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Topografia politica del mondo globalizzato
Magazine, MOBILITY - Part I - Settembre 2018
Tempo di lettura: 15 min
Leonardo Ruvolo

Topografia politica del mondo globalizzato

Un'analisi del legame esistente tra innovazione tecnologica e globalizzazione, passando per le forme contemporanee di sovranità e le pratiche di resistenza.

Map of the European Migrant Crisis – 2015.

Una definizione indica l’essenza di un fenomeno, per questo definire permette di sgombrare il campo da fraintendimenti che non aiutano a sviluppare una conoscenza precisa dell’argomento. La globalizzazione è un processo economico che porta alla connessione e all’interdipendenza dei mercati, produzioni, consumi, modi di vivere e di pensare su scala mondiale. Sebbene il termine sia stato coniato di recente non si può assolutamente dire che la globalizzazione sia un fenomeno nuovo. Alla base della globalizzazione sta un principio molto semplice: tanto più velocemente vengono scambiate merci, servizi e idee tanto più il mondo diventa interdipendente e interconnesso. Vi è una stretta correlazione tra globalizzazione e mobilità. Ripercorrendo indietro la storia delle innovazioni tecnologiche, ci accorgiamo che ogni innovazione capace di migliorare la mobilità fa innalzare il grado di interconnessione e interdipendenza dei mercati, delle produzioni e dei consumi. È importante provare a datare l’inizio della globalizzazione e collegarlo con alcune innovazioni tecnologiche. Nonostante vi siano studiosi che vanno indietro fino ai legami commerciali tra Sumeri e le civiltà dell’Indo nel 3000 a.C.,11Cf. A. Gunder Frank, Reorient: Global economy in the Asian age, U.C. Berkeley Press, 1998.
per semplicità faremo nostra una datazione22Cf. T. Friedman, The world is flat 3.0, MIT video, 28 Nov. 2007.
che fissa l’inizio della globalizzazione nel 1492. Sebbene altri popoli avessero già solcato gli oceani, la scoperta dell’America e le conseguenze commerciali che ne derivarono furono possibili grazie alla nuova tecnica di costruzione delle imbarcazioni. Nel 1451, infatti, Enrico il Navigatore, sovrano del Portogallo, promosse lo sviluppo delle Caravelle,33A. Konstam, The History of Shipwrecks, Lyons Press, New York 2002, pp. 77-79.
 in questo caso i promotori del processo di globalizzazione sono gli stati nazionali. È utile aggiungere che la scoperta di enormi giacimenti di argento nelle Americhe e il suo successivo impiego per la produzione di moneta ne fece crollare il relativo costo di produzione, rendendo così la moneta un più agile ed economico mezzo di pagamento. Ovviamente la moneta esisteva già prima della scoperta dell’America, ma averne abbassato il costo di produzione ne ha permesso una maggiore diffusione e utilizzo, aumentando così la mole di scambi nel mercato.

Gross domestic product GDP per inhabitant in purchasing power standard PPS by NUTS level 2 region 2013.

Altra data fondamentale per la globalizzazione è il 1800. Diverse sono le innovazioni tecnologiche che guidano il processo di globalizzazione in questa fase: la macchina a vapore applicata ai trasporti, l’elettricità, i prodotti chimici, il petrolio. Questo secondo stadio del processo di globalizzazione è guidato dalle aziende, che da lì a qualche anno sarebbero diventate multinazionali. Queste innovazioni permisero da un lato di incrementare la produzione di beni di consumo, dall’altro di ridurre i costi di trasporto. A questo punto servivano nuovi mercati da raggiungere, anche attraverso l’utilizzo di mezzi militari. Sebbene ancora importanti per la globalizzazione, gli Stati, qui, assumono un ruolo strumentale rispetto agli obiettivi delle compagnie commerciali. Tra il 1839 e il 1860 si succedettero, per esempio, le Guerre dell’Oppio tra la Cina e le potenze occidentali al fine di favorirne la penetrazione commerciale in Oriente. Da lì a pochi anni sarebbe iniziato «the scramble for Africa», con il doppio obiettivo di ampliare il mercato globale e avere accesso a materie prime poco costose.

