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Mascolinità in crisi
Magazine, ANATOMIA – Part I - Ottobre 2020
Tempo di lettura: 17 min
Maria Costanza Brivio Sforza

Mascolinità in crisi

Costruzione e rappresentazione della mascolinità in Fight Club di David Fincher.

Fotogramma dal film n.1: il protagonista come consumatore.

 

«Sono sempre stato meravigliato da ciò che potremmo chiamare il paradosso della “doxa”11Bourdieu, in Per una teoria della pratica (1972), usa il termine doxa a indicare il “dato per scontato”, l’esperienza per cui il mondo naturale e sociale è auto-evidente e si spiega da sé.
 – il fatto che l’ordine del mondo come lo conosciamo […], che l’ordine stabilito, con le sue relazioni di dominio, i suoi diritti e le sue prerogative, privilegi e ingiustizie, in ultima analisi si perpetui così facilmente, a eccezione di qualche incidente storico, e che le condizioni più intollerabili dell’esistenza possano essere così spesso percepite come accettabili se non addirittura naturali».

(Bourdieu, 2001: 1-2)22Trad. a cura dell’autrice.

Il testo si propone di indagare i modi in cui la cultura e le sue rappresentazioni determinano l’individuo e la sua identità. In particolare analizzerà come funziona l’habitus di Pierre Bourdieu e in che modo l’incorporazione di strutture normate modelli e influenzi il corpo, il comportamento e quindi le rappresentazioni di genere maschile. Per capire in che modo la mascolinità o maschilità venga costruita culturalmente e incorporata, adopererò i concetti di gender script e gender display di E. Goffman.

Il caso studio è il lungometraggio Fight Club di David Fincher. La scelta del film è dovuta al grande dibattito nel mondo anglosassone sull’uso del suo immaginario da parte di comunità culturali33Il termine è traducibile in italiano come «celibe involontario»; una persona che si autodefinisce incel non riesce a trovare un partner sessuale, nonostante ne desideri uno, in quanto ritiene di essere rifiutata perché non attraente.
– per lo più virtuali – conosciute come “incel”. Divenuto film di culto per via della rappresentazione di una nuova maschilità che si riavvicina ai valori di forza e onore “di una volta” rifiutando la femminilizzazione della maschilità attuale.

 

Impianto teorico

Uno degli apporti più importanti agli studi culturali in ambito sociologico è dato dal pensiero di Pierre Bourdieu. L’autore concentra gran parte del suo lavoro sul modo in cui la cultura è in rapporto con l’individuo e lo determina profondamente attraverso la costante dialettica tra esposizioni e disposizioni che portano all’incorporazione della cultura stessa. Infatti, Bourdieu opera il superamento della dicotomia tra dimensioni esterne e interne dell’ordine culturale grazie al focus sulla centralità del corpo. Nel corpo vengono appunto somatizzate, inscritte le dimensioni esterne nel momento dell’esposizione, creando disposizioni che, una volta incorporate, andranno a costituire il cosiddetto habitus.

La serie di disposizioni costituenti l’habitus genera una serie di pratiche e comportamenti automatizzati che seguono precise norme di interazione con individui che condividono lo stesso “campo”44Un “campo” può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni (Bourdieu, 1992).
 sociale dell’individuo. Le espressioni corporee dell’habitus coincidono con la hexis che si può individuare nella posa, nella gestualità, nel modo di muoversi e di parlare.

In particolare, per “habitus” Bourdieu intende quella composizione sociale e culturale fatta di schemi di percezione, valutazione e azione che si crea in seguito alla costante esposizione a regolarità e strutture sociali: è un’inclinazione, una tendenza, un intreccio soggettivo caratterizzante un individuo. Gli habitus «permettono di operare atti di conoscenza pratica […] e di generare, senza presupporre esplicitamente dei fini o un calcolo razionale dei mezzi, strategie coerenti e continuamente rinnovate, ma nei limiti dei vincoli strutturali di cui gli habitus stessi sono il prodotto e che li definiscono» (Bourdieu, 1998).

Il pensiero di Bourdieu evidenzia la stretta relazione esistente tra strutture sociali e individuo, sottolineando come la costruzione identitaria, nei termini di percezione, preferenze e comportamenti siano il risultato di una costante esposizione a rappresentazioni e pratiche, esperienze derivanti dal dominio culturale di cui facciamo parte. Il potere simbolico della cultura in cui si è immersi porta ad avere un certo habitus e quindi un determinato spazio dei possibili, ovvero una totalità di opzioni o scelte condizionata dalla nostra esperienza, provenienza ed educazione.

