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Happy new ears! Il paesaggio sonoro
Magazine, MOBILITY - Part I - Settembre 2018
Tempo di lettura: 16 min
Francesca Vason

Happy new ears! Il paesaggio sonoro

Definizioni, esperienze, visioni e pratiche artistiche in una conversazione estesa con Martina Raponi, Francesco Fonassi e Francesco Giannico.

Martina Raponi – Malieveld – Den Haag – Solo demonstration – May 9th 2016 – View of the field and demonstrator.

 

Questa intervista è nata qualche mese fa a Venezia quando, in occasione della presentazione del suo libro Strategie del Rumore (Auditorium, 2015), ho incontrato Martina Raponi. Discutendo della sua pubblicazione e dei nuovi orizzonti possibili per le pratiche rumoriste, è emersa un’attenzione comune al concetto di paesaggio sonoro, che ha portato alla necessità di approfondire l’argomento coinvolgendo due artisti italiani, Francesco Fonassi e Francesco Giannico (che, oltre a intraprendere un percorso artistico individuale, è co-fondatore di AIPS – Archivio italiano paesaggi sonori).

Sin dalla sua prima apparizione, il «Paesaggio Sonoro» – espressione coniata da Raymond Murray Schafer – è stato contraddistinto da una continuità temporale che lo ha reso estremamente mutevole e del quale tutti noi dobbiamo sentirci co-autori, più o meno volontari e consapevoli. Tale nozione si è prestata e si presta oggi a studi e applicazioni amplissime, a partire dall’analisi del territorio, delle relazioni sociali, da intendere come spazi d’interazione, di conflitto e interferenza, sfociando a un ripensamento percettivo e alla possibilità di ri-immaginare (con «nuove orecchie», come direbbe John Cage) al rapporto e alla localizzazione di due o più corpi in uno spazio. Che potenziale ha, dunque, tale ambito di ricerca? Quali le sue attuali applicazioni? La conversazione che segue tenta di analizzare questi aspetti.

Martina Raponi – Malieveld – Den Haag – Solo demonstration – May 9th 2016 – Demonstrator demonstrating.

Francesco Fonassi: Quando parliamo di paesaggio sonoro dobbiamo considerare che la formulazione della sua teoria e l’ambito di ricerca a cui ha dato avvio nascono proprio da una zona di conflitto socio-culturale riguardante soprattutto l’analfabetizzazione all’ascolto che emerge nei primi anni ’70. Le urgenze, allora – per coloro che ne hanno tracciato le categorie –, erano la pulizia dell’orecchio, l’ecologia acustica e soprattutto la speculazione in ambito musicale. Dal secondo dopoguerra in poi, tutta la ricerca tecnologica e l’utilizzo della tecnica fonica vertono su politiche di controllo del territorio e di sottomissione dell’individuo, attraverso l’imposizione e la scrittura di stati di quiete assordante. È questa consapevolezza che va via via consolidandosi, quantomeno negli studi di settore (Volcler e Goodman, per citare i più noti11Cf. J. Volcler, Le son comme arme, Edition La Découverte, Paris 2011; e S. Goodman, Sonic Warfare: Sound, Affect and the Ecology of Fear, The MIT Press, Cambridge 2010 (N. d. R.)
), che dobbiamo assumere come punto di partenza per iniziare a confrontarci su cosa significhi oggi operare nelle arti sonore e poter elaborare un pensiero critico coerente22F. F.: Non dimentichiamo una controtendenza fondamentale di quello stesso periodo storico (’60-’70) nel quale la psichedelia e il misticismo europeo giocano un ruolo fondamentale nelle culture sotterranee sia in ambito musicale che in ambito parascientifico. I paesaggi cui aspirano queste controculture sono psicofisici. Si attraggono e coincidono, secondo quella che Rupert Sheldrake chiamerebbe una risonanza morfica. Cito apposta il controverso biologo Sheldrake (l’anno scorso il video del suo intervento su TED Whitechapel a Londra fu rimosso, praticamente censurato, dal web) che, sulla strada indicata da Jung e Von Franz, formula la teoria dei campi morfici per la quale la sintonizzazione dei membri di una specie a un campo accessibile ‘per via cerebrale’ può portare alla trasmissione trans-biologica dei caratteri fino alla ridefinizione delle leggi che governano le specie e i sistemi naturali. Penso sia una teoria molto calzante – se declinata in questo senso – e forse ha qualcosa a che fare con quegli stati di coscienza collettiva che vanno a complicare le condizioni in cui l’ascolto e la trasmissione come pratiche consapevoli necessitano di specifiche modalità.
. Proprio negli anni in cui venivano a galla tali teorie, tra il 2008 e il 2012, ho elaborato personalmente una serie di sistemi, gesti e prototipi che ponevano questo tema al centro della mia ricerca fenomenologica sulle soglie acustiche, sull’intensità percepita e sulla permeabilità di figure quali l’attacco e la difesa relazionati all’architettura pre-esistente o configurata al servizio di tali fenomeni.