Tralasciando la fondamentale intuizione di Malcolm McLean, che nel 1956 mise a punto il container per il trasporto internazionale, passiamo agli anni 2000. Gli investimenti fatti in nuove tecnologie per aumentare la connessione a banda larga, il perfezionamento dei software di comunicazione, l’abbassamento dei prezzi dei personal computer, il perfezionamento dei motori di ricerca hanno guidato la globalizzazione attraverso una nuova fase. Thomas Friedman, in maniera molto precisa, descrive questa fase con il motto «the world is flat» – il mondo è piatto –, nel senso che diviene irrilevante il luogo in cui ci si trova. Ciò pone al centro del processo di globalizzazione l’individuo e le sue individuali capacità di stare al passo con l’innovazione tecnologica. In questa fase, le multinazionali possono ancora sfruttare gli ampi benefici dovuti alla globalizzazione, godendo della possibilità di aumentare i tempi di lavoro, data l’estrema facilità con cui alcuni processi produttivi possono essere frammentati nel tempo e nello spazio.

Il processo di globalizzazione trainato dalle innovazioni tecnologiche ha ridotto le distanze e allo stesso tempo ne ha aumentato la velocità di percorrenza a favore di persone, merci e informazioni. A partire dagli esempi storiografici forniti, è utile provare a categorizzare quali siano gli attori del processo di globalizzazione. Seguendo un’impostazione classica non si può tralasciare la dicotomia capitale-lavoro.

Per quanto riguarda il primo, da sempre ha finanziato l’innovazione tecnologica, purché questa fosse in qualche maniera misurabile e quindi redditizia. Nella contemporaneità gli assunti neoliberisti hanno lasciato massima libertà di movimento al capitale. Deregolamentazione, riduzione dei dazi doganali e detassazione delle rendite hanno reso semplicissimo e conveniente per il capitale muoversi tra i confini. Si è così sviluppata quella forma di potere dell’economia mondiale che Ulrich Beck basa sul principio dell’«exit option»44Cf. U. Beck, Macht und Gegenmacht im globalen Zeitalter. Neue weltpolitische Ökonomie, Suhrkamp, Frankfurt 2002.
, il caso Grexit ne rappresenta l’archetipo. È il capitale con la minaccia della propria fuga a costringere i governi a determinati comportamenti. Beck sottolinea la differenza tra il potere del governo e quello del capitale. Il dispositivo di potere del capitale si basa sulla flessibilità della ricchezza e non, come per i governi, sul rigido monopolio della violenza; ciò rende difficile individuare le forme di sovranità contemporanee nell’era globale.

Accanto al capitale, la forza lavoro è l’altro fondamentale attore coinvolto nel processo. Anche la forza lavoro si muove tra i confini ma i governi attuali, se da un lato favoriscono la circolazione del capitale, dall’altro rendono molto difficile la circolazione della forza lavoro, erigendo barriere fisiche e legali per ostacolare la mobilità delle persone tra i confini. Pensiamo ai muri tra le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla e il Marocco, tra Bulgaria e Turchia, tra Israele ed Egitto, tra Zimbabwe e Botswana, tra Stati Uniti e Messico (muro di Tijuana), sono tutte barriere per impedire il passaggio di immigrati tra confini. Il capitale si muove secondo logiche legate al profitto, quindi principalmente alti tassi di rendimento, bassa pressione fiscale e poche e deboli regolamentazioni, mentre la forza lavoro si muove secondo logiche legate alla condizione della vita, lontano dalle guerre e dalla miseria, e vicino a servizi sociali di qualità e alti salari.

Broadband Affordability.

La sovranità contemporanea risulta così essere mediata dalle necessità del mercato globale. I governi si trovano a dover garantire da un lato condizioni che siano in grado di attrarre investimenti, dall’altro, per ottenere il consenso dei cittadini, a chiudersi in degli ‘stati fortezza’. Ottime condizioni per attrarre investimenti significano riduzione delle tasse sui profitti e sulle rendite e riduzione delle tutele dei lavoratori. Mentre per quanto riguarda la forza lavoro alcune statistiche suggeriscono che senza immigrazione molte nazioni europee non potrebbero sostenere la crescita necessaria per conservare lo status di stati ricchi; in Germania, per esempio, attorno all’anno 2030 andranno in pensione il doppio delle persone che faranno ingresso nel mondo del lavoro.55M. Popp, Interview on German Demographics, Immigration and Integration, «Spiegel Online», 5 June 2014.
 Si tratta di un programma politico sclerotico dettato da necessità legate al consenso: nei confronti del capitale si pongono in essere pratiche e strategie cosmopolitiche, verso la forza lavoro nazionaliste.