Allo stesso modo l’identità di genere viene costruita mediante una costante esposizione a rappresentazioni e pratiche del maschile o del femminile.“…l’identità di genere viene costruita mediante una costante esposizione a rappresentazioni e pratiche del maschile o del femminile.” Infatti, «Goffman ci dice che le differenze di genere vengono costruite quotidianamente […] attraverso una continua e permeante ritualizzazione cerimoniale che le rende allo stesso tempo scontate e immediatamente riconoscibili» (Sassatelli, 2010).

Come abbiamo visto nel testo di Erving Goffman, La ritualizzazione della femminilità, circa le rappresentazioni culturali di genere nella fotografia pubblicitaria, si possono identificare dei “codici di genere”, o gender scripts, da decifrare, e delle ostentazioni di «un canovaccio di espressioni appropriate» (Goffman, 1979, 8) chiamato gender display. Attraverso un’attenta analisi delle fotografie riesce infatti a individuare alcune regolarità che vanno a marcare come viene messo in scena un certo schema di genere.

Alla base di questa analisi si trova la concezione di identità di genere come categoria socialmente costruita (e costruibile), piuttosto che come componente naturale o insita in un individuo; ovvero, il fatto che la presenza di attributi fisici e biologici particolari al momento della nostra nascita non sia automaticamente legato all’assegnazione a un genere, ma solo al “sesso”. Il genere però viene per consuetudine assegnato sulla base biologica, quindi il sesso, e sempre sulla base di ciò sviluppiamo identità socialmente plasmate. Se il sesso riguarda i differenti attributi sessuali, il genere ha a che fare con il modo in cui queste differenze assumono senso entro una certa cultura – spesso assegnandovi la categoria “maschile” o “femminile”. Impariamo a vivere la categoria di genere che ci è stata assegnata dall’esterno.

Per comprendere come “si imparano” i generi basta guardare al caso delle persone aventi determinati attributi sessuali a cui, però, viene assegnato il genere “sbagliato”. Un noto e classico esempio della sociologia lo troviamo in Agnese di Harold Garfinkel, che anziché affrontare il caso di Agnese, giovane persona transessuale, come un caso clinico, indaga il modo in cui le identità di genere vengono costruite. Garfinkel studia infatti come il soggetto sia riuscito ad apprendere – e incorporare – le pratiche, ovvero i comportamenti, il modo di muoversi e di parlare del genere femminile, mediante una meticolosa osservazione e reiterazione di queste. In questa maniera intende dimostrare come l’appartenenza a un genere non possa essere determinata da presupposti biologici o pre-sociali.

Partendo da tale premessa, si intendono qui indagare le rappresentazioni del genere maschile, quindi della “mascolinità”, nel cinema. In particolare, analizzeremo il film Fight Club di David Fincher per capire come diverse espressioni di mascolinità derivanti da habitus differenti siano costruite attraverso l’uso dei gender scripts e dei gender displays.

VHS 036, This Is Not FIGHT CLUB, Graphic remake di Jacopo Starace, 2019.

 

Applicazione empirica

Fight Club, tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, racconta di un narratore anonimo, impersonato da Edward Norton, la cui vita cambia drasticamente dopo aver conosciuto Tyler Durden, ovvero Brad Pitt, durante un viaggio di lavoro.

Il narratore è un impiegato, insofferente alla vita e tormentato dall’insonnia, motivo per cui si trova a frequentare gruppi di supporto fingendosi malato terminale o evirato. Questa pseudo-terapia funziona finché conosce Marla Singer che a sua volta frequenta i gruppi. Un incendio distrugge completamente l’appartamento del protagonista, che va pertanto a vivere con Tyler, un fabbricante di saponette dalle idee estremiste conosciuto poco prima. I due fondano il Fight Club: un circolo clandestino di lottatori che si incontrano negli scantinati dei bar per sfogare la rabbia e la frustrazione della classe media. Mentre inizia una relazione tra Marla e Tyler, il fenomeno del Fight Club si diffonde sempre più sino ad arrivare anche in altre città. Il Fight Club rimane innocuo finché Tyler manifesta il desiderio di distruggere la società contemporanea con il “Progetto Mayhem”. A questo punto il narratore vede la situazione sfuggirgli di mano e, tentando di fermare Tyler, scopre finalmente che questi non è altri che lui stesso durante le notti di insonnia – quando pensa di stare dormendo. Il progetto è ormai in atto e nonostante il narratore riesca a “uccidere” Tyler sparandosi in bocca, non è in grado di fermare la grande esplosione dei palazzi della finanza che metterà in moto la serie di cambiamenti irreversibili progettati da Tyler.

