Né la Terra, né il Sole, né niente altro sono al centro di qualcosa: gli astri sono tutti ugualmente granelli nel mare dell’infinito. Non c’è nessun centro di alcun tipo.
G. Dalla Casa, Ecologia profonda
Timothy Morton parla della fine del mondo, di un particolare passaggio nel percepire il mondo, la Natura, la Terra, da background a foreground, confondendo così le categorie moderne in cui il progresso storico dell’uomo possedeva un passivo e immutabile paesaggio collinare, montuoso e marino. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito all’affermarsi di un nuovo paradigma che non pone più l’uomo al centro dell’universo teorico e politico, ma piuttosto lo posiziona in una zona periferica messa in pericolo dai cambiamenti climatici, in particolare dal global warming. Questo pellegrinaggio dal centro alla periferia ha avuto nella storia del pensiero alcuni precorritori che tentarono di mettere in guardia l’uomo, raccontando l’avvio di azioni violente promosse da industrie private e organizzazioni statali. Parlando dell’inizio del dissenso ecologista nato nel 1960, si prenderà in esame il caso studio della deep ecology come portavoce del pensiero ecocentrico contemporaneo. Mettendo da parte una prospettiva culturale prettamente umanistica, i teorici dei movimenti ecologisti degli anni ’70 prelevarono dalle strutture organiche modelli di organizzazione applicabili nei diversi campi del sapere. Presero così forma le odierne tendenze di ricerca multidisciplinare, le cosiddette ‘nuove alleanze’, promosse dai teorici della complessità. Si presenta infine la recente riflessione sviluppata da Jane Bennett per tentare di delineare una possibile ecologia politica in seno al consolidarsi, nel panorama mondiale, di un ritorno alla riflessione sulla vitalità della materia, il Vital Materialism.
La nascita del pensiero ecologico, “Silent Spring” di Rachel Carson e i “Limiti dello sviluppo” del Club di Roma.
Il movimento ecologico ha avuto come luoghi-chiave tre regioni che in periodi differenti contribuirono a svilupparne i termini fondamentali. Stati Uniti, Norvegia e Australia sono i Paesi in cui progressivamente nasce il dissenso, la proposta programmatica e le azioni concrete di protezione di specifici luoghi naturali. Nel 1962, la biologa Rachel Carson pubblica Silent Spring, primo testo a denunciare i danni ambientali provocati dall’utilizzo di fitofarmaci nel programma di miglioramento e intensificazione delle produzioni agricole statunitensi. La biologa, al di là del racconto dettagliato delle conseguenze scatenate dalle diverse sostanze, si fa promotrice di una visione orizzontale delle relazioni che intercorrono fra uomo e natura, iniziando un’opera di demolizione dell’antropocentrismo proprio della società industriale e cercandone, nel buon senso comune, le maggiori motivazioni. Siamo solo agli inizi di quello che diventerà un complesso movimento di pensiero, qui abbozzato per porre attenzione a fatti rilevanti per le comunità locali raccontate. L’interesse di Carson non è delineare un pensiero, ma mostrare piuttosto la semplicità e la ragionevolezza di alcune conclusioni sul rapporto che intercorre fra uomo e natura. Ciò che stupisce è la lucida consapevolezza dell’azione ormai indelebile dell’uomo, caratterizzata dalla rapidità dei mutamenti immessi. Già in questo testo sono presenti riflessioni che oggi collegheremmo ai teorici dell’Antropocene. Così come oggi, Carson parla di temporalità che vanno a scontrarsi: una geologica della natura e una storica dell’uomo11«La rapidità dei mutamenti in atto e la velocità con cui si producono situazioni sempre nuove derivano non già dal susseguirsi degli eventi naturali, ma dalla smania violenta e avventata dell’uomo. Le radiazioni non sono più soltanto costituite dalle radiazioni di fondo sprigionate dalle rocce, o dal bombardamento di raggi cosmici, o dalle radiazioni ultraviolette della luce solare che esistevano anche prima della comparsa di qualsiasi germe di vita sulla terra; sono ora il frutto innaturale della manomissione dell’atomo da parte dell’uomo» (R. Carson, Primavera Silenziosa, Feltrinelli, Milano 1966, p. 13).