La globalizzazione ridisegna così la mappa mondiale, con o senza confini, in base alle politiche messe in atto dai governi circa la mobilità del capitale e del lavoro. Il rischio è quello che si instauri tra gli stati sovrani una concorrenza al ribasso che tenda alla realizzazione della massima mobilità per il capitale e minima per il lavoro.

La globalizzazione, però, essendo essenzialmente fondata sul concetto di mobilità produce un effetto universale che può essere compreso a partire dalla dicotomia centro-margine. Non si tratta di una distinzione di natura geografica, quanto spaziale. Una volta definita la superficie, e sopra abbiamo sostenuto essere piatta, è possibile osservare diversi nodi che possiamo definire centri e delle aree tutt’attorno definibili come margini. Proviamo a comprendere la dinamica che esiste tra centro e margine. Per fare ciò possiamo partire dalla formulazione fisica del concetto di velocità, ovvero quello di una grandezza definita come il tasso di cambiamento della posizione di un corpo in funzione del tempo. La velocità di cui parliamo è quella con cui avviene lo spostamento di merci, servizi, capitali e persone. In base al grado di ‘resistenza dei luoghi’, ovvero quello di sopportare la tensione provocata da questa velocità, si delineano i centri e i margini. I centri assumono la conformazione di cluster, i margini di periferia. Non ci riferiamo propriamente ai cluster industriali o alle periferie nelle città, utilizziamo questi termini per indicare un diverso grado di concentrazione, connessione e interazione tra individui, aziende e stati.

Tra centro e margine esiste un movimento unidirezionale di impoverimento che drena risorse umane e monetarie e materie prime dal margine a favore del centro. In questo senso può essere letto l’allargamento prima a sud (Grecia, Portogallo, Spagna tra il 1979 e 1985) e poi a est dell’Unione Europea (Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Ungheria, Lettonia, Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia tra il 2004 e il 2007). Un’analisi superficiale ci dice che ai nuovi stati membri l’ingresso abbia garantito stabilità, prosperità e maggiore libertà, mentre ai vecchi membri nuovi mercati. È vero che i cosiddetti PIGS hanno sicuramente beneficiato di momenti di crescita euforica grazie all’ingresso di capitali provenienti dal cuore dell’Europa, Germania su tutti, ma così facendo si sono esposti all’exit option che il potere economico fondato sulla libera circolazione del capitale può sempre esercitare, vedi crisi 2007. Ovvero la possibilità di chiudere i rubinetti del capitale salvo che i governi non siano disposti a privatizzare, smantellare e tagliare la sfera pubblica in nome di una millantata efficace austerità.

Electricity consumption per country map.

L’allargamento a Est, proprio per i Paesi coinvolti, presenta delle caratteristiche diverse. Le modalità con cui è stato negoziato l’ingresso di questi Paesi hanno visto crescere il ruolo centrale della Commissione Europea, che non è un organo democraticamente eletto. La Commissione, seguendo un principio di differenziazione, prese in considerazione le domande singolarmente, e non trattando con gruppi di Paesi in stretto rapporto l’uno con l’altro, aumentando la concorrenza e il timore di alcuni Paesi di rimanere indietro rispetto ad altri; di fatto frammentando il fronte ne ha indebolito il potere contrattuale. Le negoziazioni con i Paesi dell’Est sanciscono il maggior favore che esiste per la mobilità del fattore capitale rispetto al fattore lavoro. Mentre le lobby commerciali spingevano per adeguare standard economici e amministrativi per aprire il mercato orientale alla concorrenza delle aziende dei Paesi membri più vecchi, questi stessi stati chiedevano delle garanzie affinché la mobilità dei lavoratori provenienti dall’Est venisse limitata. I nuovi Paesi membri dovettero attendere 7 anni prima che venisse riconosciuta totale libertà di movimento ai propri cittadini.66Cf. L. Ypi, Il problema dell’allargamento dell’Unione Europea, «Treccani», 2009.