Il narratore è un uomo solo, disilluso e insonne. Vive lavorando e acquistando tutti i prodotti IKEA che trova in catalogo per cercare soddisfazione e completezza. Le scelte che ha fatto nella vita lo hanno portato a questa condizione, per cui lo spazio dei possibili che ha davanti è quasi interamente delimitato da un orario fisso, un lavoro, il cui stipendio gli permette di comprare oggetti di consumo che pensa di desiderare: «L’agente fa ciò che è in suo potere per rendere possibile l’attualizzazione delle potenzialità inscritte nel suo corpo sotto forma di capacità e di disposizioni plasmate da condizioni d’esistenza» (Bourdieu, 1998).

Fotogramma dal film n.2: Il protagonista come disilluso e insonne.

Il protagonista non sembra nutrire interesse nei confronti delle donne, non ha una famiglia da mantenere, né una figura paterna o maschile di riferimento, non ha nemmeno un lavoro di successo. La rappresentazione che abbiamo è quella di un uomo “fallito” della middle class americana, in una condizione di stallo e di frustrazione da cui sembra non poter uscire: «[…] Essendo il desiderio di appagamento in qualche modo commisurato alle possibilità di realizzazione, il grado di soddisfazione intima che i diversi agenti conoscono non dipende, come si potrebbe credere, dal loro potere effettivo come capacità astratta e universale di soddisfare bisogni e desideri astrattamente definiti per un agente qualsiasi; esso dipende piuttosto dal grado in cui il modo di funzionamento del mondo sociale o del campo in cui gli agenti sono inseriti favorisce il compimento del loro habitus» (Bourdieu, 1998).

Il protagonista non riesce a ottenere successo nei termini della mascolinità egemonica55«Strumento analitico che identifica quei comportamenti e quelle pratiche degli uomini che mantengono e perpetuano le disuguaglianze di genere, sia attraverso il dominio maschile sul femminile, sia con il potere di alcuni uomini su altri […] uomini». Trad. a cura dell’autrice da: Hegemonic masculinity: combining theory and practice in gender interventions.
 (Connell, 1995), e la condizione del consumatore lo lascia insoddisfatto.

Nella scena in cui Tyler e il protagonista si incontrano al bar dopo l’esplosione dell’appartamento, Tyler asserisce: «We’re consumers. We’re by-products of a lifestyle obsession» (min. 30:07); e ancora: «The things you own, ends up owning you» (min. 31:15). Descrivendo la figura dell’uomo-consumatore, il personaggio richiama Bourdieu:

«Così, la storia oggettivata diviene agita e agente solo se il posto, più o meno istituzionalizzato […] trova, al pari di un abito, di un utensile, di un libro o di un appartamento, qualcuno che vi si ritrovi e vi si riconosca al punto da farlo proprio, da prenderlo in mano, da assumerlo e da lasciarsene così possedere». (Bourdieu, 1998)

Si può notare come il narratore cominci, seguendo le narrazioni critiche di Tyler sulla società contemporanea, a rifiutare la realtà del mondo che vive e l’habitus in cui si ritrova:

«Per via soprattutto delle trasformazioni strutturali che sopprimono o modificano certe posizioni […], l’omologia tra lo spazio delle posizioni e lo spazio delle disposizioni non è mai perfetta ed esistono sempre agenti collocati precariamente, fuori posto, che non stanno bene al loro posto, o, come si dice in francese dans leur peau, “nella loro pelle”. La discordanza […] può essere alla radice di una disposizione di lucidità e alla critica che porta a rifiutare di accettare come ovvie e già date le attese o esigenze dell’habitus, invece di adattare l’habitus alle attese del posto». (Bourdieu, 1998)

L’incontro con Tyler, personaggio che incarna la figura ipermascolina, è quindi la possibilità di riscatto del protagonista. Tyler Durden infatti è «…smart, capable, and most importantly, [he is] free in all the ways [Narrator] is not»; «he’s the man every woman wants and who every man wants to be». (Farrington, 2019).

