaneo, è da considerare che è grazie al programma, e in particolare a uno dei suoi conduttori – il pittore e teorico dell’arte Enrico Accatino –, se l’educazione artistica è stata inserita nella Riforma della Scuola Media del 1964-’65. Accatino, infatti, cominciò a configurare televisivamente ciò che costituisce l’attuale corso di Arti Visive, estendendo la metodologia studiata anche a ragazzi disabili o non vedenti.

Affianca poco dopo l’inizio di Telescuola un altro programma televisivo targato RAI, Non è mai troppo tardi. Condotto dal celebre maestro Alberto Manzi, grazie al quale circa un milione e mezzo di italiani riuscì a conseguire il diploma, il programma andò in onda dal 1960 al ’68, con il sottotitolo di “Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, e si rivolgeva a un pubblico fuori età scolare ancora totalmente o parzialmente incapace di leggere o di scrivere.

Uno degli aspetti più interessanti di Non è mai troppo tardi è sicuramente l’approccio didattico tramite cui Manzi conduce le sue lezioni: sebbene, all’inizio della sua carriera, non faccia parte del mondo dello spettacolo, Manzi si dimostra sin da subito particolarmente attento a come agire all’interno del contesto televisivo“…Manzi si dimostra sin da subito particolarmente attento a come agire all’interno del contesto televisivo”. Per questa ragione, il suo metodo rigetta il modello tradizionale e cattedratico del fare lezione, per abbracciare un’idea di dinamismo e movimento volta a catturare l’attenzione dello spettatore. Così, su una lavagna fatta di fogli di carta, affronta gli argomenti delle sue lezioni attraverso il disegno e la creazione di immagini. Il movimento si rivela pertanto fondamentale per la buona riuscita del programma, tanto da essere ricercato anche attraverso filmati, spezzoni di audio e dimostrazioni pratiche. È interessante notare come, in un periodo ancora “archeologico” del medium, la televisione dell’epoca, in cerca di approcci originali, recuperi il modello della lezione tradizionale per riconfigurarlo e assolvere così alle funzioni della scuola.

 

Enunciati performativi di autogenesi

«Parrebbe, dunque, che nell’espressione “noi, il popolo” sia all’opera una forma linguistica di autogenesi; potrebbe quasi sembrare un atto magico o almeno un atto che ci esorta a credere nella natura magica degli enunciati performativi».99Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano, 2017, pp. 276-277.

La domanda che il CCA si è posto nel momento in cui ha deciso di realizzare un progetto espositivo ed editoriale dedicato a uno dei corsi della Open University è essenziale: «Per quale ragione analizzare questo progetto oggi?».

Dall sigla iniziale di “Telescuola”.

La risposta che diamo a questa domanda non si allontana da quella che ha coinvolto vent’anni fa l’Educational Turn: è necessario ripensare l’istituzione scolastica per come la conosciamo. Conoscenza e formazione vanno sempre intese come beni pubblici, e l’educazione deve ampliare il proprio ruolo pedagogico aprendosi al cambiamento sociale e politico. I programmi citati parlano di democratizzazione, orizzontalità e possibilità, qualcosa che va nella direzione contraria rispetto a ciò che l’emergenza pandemica ha fatto emergere nel corso dell’ultimo anno. Abbiamo visto infatti la persistenza di strutture multiscalari di sfruttamento, una cattiva distribuzione delle infrastrutture digital-formative, una sempre più diffusa assenza di etica del lavoro. Tutto ciò ha spinto diversi lavoratori a riunirsi in gruppo e a reagire, costituendo possibili fronti di resistenza contro le problematiche strutturali di alcuni settori. Per esempio, in Italia, abbiamo visto la nascita di gruppi od organizzazioni informali come il Movimento dei lavoratori dello spettacolo e Art Workers Italia (AWI), oltre all’attività dell’ormai consolidato Forum dell’Arte Contemporanea, con la sua edizione online Chiamata alle Arti. Nel suo libro, L’Alleanza dei corpi, Judith Butler affronta ampiamente il tema dell’assembramento dei corpi, un termine che ormai ci è familiare. L’atto del radunarsi, per la filosofa statunitense, rappresenta il risultato di un atto linguistico performativo, un momento breve e transitorio in cui, nello stesso luogo o meno, un gruppo di persone manifesta un bisogno corporale in cui si articola un’urgenza al tempo stesso storica e astorica.1010La connotazione storica è legata a un’implicazione contemporanea, a un dato posizionamento nel tempo, mentre quella astorica è un bisogno essenzialmente corporale che tocca una data necessità di riunirsi.

The Open University nella sala di registrazione della BBC. Credits: CCA.