US high-income effective tax rates.

Questa dinamica esistente tra centro e margine è ammantata, a volte, da una retorica filantropica che nasconde un più sincero e sottile atteggiamento post-colonialista. Per esempio, l’accesso a internet per tutti è sicuramente auspicabile, ma allo stesso tempo bisogna interrogarsi circa il significato che un tale programma comporta. Il progetto Internet.org presentato da Facebook come la nuova rampa d’accesso a internet rappresenta l’esempio perfetto per capire come il centro fondi la propria ricchezza sullo sfruttamento del margine. Internet.org è il progetto di Facebook e di alcuni colossi della tecnologia e della telefonia mobile per portare internet in aree del mondo in cui non esiste connessione a banda larga. Si basa su una versione semplificata di internet che funziona tramite alcune applicazioni progettate per essere compatibili con dispositivi elettronici non di ultima generazione. Grazie all’accordo con i fornitori di servizi telefonici, che mettono a disposizione le reti mobili, è consentito l’uso gratuito di alcuni servizi considerati essenziali. A parte alcune applicazioni veramente utili, Internet.org fornisce solo Facebook e quegli altri servizi che sono d’accordo a fare di Facebook l’intermediario, per tutto il resto bisogna pagare. E se non è chiaro se i beneficiari di Internet.org possano godere di internet allo stesso modo di come avviene in Europa o negli Stati Uniti, è sicuro che Facebook realizzi il suo scopo principale, ovvero quello di immagazzinare dati e informazioni che riguardano milioni di nuovi utenti. E poi basta guardare la lista dei 49 paesi in cui è stato lanciato per porsi dei dubbi circa l’effettiva bontà del progetto.77Facebook, Internet.org. Angola, Benin, Cape Verde, Democratic Republic of the Congo, Gabon, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Iraq, Kenya, Liberia, Madagascar, Malawi, Mauritania, Mozambique, Niger, Nigeria, Republic of Congo, Rwanda, Senegal, Seychelles, South Africa, Tanzania, Zambia, Bangladesh, Cambodia, Indonesia, Maldives, Mongolia, Myanmar, Pakistan, Philippines, Thailand, Timor-Leste, Vanuatu, Aruba, Barbados, Bolivia, Bonaire, Colombia, Curaçao, El Salvador, Guatemala, Jamaica, Mexico, Panama, Peru, Suriname, Trinidad, Tobago.

La dialettica centro-margine e il movimento unidirezionale di impoverimento che ne deriva si inseriscono all’interno di una retorica politica che innalza l’egalitarismo a scopo. Il risultato non può che essere formale: accesso a internet per tutti ma assenza di net neutrality, dispositivi elettronici e personal computer a prezzi bassi ma disuguaglianza digitale nelle possibilità di utilizzo.

In questa analisi, per quanto limitata, si è provato a decostruire il fenomeno della globalizzazione nelle sue componenti e dinamiche essenziali. Abbiamo provato a costruire una narrazione che appoggiandosi a esempi storici non si limitasse a essere descrittiva. Si legge tra le righe una critica radicale alle ragioni e alle modalità con cui viene condotto il processo di globalizzazione in atto. Ciò non toglie che è necessario mantenere un atteggiamento realistico per affrontare le questioni che derivano da una tale critica. Che agire politico immaginiamo di qua a venire? Che forme di lotta e resistenza possono essere praticate in un mondo piatto percorribile alla velocità di 40 GB/s? Una volta distrutti i valori su cui le multinazionali e il capitale hanno prosperato in che futuro crediamo?

Age structure of the national and non-national populations EU-28 – 2014.