Fotogramma dal film n.3: confronto tra la fisicità del protagonista e di Tyler.

Quindi, se l’anonimo narratore rappresenta una mascolinità perdente, intrappolata nell’habitus insoddisfatto del consumatore contemporaneo, in Tyler Durden vediamo la mascolinità vincente e ribelle che, rifiutando lo status quo, permette una risocializzazione (Berger & Luckmann, 1969) dell’individuo. Nel film, Edward Norton tenta di abbandonare il proprio habitus e di “passare a un altro”, grazie alla critica sociale di Tyler e alla creazione del Fight Club, imparando e incorporando una nuova forma di mascolinità più vincente.

Questa nuova forma di mascolinità si costruisce quindi su alcuni punti: il rifiuto dello status quo consumistico, la critica della vigente rappresentazione della mascolinità, ormai debole per via dell’assenza di ruoli-modello (padre, Dio), e il rifiuto della femminilità.

Nel film è centrale la rivendicazione di una generazione di uomini privi di figure paterne di riferimento“…Nel film è centrale la rivendicazione di una generazione di uomini privi di figure paterne di riferimento” e che non hanno bisogno delle donne, come si può notare nella scena che ha luogo nel bagno in cui i due principali personaggi parlano (dal min. 39:29 a 40:28), con Tyler che chiede al narratore «If you could fight anyone, who would you fight?». I due rispondono rispettivamente uno il padre e l’altro il proprio capo. Sempre nella stessa scena, dopo aver condiviso le vicendevoli esperienze di padri assenti, Tyler afferma: «We’re a generation of men raised by women»; e poi: «I’m wondering if another woman is really the answer we need», andando a evidenziare la superfluità di una figura femminile nella propria vita.

Il ruolo del corpo è centrale nelle riprese, mostrando ripetutamente le figure sempre più scolpite dei membri del club, che combattono necessariamente a petto nudo – come da regolamento. La rappresentazione fisica e la hexis devono richiamare la forza e l’onore, attraverso la muscolosità e la sicurezza.

Nella scena in cui il protagonista perde un dente dopo esserseli lavati viene contrapposto il corpo scolpito di Tyler, che con il suo “six pack” traccia un confine visuale tra le due espressioni di maschilità in analisi; tra la fragilità del narratore – stupito per il dente caduto, e tumefatto in viso – e la prestante fisicità di Tyler – smagliante e sicura di sé.

Al minuto 44:30 il narratore commenta: «A guy came to the Fight Club for the first time. His ass was a wad of cookie dough. After a few weeks, he was carved out of wood». In questo modo va a delineare l’importanza di come la stessa forma del corpo segua il processo di risocializzazione a questo nuovo tipo di mascolinità “vincente”.

Fotogramma dal film n.4: Tyler marchia la mano del protagonista con una bruciatura chimica.

Appena prima (min. 43:46), il narratore commenta come un ragazzo del suo ufficio («This kid from work, Ricky»), che non ne faceva una giusta a lavoro, fosse riuscito per 10 minuti a essere un Dio nel Fight Club, battendo il maître di un ristorante. La lotta rende possibile il riscatto sociale, l’identificazione con la realtà del Fight Club dà modo all’uomo di affermarsi come “maschio”, senza la necessità del riconoscimento egemonico del successo in termini lavorativi, romantici o sociali.

il Fight Club rappresenta un’ottima alternativa per potersi realizzare rivendicando la propria mascolinità.

Come si può notare anche nell’introduzione al testo di Goffman, La ritualizzazione della femminilità, a cura di Roberta Sasselli, «anche negli ambienti di lavoro, dove possono essere fatti valere principi universalistici, i soggetti possono sempre essere chiamati a rispondere in base alle proprie identità sessuali e […] nel portare a termine il loro essere sessuati gli uomini di preferenza portano anche a termine forme ritualistiche di dominio […]» (Sasselli, 2010).

Infatti, in una società in cui negli ambienti di lavoro l’espressione di queste “forme ritualistiche di dominio” è limitata per via di una data condizione sociale ed economica (come, appunto, lavorare in una fascia occupazionale poco riconosciuta), un luogo come il Fight Club rappresenta un’ottima alternativa per potersi realizzare rivendicando la propria mascolinità. Il Fight Club è un nuovo campo in cui è possibile sviluppare un habitus rispondente diverso da quello incorporato nel campo del lavoro: «Certamente la rappresentazione di genere si fonda su uno scambio rituale di tipo affermazione-replica, ma il termine display va compreso non come tratto di superficie, quanto come elemento dell’inevitabile presenza di un destinatario» (Sasselli, 2010).