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Il pensiero ‘ecologista’ nasce ufficialmente all’inizio degli anni ’70, con la pubblicazione del rapporto del Club di Roma dal titolo I limiti dello sviluppo. Pur con dei limiti concettuali figli di un’impostazione di studio umanistica e antropocentrica, per la prima volta viene riconosciuta e messa per iscritto la necessità di fermare il progresso senza regole. Uno dei capisaldi del pensiero modernista viene allora messo in discussione, sentendo l’urgenza di riequilibrare il rapporto fra uomo e natura.
Il rapporto sui limiti dello sviluppo fu commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma, un’associazione non-profit, fondata nel 1968 dall’imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, che raccoglieva scienziati, economisti, uomini di affari, attivisti dei diritti civili, dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti e cinque i continenti, con lo scopo di individuare e analizzare i principali problemi che l’umanità si sarebbe trovata ad affrontare. Il documento si limitò però a registrare una serie di problematiche, ponendo il XXI secolo come momento limite entro cui intervenire nell’attuare quei cambiamenti radicali che consentissero di tutelare la vita umana sul pianeta. I problemi rilevati furono la sovrappopolazione, le migrazioni in Occidente concluse nei campi-profughi, la sparizione delle culture originarie per il primato di quella occidentale, così come le deforestazioni, le desertificazioni e l’estinzione di specie ed ecosistemi. Il rapporto fu fondamentale per connettere i problemi e intenderne le cause, senza tuttavia comprendere che la loro origine muoveva da un’unica grande problematica: l’adozione, da parte dell’Occidente, di una prospettiva culturale antropocentrica ed etnocentrica.
Nel suo testo, Verso un’ecologia profonda, Matteo Andreozzi delinea un altro aspetto, e cioè che l’evoluzione del ‘pensiero ecologico’ risiede oggi nel movimento ambientalista che «considera ancora la Natura come un ‘bene dell’uomo’ e s’impegna, infatti, a proporre principalmente utopiche forme di sviluppo sostenibile che soddisfino le esigenze del presente senza compromettere la possibilità, per le future generazioni, di soddisfare i propri bisogni»22M. Andreozzi, Verso una prospettiva ecocentrica, Led, Milano 2011, p. 119.
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Ciò che Andreozzi sostiene seguendo il pensiero di Dalla Casa33G. Dalla Casa, Ecologia Profonda, Mimesis, Milano 2011.
è che non si potrà mai attuare una completa proposta di mondo sostenibile senza prima demolire il pensiero occidentale antropocentrico e formare un nuovo paradigma culturale: «Diversamente dai movimenti ecologisti e ambientalisti di stampo antropocentrico, l’ecologia profonda si propone oggi di agevolare questo cambiamento grazie a una riflessione filosofica di stampo ecocentrico il cui principale obiettivo sia quello di porre – o per meglio dire disperdere – il centro dello sguardo ermeneutico del paradigma di pensiero occidentale in una Natura intesa come unica comunità ecologica di organismi interdipendenti. Il suo centrismo si distingue dunque da quello proposto da movimenti antispecisti quali il sensiocentrismo o il biocentrismo, in quanto non interessa soltanto gli esseri sensibili e non semplicemente i singoli esseri viventi»44M. Andreozzi, cit., p. 121.
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Dai primi tentativi di registrazione dell’intervento dell’uomo sulla Terra, emerse perciò una necessità di analisi e raccolta di dati che potessero testimoniare la particolare forza dell’azione dell’essere umano. Da una parte, biologi come Rachel Carson s’impegnarono a denunciare le politiche di sfruttamento dei territori che provocavano danni non solo all’ambiente ma anche all’uomo. Parallelamente, il Club di Roma apparve come una prima presa di coscienza istituzionale delle conseguenze di una serie di scelte di governo e di industrie private. Quello che accadrà negli anni successivi sarà la costruzione di un pensiero filosofico capace di sostenere le lotte pratiche, con il fine di cambiare la mente e le abitudini culturali dell’uomo.
Il caso della “Deep Ecology”: Arne Næss e il paradigma ecocentrico.
Se il termine ‘ecologia’ fu coniato nel 1869 dal biologo tedesco Ernst Haeckel55Ernst Haeckel fu il primo a porsi in una prospettiva che accomunasse tutte le forme di vita. L’ecologia nacque inizialmente come branca della biologia, per poi svilupparsi in modo autonomo e multidisciplinare.