Francesco Giannico – riprese di La Mezza Stagione – 2012 – photo credits Paola Stasi.

Francesco Giannico: Il potenziale delle indagini sul paesaggio sonoro è altissimo, se ne cogliamo l’aspetto pratico. A cosa serve acquisire maggiore consapevolezza rispetto a ciò che ascoltiamo se non lo traduciamo in una prassi quotidiana? Bisognerebbe persino chiedersi cosa sia un punto di corrispondenza oggettivo. Ad esempio, per me che vivo l’ecologia del suono come base di ispirazione per ascoltare la realtà con orecchie ‘diverse’, viene da considerarla strumento per affrontare le nuove sfide del futuro, come la bioedilizia e le relative scoperte connesse all’ambito dell’acustica architettonica; ma il suono è faccenda troppo importante per lasciarla in mano ai soli addetti ai lavori. Per me, rappresenta da sempre una via per conseguire una presa di coscienza dal basso non dissimile da altri strumenti che possano elevarci culturalmente (e spiritualmente), come il cinema o la letteratura e cosi via. Parlo di un allargamento dell’orizzonte sensoriale e delle nostre capacità percettive per far spazio a una sorta di relativismo acustico. Paroloni per dire semplicemente che i paesaggi sonori non sono altro che insiemi di suoni estratti da un certo contesto di riferimento: se cambia il contesto cambia anche il paesaggio sonoro. L’udito degli esseri viventi lavora benissimo da un punto di vista dell’individuazione dell’ambito di riferimento, permettendoci di ascoltare naturalmente ciò che è più vicino e funzionale alle nostre attività quotidiane.

Alcuni dei workshop in ecologia del suono che ho condotto in questi anni mi hanno fatto capire che l’attitudine a conoscere meglio l’ambiente sonoro in cui viviamo non è un fatto per nulla scontato33Tra i principali progetti: m.E.t.e. (Memoria e Territorio), Castello Episcopio di Grottaglie (TA), che ha riguardato la creazione di un team multidisciplinare per lavorare a una mappa di comunità della cittadina di Grottaglie; workshop Bari Sonora; workshop ‘Sound & Communities’ in collaborazione con la Rome University of Fine Arts in cui abbiamo svolto un lavoro di mappatura sonora all’interno del quartiere pinciano di Roma. I risultati sono poi stati riutilizzati nell’ambito dello Spring Attitude Festival a Roma presso il MAXXI nel giugno scorso durante una performance collaborativa per sole cuffie wireless (N. d. R.).
. E se l’argomento viene sviscerato con un’impostazione troppo accademica il rischio è che si continui a parlare del tema solo tra addetti ai lavori. L’impostazione ludica o para-artistica è quella che preferisco, anche con persone adulte. Dopo una «caccia ai suoni» di un luogo, non c’è niente di meglio di un bel momento performativo collettivo per utilizzare concretamente quel materiale. Alla luce di questi piccoli ma significativi riscontri, la visione di Schafer non mi pare superata, anzi. Probabilmente, bisogna considerare che di pari passo a una lenta ma sempre maggiore presa di coscienza riguardo al tema del paesaggio sonoro c’è stato un peggioramento complessivo del livello di sostenibilità acustica (se prendiamo in esame zone maggiormente antropizzate). La verità è che occorrerebbero piani su larga scala che nessun governo ha voglia di intraprendere e finanziare in periodi di crisi economica, pertanto l’unica speranza è di affidarsi a un’opera di sensibilizzazione che sappia dare frutti in un futuro non troppo lontano.