Sia in qualità di istituzioni sia come progettualità autonome, varrebbe pertanto la pena riflettere su come indirizzare un discorso educativo e di sensibilizzazione attraverso gli strumenti mediatici di cui disponiamo. Gli interventi e le trasmissioni tele-educative citate possono senz’altro costituire validi esempi storici da cui attingere, allo scopo di cominciare a delineare un’operazione di revisione sul presente. La pratica della lecture performance, ultimamente parecchio adottata da artisti e istituzioni museali, potrebbe quindi rivelarsi estremamente utile per allargare ulteriormente il significato e il ruolo assunti dall’educazione all’interno della nostra società. A tale proposito, è opportuno presentare alcuni estratti di un testo che a sua volta si potrebbe considerare come una lecture performance stessa. Si tratta delle parole di una delle ramificazioni del CCA, la sua piattaforma digitale o sito web che, parlando in prima persona, lascia una propria traccia all’interno del volume The Museum Is Not Enough, mentre dimostra di aver colto e trasformato a sua volta i contenuti della mostra realizzata l’anno precedente:

«Più che un luogo virtuale dove semplicemente vi parlo di me, il mio sito è una versione di me stessa, un’altra possibilità per incontrarmi – le mie idee e preoccupazioni, i miei programmi passati e futuri, la mia collezione. Lo considero un progetto editoriale parallelo alle mie mostre e pubblicazioni. […] Essere online significa anche che devo mettermi nei vostri panni. Devo immaginare che mi incontriate in queste circostanze imprevedibili. […] Ho descritto la mia presenza su Internet come un secondo edificio – una decisione di crescere online piuttosto che far crescere la mia influenza su Montréal. […] Ho anche iniziato a cercare conversazioni radicate in altri luoghi fisici, città dove penso che le idee interessanti siano nell’aria, dove potrei riformulare il mio pensiero e forse contribuire a qualcosa. Ho imparato che posso farlo solo con un complice locale, un interprete che riveli ciò che non posso vedere o sentire, e che aiuti a far capire la mia voce. Questo è un altro tipo di seconda costruzione, un’iniziativa chiamata CCA c/o che permette conversazioni da altre prospettive».1111The Museum Is Not Enough, a cura di Giovanna Borasi, Albert Ferré, Francesco Garutti, Jayne Kelley, Mirko Zardini, Sternberg Press, Berlino, 2019.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Lisa Andreani
  • Curatrice e storica dell'arte. Attualmente è PhD in Visual Arts presso l’Università IUAV di Venezia in collaborazione con Palazzo Grassi-Punta della Dogana. Nel 2023 si è occupata del coordinamento curatoriale e della produzione di Panorama L'Aquila, mostra diffusa organizzata da ITALICS, ed è stata co-curatrice di :After. Festival diffuso di Architettura in Sicilia. Dal 2020 al 2022 è stata coordinatrice curatoriale ed editoriale del MACRO (Roma). Nel 2019 è stata selezionata per il programma di ricerca Global Modernism Studies presso la Bauhaus Dessau Foundation (Dessau) in collaborazione con il Victoria & Albert Museum (Londra). Ha coordinato la produzione di Romanistan (2019), un film di Luca Vitone. Nel 2019 ha co-fondato REPLICA, un progetto curatoriale e di ricerca che indaga i libri d'artista. Ha collaborato con diverse istituzioni ed case editrici tra cui: Fondazione Arnaldo Pomodoro (Milano), Fondation Carmignac (Paris-Porquerolles), Humboldt Books (Milano), MAXXI (Roma-L'Aquila), Mousse Magazine & Publishing (Milano), NERO Editions (Roma), Quodlibet (Roma), Spector Books (Lipsia), Viaindustriae (Foligno). Dal 2018 lavora come archivista e ricercatrice per l'Archivio Salvo di cui è entrata a far parte del Comitato Scientifico.
Bibliography

Carlo Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, Torino, 2013.

Daniel Ladnar, The lecture performance: contexts of lecturing and performing, Aberystwyth University, 2014.

Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano, 2017.

Mick Wilson, Curatorial moments and discursive turns, in Paul O’Neill (a cura di), Curating subjects, Open Editions, 2007, pp. 201-206.

Nora Sternfeld, Deprovincialising the Museum. What Would a Museum Be If It Were Not a Western Concept?, in Zasha Colah (a cura di), Body Luggage: Migration of Gestures, Archive Books, Berlin, 2016.

Patricia Milder, Teaching as Art. The Contemporary Lecture Performance, in «PAJ: A Journal of Performance and Art», 2011.

Aldo Grasso (a cura di), Storie e culture della televisione italiana, Mondadori, Milano, 2013.

Giovanna Borasi, Albert Ferré, Francesco Garutti, Jayne Kelley, Mirko Zardini (a cura di), The Museum Is Not Enough, Sternberg Press, Berlin, 2019.

Tim Benton, Broadcasting the Modern Architecture, «Architecture Association Quarterly», 1, 1975.

 

Nel seguente elenco è possibile visionare alcune delle lezioni trasmesse dalla BBC per il corso A305 History of Architecture and Design 1890-1939 della Open University:

https://youtu.be/IIAo1AQzIKs

https://youtu.be/r7nJ9EYFvFc

https://youtu.be/ZqPEb51QsbY

https://youtu.be/uJAXqL7BvyU