, una prima forma di ecocentrismo etico si diffuse nel 1950 grazie al teorico Aldo Leopold, che riconobbe scientificamente l’interconnessione fra specie viventi, esseri umani ed ecosistemi. La deep ecology, diversamente dai tentativi teorici precedenti, fu tuttavia una vera e propria corrente culturale, concretizzandosi in un movimento sociale che pose le basi per l’affermarsi dell’atteggiamento ecocentrico nei diversi campi del sapere. La sua proposta fu essenzialmente quella di abbandonare ogni punto di vista culturale sul mondo, per considerare l’uomo in modo più ampio. Abbandonando la tesi di un’ipotetica ‘cattiveria’ connaturata nell’uomo, il movimento ebbe come obiettivo quello di portare le persone a riconoscere che le diverse crisi del mondo contemporaneo dipendessero da un’errata interpretazione antropocentrica del rapporto fra l’uomo e il mondo (non solo ridotto agli esseri viventi, ma comprendendo ogni sua parte ed elemento). La deep ecology, pur presentando una precisa posizione ontologica ed esistenziale, propose fin dall’inizio un approccio gnoseologico difficilmente riducibile ai termini filosofici classici. Le modalità conoscitive descritte si dirigono infatti verso una consapevolezza intuitiva, traducibile in un’esperienza emozionale e soggettiva. Secondo il suo fondatore, Arne Næss, per definire filosoficamente il movimento occorrerebbe estendere il significato del termine ‘filosofia’ anche a quel «codice individuale di valori e visioni del mondo che orienta le decisioni di una persona»66A. Næss, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, a cura di E. Recchia, A. Airoldi e G. Salio, RED, Como 1994, p. 41.
. Come scrive Andreozzi: «In campo ecologico, nel primo caso si ha che fare con uno studio descrittivo, non prescrittivo, adatto a una ricerca di tipo accademico dei problemi comuni sia all’ecologia sia alla filosofia. Nel secondo bisognerebbe invece parlare più propriamente di ecosofia, e cioè di una visione (o sistema) globale di tipo filosofico che trae ispirazione dalle condizioni di vita dell’ecosfera e che mira a costituire la base filosofica che permette ad un individuo di uniformare la propria azione ai principi o alla piattaforma dell’ecologia profonda»77M. Andreozzi, cit., p. 124.
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Parallelamente a uno studio tradizionale e descrittivo sulle problematiche legate all’eco-filosofia, il movimento riteneva importante affiancare una serie di ecosofie88Il termine ecosofia è stato utilizzato anche all’interno della riflessione del filosofo francesce Felìx Guattari, in particolare nel testo Le tre ecologie. L’umanità e il suo destino, Sonda, 1991.
, visioni filosofiche d’insieme, soggettivamente formulate e praticate concretamente, aventi come comune denominatore il superamento della società antropocentrica contemporanea. Le ecosofie dei diversi autori attivi nella deep ecology partirono da tre intuizioni proposte dallo stesso Næss: la concezione relazionale della realtà, la difesa dell’uguaglianza biocentrica, la convinzione che l’essere umano possa realizzarsi solamente attraverso una relazione di identificazione con il mondo naturale.
L’espressione ‘ecologia profonda’ comparve per la prima volta nel 1973, in un articolo di Næss, The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movements: A Summary, scritto per la rivista «Inquiry». Obiettivo dell’articolo era quello di delineare la differenza fra i primi movimenti ecologisti degli anni ’70 (il Club di Roma, ad esempio), considerati dal filosofo promotori di una shallow ecology, e l’esigenza di elaborare una base teorica su cui si potessero incontrare le diverse correnti di pensiero impegnate nello smantellare l’antropocentrismo occidentale. L’ecologia profonda mirava a porsi come un quadro di riferimento per i sistemi ecosofici che ognuno avrebbe potuto formulare in autonomia. Scrive Næss: «Invece di insistere, in modo più o meno arbitrario, sul fatto che esiste un’unica interpretazione possibile per un certo enunciato, è opportuno, come avviene nelle scienze naturali, lasciare spazio a diverse opzioni, finché ciò presenta un vantaggio euristico»99A. Næss, cit., p. 48.
. La deep ecology si propose dunque di sradicare l’antropocentrismo dalla cultura occidentale, favorendo una pluralità il più possibile vasta di interpretazioni dei propri princìpi ecocentrici, e guardando alla loro diversità come un vantaggio per l’affermarsi dell’ecocentrismo culturale. Fu così che, nel 1985, i due principali discepoli di Næss – Bill Devall e George Sessions – aprirono il loro testo, Deep Ecology. Living As If Nature Mattered, con gli otto princìpi1010A. Næss, G. Sessions Basic Priciples of Deep Ecology.
di quella che fu chiamata la ‘proposta di una piattaforma dell’ecologia profonda’.