Martina Raponi – Malieveld -Den Haag – Solo demonstration – May 9th 2016 – Detail.

Francesco Fonassi: È difficile distinguere la funzione di semplice medium dall’indagine sulla materia sonora e delle sue meccaniche percettive. Preferisco parlare di campo acustico (sonic field). L’idea di campo viene dalla fisica teorica ma anche dalla biologia e dalla psicologia cognitiva (sono gli stessi anni ’70 in cui Nessier e Gibson revisionano in senso ecologico ed ‘economico’ tutta questa disciplina) e precisa un fare metodico sperimentale che presuppone un operare, un agire all’interno di precise zone (geografiche, morfologiche o mentali) con le proprie leggi, forze ed energie. Quando registriamo e archiviamo un paesaggio sonoro parliamo di registrazione di campo. Quel campo è sempre inquinato dal nostro agire, anche se restiamo in ascolto senza interferire volontariamente. È sempre falsificato dal nostro respiro, dalla nostra messa a fuoco selettiva. Interferiamo con esso e con gli altri corpi all’ascolto (‘ascoltare’ qui è inteso non solo come udire ma, più in generale, come sentire), quindi ne assimiliamo e insieme ne modifichiamo le regole44F. F.: Cf. SFrangiEpistemology of Trasparency, dal catalogo della mostra Open Museum Open City dove due anni fa ho realizzato un intervento architettonico nella Galleria 2 del museo. La parete innalzata a dividere la galleria diventava unità di mediazione fisica tra i corpi che mettevano in risonanza lo spazio (modulando dei tessuti sonori scuri e rarefatti) a seconda della loro densità e prossimità dalla parete stessa. Dallo stato più puro ed erotico a quello più sovraccarico, turbolento e fisico. Il sistema risponde in modo latente e interdipendente, quasi come se si stesse attraversando e insieme contaminando uno strano campo elettromagnetico.
. Pur essendo interessato ed essendo cresciuto nutrendomi di gesti, dischi e processi di reazione e ribellione a questi stati di quiete imposti55F. F.: Annoto qui un incrocio estemporaneo di contenuti/connessioni. Questi quattro esempi toccano (in modo un po’ arbitrario) pratiche sonore sperimentali individuali e/o di massa: (1) Il Brainwave Entrainment è un recente fenomeno pseudomusicale deviato e purtroppo un po’ new age dove si andrebbero a stimolare e a far risuonare a bassissima frequenza parti specifiche del cervello grazie al fenomeno dei toni binaurali (che viene approfondito per la prima volta dallo storico e naturalista Willelhm Dove all’inizio dell’800). L’ascolto avviene in cuffia in modo individuale; (2) Marianne Amarcher, pioniera di produzioni elettroniche ‘psicoacustiche’ atte a indurre il ‘terzo suono’; (3) Un report del dottRobert CBeck (1978) contribuisce allo studio dei campi magnetici ELF (ExtremeLowFrequency), EEG (registrazione dell’attività elettrica dell’encefalo) e l’osservazione/registrazione/induzione di stimoli magnetici – tra i quali la risonanza di Schumann (7.83 hz) – e dei loro effetti sulla mente; (4) Brion Gysin (e parallelamente Jan Sommerville) costruiscono la Dream Machine (che tramite il fenomeno del flickering oscilla a 7-10 hz, corrispondenti alla medesima gamma ‘alpha’. I Throbbing Gristle dedicano un disco (Heathen Earth) a Gysin e alla Dreamachine.
, sono in realtà la falsificazione e il limite psicofisico indotto che sempre più stanno diventando il cruccio di un percorso nel quale, attraverso il mio lavoro, cerco di ‘imporre’ una visione (passatemi i termini) olistica e sincronica del mio periodo storico. Mai completa né determinata, che risponde a effetti non causali nel momento della percezione (o della verifica), ma governata da ferree regole imposte nella formalizzazione e nel presentare/subire il momento presente (Submission, in italiano è tradotto sia come sottomissione che come presentazione).