Questa dimensione di interazione e conferma reciproca la si può trovare nell’appartenenza e adesione al Fight Club, che comporta seguire le regole stilate da Tyler Durden e dal protagonista senza nome, e nelle urla incitanti durante le scene di lotta ad affermare l’azione dei fighters.

All’interno dei genderismi, o gender script, della nuova maschilità proposta da Tyler Durden si nota – oltre al rifiuto della femminilità, all’espressione della rabbia attraverso la violenza e alla posizione dominante dell’uomo – la sopportazione del dolore. Due momenti in cui questo attributo fondamentale per “abbracciare” la nuova mascolinità viene evidenziato sono: la scena in cui Tyler marchia la mano del protagonista con una bruciatura chimica («Without pain or sacrifice, we would have nothing», min. 62); e la scena in cui Tyler si fa volontariamente colpire, ridendo, più volte da Lou – proprietario del bar in cui hanno luogo i combattimenti clandestini (min. 72:12, 73:30).

Fotogramma dal film n.5: Tyler si fa volontariamente colpire più volte dal proprietario del bar in cui hanno luogo i combattimenti clandestini.

Il momento segnante in cui ci accorgiamo che il protagonista ha efficacemente imparato e incorporato la maschilità durdeniana è riassunto nella scena in cui il capo del narratore, trovando nella fotocopiatrice un foglio con le regole del Fight Club, gli chiede spiegazioni (min. 64:44). Se in un primo momento, mentre viene ammonito, il protagonista mantiene la testa china sulla sua scrivania, non appena comincia a rispondere assume una posizione eretta, appoggiandosi allo schienale della sedia e mostrando sicurezza e prontezza. Il “nuovo” protagonista (con la sua “nuova” hexis) suggerisce al suo capo di stare attento: «Because the person who wrote that is dangerous» (min. 65:21); e allude al fatto che «the person» potrebbe fare una strage in ufficio da un momento all’altro.

Finito il dialogo, il protagonista pensa tra sé: «Tyler’s words coming out of my mouth»… «And I used to be such a nice guy». In questo modo sottolinea il cambiamento giunto (quasi) a compimento: diventare Tyler, incorporare l’habitus sviluppato nel Fight Club, ovvero abbracciare quell’espressione di maschilità che gli avrebbe reso il successo che non aveva mai ottenuto da “nice guy”, da lavoratore e da consumatore qual era all’inizio del lungometraggio.

 

Conclusioni

L’applicazione dei concetti di campo, habitus e hexis nell’analisi del film risulta funzionale a una lettura delle rappresentazioni di mascolinità presenti in esso.

L’habitus descrive perfettamente lo stato iniziale del personaggio protagonista, incline a un certo stile di vita, al consumo con una serie limitata di scelte, condizionate dalle sue esperienze e dalla sua conoscenza. Perseguendo la “carriera” del consumatore, infatti, il personaggio di Edward Norton all’inizio della narrazione si sente soddisfatto dalla sua identità, definita dagli oggetti materiali di cui si circonda; ignorando la latente crisi psichica che sta attraversando.

Allo stesso tempo la proposta della nuova maschilità di Tyler Durder, descrive anch’essa un perfetto esempio di habitus, apprendibile mediante una serie di esperienze che portano il protagonista a cambiare i pregressi schemi di percezione, azione e valutazione, e incorporabile grazie al contesto del Fight Club, quindi grazie alla lotta e alla ripetizione (mimica) di quella hexis caratterizzante il personaggio di Tyler.

La costruzione della mascolinità si può quindi analizzare mediante il pensiero di Bourdieu sul dominio simbolico culturale che agisce plasmando la società. Per di più, il sociologo stesso tratta il tema della maschilità nel suo saggio sul dominio maschile, andando a spiegare come lo stesso dominio di cui gli uomini sono i protagonisti – dello spazio pubblico, della politica, della parola – li porti a uno stato di sofferenza (come asserisce Bourdieu in Sociology is a martial art); quindi riassumendo con Marx: «The dominant is dominated by his domination».