La piattaforma e le ecosofie producibili partendo dai suoi princìpi miravano a modificare la prospettiva interpretativa di ognuno sul mondo, tentando di con-fondersi con l’osservato, guardando questo come elemento in stretta connessione e interdipendenza con l’uomo, e percepibile tramite una certa esperienza fenomenologica del mondo.
«[…] Forse che il regno dell’esperienza, carico di valori, spontaneo ed emozionale non è una fonte di conoscenza della realtà altrettanto autentica quanto la fisica matematica? […] Il movimento dell’ecologia profonda potrebbe trarre profitto da una maggiore considerazione dell’esperienza spontanea, da quella che in gergo filosofico è chiamata la “prospettiva fenomenologica”»1111A. Næss, cit., p. 36.
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Guardando anche al lato più individuale, vale a dire l’esperienza emozionale di ognuno, Næss pensò fosse possibile coniugare le conoscenze scientifiche e filosofiche con il comportamento pratico ed etico. Il risultato sarebbe potuto essere la nascita di un nuovo paradigma che in grado di contrapporsi a quello contemporaneo. Ciò che rende la deep ecology un caso di estrema rilevanza è la propria riflessione sul paradigma, inteso come una costellazione di punti provvisori (concetti, valori, tecniche) condivisi da una comunità scientifica, così come una costellazione di valori e concetti, condivisi da una comunità sociale, che consentono la formazione di una particolare visione della realtà, che rappresenta la base del modo in cui quella comunità si organizza.
L’avvento dell’Antropocene, Jane Bennett e le “political ecologies”.
Fra le diverse voci che nel contemporaneo parlano di ecologia, Jane Bennett è una delle più sensibili soprattutto in relazione alle problematiche politiche che tale pensiero implica. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito nel mondo filosofico al diffondersi del fenomeno del New Materialism (Speculative Realism; Nuovo Realismo, nella sua versione italiana). Base comune di ognuna di tali declinazioni è la messa in discussione della rivoluzione copernico-kantiana che pone il soggetto umano come ultimo verificatore sulla conoscenza della realtà. Promuovendo un anti-antropocentrismo in difesa del lato ‘nascosto’ degli oggetti, anziché sospendere la domanda ontologica, dunque diversamente da Edmund Husserl1212Nella sua fenomenologia, Husserl opera un epoché, una sospensione di giudizio sulla domanda ontica che non premette né una negazione del mondo né una visione scettica su di esso. La sospensione è un gesto libero, un atteggiamento intellettuale nei confronti della parte di mondo non provata, nascosta al di là dei fenomeni esperiti.
, questi intellettuali ripropongono con urgenza la ricerca ontologica manifestando un’attenzione particolare nei confronti dell’ecologia e di una ritrovata autonomia di cose e oggetti non umani. Tra i temi di dibattito affrontati in questi ultimi anni vi è l’avvento dell’Antropocene, attuale presunta nuova era geologica di cui l’uomo è co-responsabile e co-artefice nelle principali modifiche dell’atmosfera e, di conseguenza, degli oggetti naturali1313Graham Harman parla di anthropocene objects, oggetti nei quali l’uomo ricopre la doppia posizione di ingrediente e osservatore/ricevente.
. Tale tema, affiancato dagli allarmismi verso i cambiamenti climatici in corso, ha rafforzato l’esigenza di un mutamento di prospettiva, andando a costituire per molti quel cambio di paradigma auspicato precedentemente dai movimenti ecologisti degli anni ’70.
Jane Bennett comincia la sua riflessione constatando come la serie di questioni critiche di tipo climatico non possa esimere gli studiosi dall’iniziare un nuovo ragionamento sugli oggetti non umani. I cambiamenti climatici, in particolare il global warming, sono diventati quelli che Timothy Morton definisce hyperobjects: oggetti sia discorsivi sia materiali, non propriamente umani né naturali che quotidianamente sono percepiti inconsapevolmente da ognuno, di cui si è affetti ma di cui non si possono cogliere pienamente natura e cause1414«Hyperobjects have numerous properties in common. They are viscous, which means that they ‘stick’ to beings that are involved with them. They are nonlocal; in other words, any ‘local manifestation’ of a hyperobject is not directly the hyperobject. They involve profoundly different temporalities than the human-scale ones we are used to. In particular, some very large hyperobjects, such as planets, have genuinely Gaussian temporality: they generate spacetime vortices, due to general relativity. Hyperobjects occupy a high-dimensional phase space that results in their being invisible to humans for stretches of time. And they exhibit their effects interobjectively; that is, they can be detected in a space that consists of interrelationships between aesthetic properties of objects. The hyperobject is not a function of our knowledge: it’s hyper relative to worms, lemons, and ultraviolet rays, as well as humans». T. Morton, A Quake in Being, in Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World, University of Minnesota Press, 2013, p. 10.