Martina Raponi: C’è una disparità tra la nozione di rumore in quanto dispositivo filosofico e metaforico e il rumore come pratica musicale o performativa. È un problema che mi sono posta nel rileggere e ripensare a posteriori Strategie del Rumore, in cui l’excursus tra pratiche ed esperienze sia in ambito underground che artistico in qualche modo, per me, non si allinea perfettamente con l’ultimo capitolo, che risulta come un primo esercizio teoretico nell’affrontare l’argomento. La cosa sconcertante è che ci sono molte definizioni di rumore, possiamo dire che ogni disciplina ne possegga una, e ognuna identifica, declina e utilizza il rumore in un modo particolare. Ciò significa che troviamo alla radice un problema di linguaggio e di definizione. Ampliando il campo d’azione e tentando di applicare questa idea di rumore ai diversi contesti di interesse, va da sé che ci si distacchi dall’ambito prettamente musicale e performativo, per arrivare a toccare molte altre esperienze che con la musica o l’arte non hanno niente a che vedere. Sono queste le esperienze che mi interessano al momento. I miei esercizi sono inerenti all’individuazione di elementi di interruzione nel continuum di connessioni che intersecandosi formano i tessuti che definiamo sociali, urbani, e via dicendo. Questi tessuti sono sostenuti da un’idea di paesaggio sonoro esteso, che si ricollega in qualche modo all’immagine che ne dà Steve Goodman in Sonic Warfare, e non a caso l’idea di affezione è presente nel sottotitolo del libro66M. R.: Rispetto alla nozione di «affection» rimando a Brian Massumi, in particolare questa intervista.
. La parola rumore in un contesto come quello di Sonic Warfare diventa problematica, quasi perde senso, per essere inglobata da un concetto più profetico come quello di «unsound». La mia intenzione è quella di seguire queste linee di problematizzazione per poter giungere a qualcosa di diverso, possibilmente di «unsound». Le condizioni dell’ascolto, implicando sia il rumore sia il paesaggio sonoro, sono prese in esame a livello storico e culturale da Hillel Schwarz in Making Noise. From Babel to the Big Bang (Zone Books, 2011). Questo mastodonte della letteratura sonora contiene molti riferimenti che mostrano come la nozione di rumore, quando presa in esame tenendo presenti specifiche modalità di ascolto, cambi in base a equazioni complesse, in cui la progressione storica, la tecnologia, il contesto geografico e le componenti culturali giocano un ruolo fondamentale. Ciò rende ostica la definizione di rumore in maniera universale, ma aiuta a contestualizzarlo e storicizzarlo a seconda dei casi.

Francesco Fonassi – IR System_Sensitive audio device – Electromagnet, safe gun, max msp patch, speakers, microphones – 2009.

Francesca Vason: Si evince, Martina, come la tua visione di paesaggio sonoro sfoci in questioni prevalentemente di percezione del corpo, un’esperienza che va oltre l’ascolto e le sensazioni legate prettamente all’udito. Aspetto nodale, quello del corpo, anche in Strategie del Rumore quando, soprattutto a partire dagli anni ’60, si evidenzia la crescente presa di consapevolezza ed esplorazione della propria fisicità, poi trasportata anche in ambito musicale.