Se l’habitus è dunque il prodotto dell’incorporazione delle strutture oggettive e influenza le nostre risposte fisiologiche e, quindi, emozionali, la rappresentazione della mascolinità in Fight Club risulta essere un ottimo esempio sulla violenza simbolica di cui gli stessi uomini diventano vittime attraverso l’incorporazione della mascolinità e dei suoi tratti. Ciononostante, se l’allinearsi di un preciso habitus a un campo non avviene in modo soddisfacente, si possono presentare casi di discordanza – potenziali per un cambiamento di posizione, ma al contempo «si osserva […] che a posizioni contraddittorie, capaci di far pesare sui loro occupanti “doppi legami” strutturali, corrispondono spesso habitus lacerati, in preda alla contraddizione e alla divisione contro se stessi, una divisione generatrice di sofferenza» (Bourdieu, 1998), che nella pellicola possiamo identificare con l’emergere del disturbo dissociativo dell’identità del protagonista.

Inoltre, i concetti di gender script e gender display, forniti dal testo di Goffman, permettono un’analisi accurata di come un certo habitus sia performato attraverso comportamento, portamento e modo di parlare, andando a delineare le differenti espressioni di questi in diversi tipi di mascolinità (Coles, 2009). I gender script e gender display, infatti, consentono all’osservatore di riconoscere facilmente quale “espressione appropriata” riguardi la maschilità egemonica, la maschilità subordinata o altre espressioni di genere maschile.

L’enorme eco che ha avuto il film Fight Club in certi ambienti incel66https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/the-men-who-still-love-fight-club
 è essa stessa una testimonianza di come le rappresentazioni plasmano la società (e viceversa). Fight Club è uno dei vari prodotti dei massmedia che negli anni ’90 hanno tentato di dare una risposta alla percepita assenza di rappresentazione di nuove maschilità; infatti, conseguenza dei femminismi degli anni ’70 e ’80 è stata la crisi dell’identità maschile, a cui si è tentato di rispondere attraverso nuove rappresentazioni. Ma, se alla crisi della maschilità si risponde senza mettere in dubbio il dominio culturale da cui questa stessa idea di maschilità deriva, non potrà avvenire un cambiamento sostanziale in grado di permettere il superamento delle sofferenze che il binarismo di genere arreca per via della sua costruzione storica, e quindi una liberazione da definizioni identitarie ancora così legate al corpo.

«Fino a quando non avremo creato una cultura di massa che affermi e celebri la mascolinità senza il mantenimento del patriarcato, non potremo scorgere un cambiamento nel modo in cui le masse di uomini pensano la natura della loro identità. […] I mass media sono un potente mezzo per insegnare l’arte del possibile. Gli uomini illuminati devono rivendicarli come luogo per una loro voce pubblica e creare una cultura di massa progressista che riesca a insegnare agli uomini a connettersi con gli altri, a comunicare, ad amare»77Traduzione a cura dell’autrice.
. (bell hooks, 2004)

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Maria Costanza Brivio Sforza
  • Maria Costanza Brivio Sforza, nata a Milano nel 1997, ha conseguito una specializzazione in traduzione letteraria ed è attualmente laureanda in Sociologia presso l'Università degli Studi Milano-Bicocca. Fra i suoi interessi teorie di genere, cultura digitale e nuovi media.
Bibliography

Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969.
Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998.
Pierre Bourdieu, Masculine Domination, Polity Press, Cambridge, 2001.
Tony Coles, Negotiating the field of masculinity: the production and reproduction of multiple masculinities, SAGE pub, 2009.
Robert Connell, Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano, 1996.
Elizabeth Farrington, Rejecting toxic masculinity: The gender politics of ‘Fight Club’«Gen Rise», 26 Oct. 2019.
Harold Garfinkel, Agnese, Armando Editore, Roma, 1977.
bell hooks, The will to change, Washington Square Press, New York, 2004.
Roberta Sassatelli, Erving Goffman,La Ritualizzazione della femminilità, «Studi Culturali», VII, 1, il Mulino, Bologna, 2010.
https://www.mediaed.org/transcripts/The-Codes-of-Gender-Transcript.pdf – The codes of gender. Identity and Performance in Pop Culture, transcript.
https://vimeo.com/92709274 – Sociology is a martial art, documentario.
https://www.youtube.com/watch?v=SH8yT7M8fag – Habitus, Pierre Bourdieu, intervista.