. Tali fenomeni globali invitano perciò a tornare a riflettere sulla materia, eliminando le dualità proprie della tradizione moderna, come umano/animale, vita/materia, organico/inorganico, con il fine di ripensare la passività materiale in ciò che la filosofa definisce una vital materiality. Scopo di Bennett è sia «to paint a positive ontology of vibrant matter, which stretches received concepts of agency, action, and freedom sometimes to breacking point», sia «to sketch a style of political analysis that can better account for the contributions of non humans actants»1515J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham and London, 2010, p. XI.
. Parte fondamentale della sua teoria è l’appropriazione della riflessione di Bruno Latour riguardo agli actants: sorgenti di azione che possono essere umani e non umani, possono fare cose, generando una differenza, producendo effetti, alterando gli eventi. La materia è perciò vitale in quanto capace di produrre affezioni, nel senso spinoziano del termine. È così che il mondo circostante non viene visto come uno sfondo passivo, ma come un sistema di relazioni, un tessuto di agenti che si condizionano a vicenda, manifestando la propria forza o “agency”1616Per Spinoza il mondo come manifestazione di un Dio monistico è un sistema di forze in costante affezione l’una con l’altra. Per Bennett, fondamentale è il concetto di conatus, applicabile secondo la filosofa anche all’inorganico.
. Dunque, perché parlare di vitalità della materia proprio in relazione dell’ecologia?
«Because my hunch is that the image of dead or thoroughly instrumentalized matter feeds human hubris and our earth-destroying fantasies of conquest and consumption. It does so by preverting us from detecting (seeing, hearing, smelling, tasting, feeling) a fuller range of the nonhuman powers circulating around and within human bodies. These materials powers, which can aid or destroy, enrich or disable, ennoble or degrade us, in any case call for our attentiveness, or even “respect”»1717J. Bennett, cit., p. IX.
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È dunque la considerazione di una natura inanimata, quella che negli anni ’70 avrebbe chiamato ‘l’impostazione antropocentrica occidentale’, che ha impedito lo svilupparsi di adeguate forme di ecologia e modi di produzione e consumo più sostenibili materialmente. Il passo fondamentale operato da Bennett sta nell’aprire e certamente non risolvere un dibattito sulle political ecologies. Il secondo obiettivo del suo testo, Vibrant Matter (2010), è infatti dimostrare come, osservando lo sfondo inorganico e gli altri esseri naturali dal punto di vista di agenti, si possa modificare il nostro agire politico e così aprire alle questioni sorte dalle nuove urgenze climatiche, politiche e sociali.
La prima domanda da porsi è se possiamo considerare vermi, alberi o l’alluminio partecipanti all’interno della sfera pubblica. Per sottoporsi questa domanda è necessario capire se il sistema politico si può associare per forma e struttura a un ecosistema. Bennett risponde a tale questione riproponendo il pensiero del filosofo politico John Dewey che in The Public and Its Problems presenta il pubblico come una confederazione di corpi, tenuti insieme non tanto da una scelta ma dall’emergere di un problema, un pericolo che necessita una risposta collettiva. Il campo politico è così ecologico, in quanto ogni azione e formazione temporanea di ‘pubblico’ nasce da una rete di conjoint actions che «gen-erate “multitudinous consequences”, and each of these consequences “crosses the others” to generate its own problems, and thus its own publics or “group of persons especially affected”»1818J. Bennett, cit., p. 101.
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Descrivendo il pubblico come una creazione temporanea di corpi ‘affetti’, l’attenzione si sposta verso quel campo di azioni che possono dar forma ai diversi problemi. In questa rete di agenti, Bennett non può che porre anche il non umano riconoscendolo come elemento fondamentale nella creazione di un circuito politico. Ciò che interessa la filosofa è infatti più l’associazione formale e strutturale dell’ecosistema alla sfera politica, poiché sembra riconoscere il potere e la vitalità di organico e inorganico anche laddove si presuppone l’esclusiva partecipazione umana.