Martina Raponi: L’ambiente ci influenza costantemente e modula le nostre azioni. Ci sono casi estremi in cui il tessuto vibratorio di un particolare ambiente può essere percepito dal corpo, introiettato ed elaborato. Ad esempio le esplosioni, i tuoni, i terremoti, tutte quelle sollecitazioni vibratorie cui siamo costantemente sottoposti, dallo stare seduti su un treno al pedalare su una bici. La maggior parte degli altri movimenti che operano su di noi non possono essere percepiti in maniera cosciente. Mi viene in mente in questo caso l’installazione di Raviv Ganchrow all’edizione del 2015 del Sonic Acts, intitolata Long Wave Synthesis: questo lavoro prende in esame le onde infrasonore, che operano su scala geologica. Le onde infrasonore sono state raccolte e direzionate dai dispositivi creati dall’artista, e rese percettibili dai corpi posizionati lungo il loro raggio d’azione. Sono convinta dell’efficacia dell’azione a livello molecolare di quel tipo di infrasuono e che anche quello riesca a mutare la percezione di un determinato paesaggio; paesaggio che cessa di essere solamente sonoro e invade i territori di percezione più puramente tattile, o psicologica, o addirittura geologica come nel lavoro di Ganchrow. Questo tipo di onde sono capaci di manifestarsi sotto forma di «hum», ad esempio, un fenomeno che eccede la localizzazione geografica e che va a inserirsi in una rete di interazioni energetiche su scala globale.

Il rumore, nella sua carica invasiva, nel suo impatto sonoro, propone una modalità aumentata di smarrimento, che eventualmente finisce col risolversi in una forma di identificazione, ma che non disgiungo da qualcosa di molto simile a una interrogazione. Nel nostro contemporaneo occorre ricercare un’ennesima modalità di inserimento in circuiti esistenziali che esistono in un panorama tecnologico mutato, molto meno hardware e più immateriale. Il ruolo del corpo è quello di recuperare tutto l’hardware possibile attorno a noi, quasi anche accettando di dover abbandonare la nostra condizione di meri umani, per spingere le potenzialità tecnologiche, unitamente alle nostre capacità sensorie e sensuali, al loro estremo, per quanto assurdo o paradossale ciò possa suonare. La matericità corporea deve trovare il modo di riconfermarsi per poter recuperare uno spazio che è stato perso, ed è uno spazio di interazione, di negoziazione e di azione, per trasferirlo anche in un mondo virtuale che non può essere ignorato.

Come rielaborare i frammenti di esperienze e informazioni che agiscono su di noi in maniera affettiva, privilegiando l’intensificazione delle attività propriocettive e capire come poterle riconvertire in esperienze capaci di generare massa critica? È una domanda che mi pongo spesso e a cui sto lavorando, pensando soprattutto a tutte quelle esperienze che non hanno avuto esiti a livello politico, come We are 99%, ma che sono riuscite a riattivare moltitudini di corpi e, per dirla con Bifo, a erotizzare le masse. Questa nozione di erotizzazione è fondamentale e fa leva su una sensualità quasi primitiva che non è affatto aliena alle pratiche rumoristiche di cui ho trattato in Strategie. Il nodo cruciale è capire come condurre queste esperienze a un livello successivo e superiore, utilizzando i valori interstiziali alle rivendicazioni politiche.

Francesco Fonassi – Stasi (first study on Jakob Ullmann’s Horos Meteoros) – Listening setting views at Palais de Tokyo – Paris – 2013. Text by Giulia Bini (https://www.dropbox.com/s/1gxilhv4194ej20/Giulia%20Bini_Fonassi_Stasi%20Viafarini_2013.pdf?dl=0).

Francesca Vason: La nozione di paesaggio sonoro, come tu mi hai raccontato, è stata anche il punto di partenza sia per un tuo racconto fantascientifico sia per un saggio che tuttora stai scrivendo.