I movimenti No Global, che da Seattle ’99 si battono per denunciare lo strapotere delle multinazionali, utilizzano un linguaggio stantio e rimangono intrappolati nella dialettica della lotta di classe, senza considerare gli spazi e i linguaggi che l’innovazione tecnologica ha aperto. Qualsiasi movimento rivoluzionario nella sua opera distruttiva pone esso stesso i valori del nuovo ordine costituente.88Cf. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo: Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milan 2016.
Ha gioco facile il potere economico capitalista a screditare i movimenti anti-globalizzazione; mettendo in scena una contro-narrazione della globalizzazione più efficace e più accattivante relega questi movimenti a un ruolo antagonista. È vero che il libero commercio ha ridotto la povertà.99Cf. M. Le Goff, R. Jan Singh, Can Trade Reduce Poverty in Africa?, «The World Bank – Economic Premise», 2013.
 È vero che aumentando la concorrenza tra aziende i consumatori beneficiano di maggiore scelta e prezzi più bassi. È vero che ha ridotto le distanze e aumentato la velocità delle comunicazioni. Ma è anche vero che la globalizzazione, aprendo il mercato alla concorrenza mondiale, ha reso socialmente più accettabile inquinare per far fronte alle necessità produttive. Ha esposto gli stati nazionali al ricatto del capitale. Ha creato piccoli centri iper-connessi e iper-sviluppati ed enormi margini degradati e sottosviluppati.

La disuguaglianza, non solo quella economica, è lo sfondo sul quale si stagliano i discorsi fin qui fatti. Non bisogna cadere in errore e chiedersi se la globalizzazione abbia aumentato la disuguaglianza; la domanda è mal posta. La disuguaglianza ha radici politiche che sono individuabili nell’aver accettato incondizionatamente gli assunti neoliberisti: privatizzare, deregolare, detassare. Partendo da ciò che non ha funzionato a livello di governo dell’economia globale e dallo stato dell’avanzamento tecnologico contemporaneo è possibile costruire una narrazione che proponga un’alternativa individuale e collettiva del nostro agire politico.

A livello individuale è possibile sfruttare le possibilità che derivano da una tale iper-connessione e facilità di movimento. Parlare di un ruolo dell’intellettuale è anacronistico e oltremodo noioso. Tutt’al più riteniamo sarebbe utile tornare a credere nelle individualità, se non altro in contrapposizione all’egalitarismo formale imperante. Assistiamo alla condanna di tutto ciò che non è slim, smart, easy, ma dietro a questi ammonimenti si nasconde la paura verso le argomentazioni complesse, i sistemi di pensiero, le analisi astratte. La rivoluzione digitale, internet, i social networks hanno ridisegnato lo spazio all’interno del quale un’individualità pensante, un intellettuale, deve operare. In questa fase della globalizzazione che viviamo è l’individuo, in qualità di driver di questo processo, a dover innescare il cambiamento. Nonostante il numero dei nativi digitali aumenti, è ancora molto accentuata la differenza tra chi riesce a padroneggiare la tecnologia digitale, al di là delle funzioni standard imposte dal produttore o dal fornitore del servizio, e chi, invece, è succube della tecnologia stessa. L’individuo deve agire per ridurre la distanza tra chi sa usare la tecnologia e chi ne è semplicemente succube. Essere il collegamento tra i centri che producono sapere e conoscenza, in particolare quella relativa all’utilizzo della tecnologia, e i margini dove il sapere e la tecnologia diventano esclusivamente beni di consumo. In questo spazio si deve costruire una pratica tridimensionale basata sull’indipendenza dalle regole del mercato, la libertà di pensiero, la militanza politica: disinnescare il dispositivo di potere che ci vuole esclusivamente consumatori. A livello pratico, ciò si concretizza in un continuo e incessante processo di disvelamento delle ragioni vere che stanno dietro alle scelte di governo, dei meccanismi di funzionamento delle innovazioni tecnologiche, del programma politico del capitale. L’individuo che trasmette informazioni dal centro verso il margine s’innalza a strumento, ed è in questo processo che scopre egli stesso la propria essenza, preparandosi all’incontro con le altre individualità.