Ma anche presupponendo una dimensione pubblica allargata – il cosiddetto «Parlament of things» di Latour –, sarà necessario porsi una serie di domande tenendo presente che1919Ibid. p. 104.
«The political goal of a vital materialism is not the perfect equality of act ancants, but a polity with more channels of communication between members (Latour calls this a more “vascularized” collective)». Proprio nelle implicazioni politiche dell’ecologia, appare ciò che differenzia la deep ecology dalla proposta di Jane Bennett. Se la deep ecology promuoveva una piattaforma di enunciati, l’elaborazione di ecosofie e la ricerca di un equilibrio con la natura, Bennett, riprendendo il concetto di disruption di Rancière, fa leva sulla materialità, sullo scontro fra corpi e quindi energie fisiche che si manifestano in affezioni. I filosofi che utilizza nella sua bozza di teoria politica guardano al politico come universo ‘estetico’ in cui anche i discorsi e i sistemi di potere sono ridotti e spiegati alla luce di relazioni fra corpi, cioè scambi fisici.
Promuovendo un’eterogenia ontologica, la proposta di Bennett si conclude con la necessità «to invent or reinvoke concepts like conatus, actant, assemblage, small agency, operator, disruption, and the like but also to devise new procedures, technologies, and regimes of perception that enable us to consult nonhumans more closely, or to listen and respond more carefully to their outbreaks, objections, testimonies, and propositions»2020Ibid. p. 108.
. Certamente, riconoscere le materialità non umane come partecipanti di un’ecologia politica non equivale a sostenere che tutto sia sempre partecipante e che tutti i partecipanti siano uguali, ma significa riconoscere la rilevanza politica di tali elementi. Pur sembrando spesso vaghe considerazioni, ciò di cui Bennett parla sono i problemi che inizialmente smuovono a riconsiderare la significanza del contorno, il background della storia dell’uomo, che ora, nell’Antropocene, si è mischiato, eliminando le delimitazioni temporali moderne, gettandoci in un tempo che appare né storico né geologico: «There is definitely something afoot, something about everyday (euro-american) life that is warning us to pay more attention to what we’re doing. There is the call from our garbage: our private and public spaces – houses, apartments, streets, landfills, waterways – are filling up with junk, with vast quantities of disposables, plastic artifacts, old tv’s and devices, clothes, bags, papers, bottles, bottles, bottles. The American television shows ‘Clean House’ and ‘Hoarders’ expose the more extreme versions of this mounting mountain of matter, but it’s everywhere you look, including in the middle of the oceans: ‘SAN JUAN, Puerto Rico – Researchers [have discovered]… a swirl of confetti-like plastic debris stretching over a remote expanse of the Atlantic Ocean. The floating garbage [is]… similar to the so-called Great Pacific Garbage Patch, a phenomenon discovered a decade ago between Hawaii and California…’ (Mike Melia, ‘A 2nd garbage patch, plastic soup seen in Atlantic’, Associated Press, April 15, 2010). A second kind of call is coming from the weather, from volcanos that stop flight traffic across Northern Europe and from hurricanes like Katrina that take down neighborhoods and maybe even George W. Bush. And 24 hour weather reporting and its disaster porn intensifies this call of the wild»2121Vibrant Matters: An Interview with Jane Bennett.
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Caterina Molteni è assistente curatore presso MAMbo Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Bologna. Ha cofondato TILE Project Space nel 2014 e KABUL magazine nel 2016.
M. Andreozzi, Verso una prospettiva ecocentrica, Led edizioni, Milano 2011.
J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham and London, 2010.
R. Carson, Primavera Silenziosa, Feltrinelli, Milano 1966.
G. Dalla Casa, Ecologia Profonda, Mimesis, Milano 2011.
T. Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World, University of Minnesota Press, 2013.
A. Næss, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, a cura di E. Recchia, A. Airoldi, G. Salio, RED, Como 1994.
B. Spinoza, Etica, Editori Riuniti, Roma 2007.
SITOGRAFIA
L. Koot, M. Grootveld, Interview with Graham Harman on the Anthropocene, «Sonic Acts».
G. Harman, Bruno Latour, King Networks (1999), «Kabul Magazine», 13 luglio 2016.
Vibrant Matters: An Interview with Jane Bennett, «Philosophy in a time of error».
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.