Martina Raponi: In entrambi i testi lo spazio sonoro diventa uno spazio distopico, in cui l’unica via verso una possibile democratizzazione dello spazio pubblico è la costruzione di una consapevolezza delle potenzialità propriocettive dei corpi stessi che abitano questo spazio. È qui però che arriva il problema fondamentale: se ammettiamo che ‘rumore’ sia una nozione problematica soprattutto alla luce della sua potenziale defunzionalizzazione o se considerato nell’analisi di un processo di normalizzazione, allora cosa significa fare rumore? La mia concezione di rumore come dispositivo per analizzare processi di normalizzazione non prevede che il rumore sia parte attiva dei processi in esame. Il rumore è un residuo, è un eccesso, la normalizzazione in questione implica l’assorbimento di tale eccesso affinché un sistema possa rimanere compatto, essere analizzato nella sua interezza e poter essere considerato funzionale e funzionante. Quindi in questo caso, nel considerare quelli che definisco processi di normalizzazione (dall’istituzionalizzazione delle pratiche underground fino all’assorbimento di movimenti di contestazione nell’inquadramento normativo delle forze dell’ordine77M. R.: Mi riferisco qui a un lavoro realizzato per il Sandberg Institut – e che considero non un’opera artistica bensì una nota ai fini della scrittura –, che va a esporre la vuotezza delle strutture democratiche in tema di «manifestazioni». Ho richiesto un permesso per manifestare sul Malieveld (L’Aia), un luogo simbolico nei Paesi Bassi a livello politico, in cui ho cantato da sola con un karaoke portatile per tutta la durata prevista e indicata nel documento che ho dovuto firmare presso la polizia. L’atto in sé ha valore solamente alla luce delle conversazioni paradossali avute con le forze dell’ordine (durate ben due settimane) e dei loro tentativi di capire in anticipo come si sarebbe svolta la manifestazione in modo tale da poterla «facilitare» e «gestire». I livelli di assurdità raggiunti durante queste conversazioni sono più fantascientifici della fantascienza stessa. Anche se fossi stata lì con diecimila persone non sarebbe cambiato nulla, dato il formato entro cui si è costretti a muoversi per poter esprimere dissenso.
, fino alla supposta integrazione di corpi considerati «anormali» attraverso specifiche azioni, siano esse legali o mediche), il rumore è quello che resta al di fuori della griglia del sistema, o anche solo il potenziale «rumoristico» che ciò che è stato inglobato ancora ritiene in sé. I casi possono essere infiniti, e la mia ambizione – sia a livello narrativo fantascientifico che teorico speculativo – è capire come poter elaborare una sorta di equazione che possa permettere di individuare, sviscerare, supportare i rumori potenziali soprattutto alla luce dei contesti in cui compaiono e agiscono. L’oggetto di studio privilegiato per me al momento, sia nel lavoro fantascientifico che saggistico, è la sordità come identità rumorosa a livello culturale, linguistico, e sociale, a onta del silenzio che apparentemente porta con sé quasi per antonomasia88M. R.: Sulla sordità, si veda l’analisi del lavoro di Alexander Graham Bell in The Audible Past – Cultural Origins of Sound Production di Jonathan Sterne, edito dalla Duke University Press. In particolare, nel primo capitolo parla del phonautograph, un apparecchio pensato per poter trascrivere/rappresentare il suono in modo che i sordi potessero imparare ad articolare il linguaggio, per potersi inserire all’interno della società, nascondendo la propria «mancanza», il proprio «handicap», negando quindi la propria specificità esistenziale ai fini dell’integrazione. Un’integrazione che diventa occultamento e oppressione, oltre che violenza nei confronti di una cultura che possiede una propria lingua e una propria storia. Una storia che il più delle volte ha la capacità di eccedere i confini nazionali. Il phonautograph precede di pochissimi anni il Secondo Congresso Internazionale per l’Educazione dei Sordi, noto come la Conferenza di Milano, tenutosi per l’appunto a Milano nel 1880, durante il quale fu deciso che i sordi non dovessero imparare la lingua dei segni, ma essere educati secondo i princìpi dell’oralismo, vale a dire: che dovessero comunicare tramite lettura del labiale ed emissione linguistica vocale. Nelle delibere del Congresso il metodo educativo viene definito «metodo orale puro», indicando quindi una sorta di imposizione culturale volta alla «purificazione» di una condizione, se vogliamo, «lontana dalla grazia di Dio», una stortura da raddrizzare. Il 1880 rappresenta l’inizio di quello che può essere definito il Medioevo della sordità, da cui si è iniziati a uscire solamente pochi decenni fa. In Italia in particolare ha avuto un peso rilevante il lavoro di Virginia Volterra, nel sistematizzare a livello culturale e linguistico la cultura sorda. Siamo però ancora lontani dal riconoscimento della lingua dei segni come lingua ufficiale, e dalla considerazione della sordità tramite parametri medici e non culturali, come sarebbe opportuno che avvenisse. Se pensiamo al rumore come controcultura, e soprattutto se consideriamo la possibilità di un nuovo rumore che si infiltri nella società in maniera silenziosa, mantenendo una propria carica eversiva, una distanza che sebbene appaia svantaggiata porta con sé molteplici vantaggi, allora la sordità è il modello cui voglio guardare, e da essa poter imparare. E chiude il cerchio anche nella considerazione del paesaggio sonoro come terreno vibratorio propriocettivo.
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Di nuovo, se la sordità è una delle modalità di esistenza che più si avvicinano alla mia idea attuale di rumore, sebbene non «faccia rumore», cosa significa dunque fare rumore? È in virtù di questo dilemma che ho inaugurato il mio secondo e ultimo anno al Sandberg con una presa di posizione: la divisione netta tra rumore e rumorosità, divisione tra «noise in a commodified world» e «noisy commodity». Da lì, ho provato ad approfondire oggetti ed esperienze tendenti più decisamente verso il primo elemento che non verso il secondo. Ho dunque provato a capire cosa implica il fare rumore in base a questa divisione.