A livello collettivo è opportuno sviluppare la consapevolezza dei confini che racchiudono questa comunità. Accorgersi di essere il 99% non è impresa facile. Questa possibilità è osteggiata dal capitale che nella retorica dell’egalitarismo formale ha trovato lo strumento per impedire il formarsi di questa consapevolezza. Esistono esempi plastici della retorica dell’egalitarismo formale, uno su tutti l’iPhone. Esso rappresenta plasticamente l’assunto liberale per il quale siamo tutti uguali. Tutti possono acquistare un iPhone, come se fosse una livella della disuguaglianza. In realtà non è nel consumo che esperiamo la vera disuguaglianza. Ancora una volta bisogna puntare la lente d’ingrandimento sui tre assunti neo-liberisti: privatizzare, deregolare, detassare. E chiedersi cui prodest? Sono i detentori del capitale che beneficiano dello smantellamento del settore pubblico, essendo gli unici a potersi permettere di sborsare cifre necessarie per acquisire beni pubblici. Sono le multinazionali e l’1% a godere maggiormente dei benefici derivanti dalla detassazione, anche grazie all’effetto indiretto che ne deriva da minori risorse pubbliche da destinare allo stato sociale. E ancora, sono le multinazionali e i detentori del capitale a godere dei benefici che derivano da regole per investimenti poco stringenti, senza contare che spesso questi processi di deregolamentazione hanno riguardato le tutele del lavoro e gli standard ambientali. A livello collettivo bisogna invertire questo processo. Ciò non significa ritornare a nazionalizzare beni privati, è invece più utile ridefinire la nozione di bene pubblico nella società contemporanea, uno su tutti i dati che produciamo con le nostre interazioni su internet. Sostenere un’agenda politica dove sia prevista una tassazione molto più alta su rendite e capital gain. Promuovere politiche di riforma delle leggi che regolano il mercato del lavoro, l’immigrazione e l’ambiente. Tutto ciò richiede un coordinamento e una strategia transnazionale e cosmopolita che riesca a mettere insieme il 99% al di là degli stretti interessi nazionalistici, come per esempio la concorrenza al ribasso per attrarre investimenti da parte di capitali stranieri. Perché porsi la domanda se la globalizzazione sia giusta o sbagliata non centra il problema. Questo l’1% l’ha ben capito, e il 99%?

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di Leonardo Ruvolo
  • Leonardo Ruvolo si laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Palermo e consegue successivamente un Master in Diplomazia presso l' ISPI - Istituto per gli Studi Politici Internazionali a Milano. È fondatore e curatore del progetto di ricerca artistica Landescape del Museo d'Arte Contemporanea di Alcamo . È attivista di Macao, centro per le arti, cultura e ricerca di Milano. Ha fondato il collettivo di scrittura performativa Youngboyswritinggroup. Attualmente vive ad Alcamo dove ha fondato con altri collaboratori Posto Segreto.
Bibliography

U. Beck, Macht und Gegenmacht im globalen Zeitalter. Neue weltpolitische Ökonomie, Suhrkamp, Frankfurt 2002.
T. Friedman, The world is flat, Straus and Giroux, New York 2005.
A. Gunder Frank, Reorient: Global economy in the Asian age, U.C. Berkeley Press, 1998.
M. Heidegger, Der europäische Nihilismus, 1967.
A. Konstam, The History of Shipwrecks, Lyons Press, New York 2002.
P. Krugman, M. Obstfeld, M. Melitz, International Economics: Theory and Policy, Pearson, USA 1998.
M. Le Goff, R. Jan Singh, Can Trade Reduce Poverty in Africa?, «The World Bank – Economic Premise», 2013.
F. Nietzsche, Il nichilismo europeo: Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milan 2016.
J. E. Stiglitz, The price of inequality: How today’s divided society endangers our future, WW Norton & Company, New York 2012.
 
SITOGRAFIA
M. Crucini, G. Smith, Early globalisation and the law of one price, «VOX» 5 Sept. 2016.
Facebook, Internet.org.
T. Friedman, The world is flat 3.0, MIT video, 28 Nov. 2007.
D. Harvey, Neoliberalismi is a Political Project, «Jacobin», 23 July 2016.
M. Popp, Interview on German Demographics, Immigration and Integration, «Spiegel Online», 5 June 2014.
L. Ypi, Il problema dell’allargamento dell’Unione Europea, «Treccani», 2009.