È una domanda cui sto ancora rispondendo. Ci ho provato soprattutto durante il graduation show del Sandberg, momento in cui ho collaborato con Mattin, artista che si occupa principalmente di rumore e con cui ho analizzato e sviscerato una selezione di materiale da me prodotto soprattutto nel corso dell’ultimo anno. Il risultato di questa collaborazione è stata la bozza di un manifesto in cui ci riferiamo al rumore «normalizzato» con la locuzione «Sugar-Candy Noise», e a esso ci poniamo con in-tensione. Questa tipologia di rumore è presente nella maggior parte dei contesti che si occupano di produzione culturale99M. R.: Qui un testo di Mattin in conversazione con Ray Brassiere che desidero condividere in questo contesto.
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Francesco Fonassi – Rationabiles tubas (o guarigione) – 12 months continuum sound pièce at Ospedale Metro Station – Brescia – 2016.

Francesca Vason: La rapidità con cui un suono si genera e produce un effetto nel mondo è la stessa con cui esso scompare. Ed esso può concorrere come un’esperienza che partecipa alla costituzione di una memoria soggettiva e collettiva. Esattamente come nell’esperienza visiva. Nel 2013 è nato l’Archivio Italiano Paesaggi Sonori (AIPS), una realtà fondata qualche anno prima sotto forma di collettivo e che nel tempo ha sviluppato diversi progetti, tra i quali la realizzazione di una mappatura e di un vero e proprio archivio. Quali sono gli obiettivi e i metodi di archiviazione che avete adottato?

Francesco Giannico: AIPS rappresenta un archivio di esperienze che hanno a che fare a vario titolo con lo studio, la manipolazione e la reinterpretazione dell’ambiente sonoro circostante. In quest’ottica direi che l’impianto di AIPS si presenta meglio in una visione modulare dove ogni modulo rappresenta un progetto realizzato con caratteristiche proprie e indipendenti dagli altri moduli. Certo, alcuni «moduli» sono ricorrenti come i progetti sulle mappature sonore online, uno strumento figlio del web 2.0 e che ha ridato linfa alle tesi di Schafer. Grazie alle varie Google Maps, Open Street Maps e tecnologie simili, si è riusciti a rappresentare più concretamente il connubio tra un paesaggio e i suoi suoni: cosa c’è di più intuitivo del cliccare sul segnaposto di una mappa e far partire l’audio correlato? Chiaramente anche in questo caso esistono vari livelli di complessità relativi alle possibilità di realizzazione di queste mappe che possono essere scientifiche, collaborative, interattive. Come si sarà capito, tra i nostri obiettivi vi è quello di costruire una finestra sul mondo della musica elettroacustica che utilizza il paesaggio sonoro come mezzo espressivo, come materiale grezzo da poter modellare per le proprie soundscape compositions, installazioni e via dicendo.

Francesco Fonassi – Territoriale – Two sensitive audio environments. Wall, 4+4 channel sound system, closed camera cicuits, softwares developed by Tempo Reale – Installation view at Maxxi – Roma – 2014.

Francesca Vason: Educare al suono, sviluppare o riscoprire un orecchio sensibile implica anche la possibilità di risemantizzare un contenuto sonoro, arricchirlo, con l’opportunità di generare nuovi valori, idee, prospettive…

Francesco Giannico: Personalmente mi è venuto naturale sperimentare con altre persone la formula del workshop per acquisire quella consapevolezza sonora che non è cosa affatto scontata. La mia stessa percezione, nel corso dei workshop, è andata modificandosi mentre osservavo i meccanismi di consapevolezza collettiva che nascevano. In questo senso, la risemantizzazione è andata ben oltre le aspettative. Non mi aspettavo di ristabilire i ruoli del significante sonoro, ma anche del significato e dell’ascoltatore.

Il modello proposto credo possieda una grande efficacia per la sua adattabilità a ogni situazione e per l’alto livello di coinvolgimento: si basa su un mix di teoria, soundwalk e una performance/installazione collettiva. Le prospettive per i progetti sviluppati in questo modo possono essere molteplici e possono avere un impatto più o meno piccolo sulle persone dell’area oggetto di studio, a seconda della volontà del committente del progetto di portare avanti un certo tipo di discorso. Spesso questo tipo di progetto non esaurisce il suo compito con il workshop, ma può divenire parte di un processo più ampio che dia continuità all’opera di sensibilizzazione attraverso iniziative sempre più specifiche. Il prossimo passo che mi piacerebbe compiere in tal senso vorrebbe essere un festival o una rassegna che abbia come focus questo tipo d’interoperabilità, unire più cellule attive di uno specifico territorio su un fine comune nel segno dell’espressione sonora di quell’ambiente. Approcciare al paesaggio sonoro come se fossero dei piccoli ‘soviet’ in grado di organizzare individualmente ma unitariamente la rivoluzione sonora di cui abbiamo bisogno.

AIPS, Bari Sonora – workshop – 2012.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Francesca Vason
  • Francesca Vason è curatrice e storica dell'arte. Lavora con M+B Studio a Venezia come curatrice e project coordinator di​ progetti espositivi internazionali​. Collabora con TBA21-Academy e Ocean Space, La Biennale di Venezia, Danish Art Foundation, OCA - Office for Contemporary Art Norway, Singapore​ ​Design Council, oltre a sviluppare progetti indipendenti. ​Prende parte a Campo - programma per curatori italiani della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo​ e, dopo aver scritto​ per magazine come Juliet e InsideArt​,​ è tra i fondatori di​​ KABUL magazine, dove attualmente opera come autrice e referente per le sezioni Project ed Editions.