Questo caso-studio intende mettere a confronto fisicità diverse con lo scopo di raccogliere, dagli esiti di questi confronti – scontri – alcune riflessioni sulle posizioni di potere che certi corpi piuttosto che altri occupano all’interno della società occidentale contemporanea. L’analisi di La paura mangia l’anima di Reiner Werner Fassbinder servirà da pretesto a tale scopo, in particolare per la complessità dei comportamenti e delle relazioni che si instaurano tra i personaggi sulla base, soprattutto, delle loro fisicità. Inoltre, seppur le vicende del film siano ambientate nella Germania della fine degli anni ’70, il modo in cui ruoli sociali e potere vengono distribuiti sulla base delle qualità fisiche dei personaggi, risulta ancora oggi molto familiare. Si intende affermare e sollevare la questione circa il teatro di dibattito e di scontro politico che quotidianamente interessa i corpi appartenenti a tutte quelle categorie di individui che occupano posizioni sociali di scarso potere e capacità contrattuali, come quella del personaggio Alì, giovane immigrato marocchino. Il risultato che ne consegue apre lo scritto ad altri ambiti di ricerca non più strettamente semiotici e rivela che a ognuno dei due corpi identificati come culturalmente maschili corrispondano rispettivamente due differenti modelli di mascolinità, una “egemonica” e una “altra”. Da tenere presente che il film è ambientato in un momento storico di forti mutamenti sociali ed economici, ridefinizioni di ruoli e ridistribuzione del potere.
Ciò che emerge è che l’odio razzista possa essere motivato anche da questioni legate al genere, in quanto il razzismo come sentimento deriva, tra le molteplici cause, dall’esito frustrante del confronto tra modelli di mascolinità, attuato dai soggetti egemonici stessi.
La paura mangia l’anima è da considerarsi come uno dei film-manifesto di Rainer Werner Fassbinder.11Il film è noto in Italia anche con il titolo Tutti gli altri si chiamano Alì.
Girato interamente a Monaco, venne proiettato pubblicamente per la prima volta nel 1974. La traduzione in italiano del titolo non conserva la voluta sgrammaticatura del titolo tedesco, Angst essen Seele auf che, se venisse tradotto letteralmente, diventerebbe “La paura mangiare l’anima”. Il film narra della storia d’amore e di complicità di Emmi e Alì, interpretati rispettivamente da Brigitte Mira e da El Hedi Ben Salem.
Gran parte della trama della pellicola viene svelata già in un altro film di Fassbinder del 1970, Il soldato americano. Nel monologo l’attrice e regista Margarethe von Trotta racconta,22Si sta per suicidare, atto estremo che compiono molti dei personaggi femminili di Fassbinder.
con l’incipit “La felicità non è sempre allegra”,33Il titolo in La paura mangia l’anima è preceduto dal motto “La felicità non è sempre piacevole”: già da subito il regista frustra le aspettative dello spettatore lasciando intendere che la vicenda non avrà lieto fine.
di una donna chiamata Emmi la quale, durante un temporale, decide di ripararsi in un’osteria frequentata da immigrati. Lì incontra e s’innamora di un uomo.
La principale fonte di ispirazione per la realizzazione di La paura mangia l’anima, girato in sole due settimane, è stata il film Secondo Amore, diretto nel 1955 da Douglas Sirk. Nel film hollywoodiano una ricca vedova, interpretata da Jane Wyman, si innamora di un giardiniere (Rock Hudson), molto più giovane di lei. Nonostante il contesto sociale di cui fa parte il personaggio di Jane sia molto più upper rispetto a quello di Emmi, le due donne vengono disprezzate in egual misura dalla comunità e dai loro cari. Seppur all’interno dei limiti del cinema hollywoodiano, Secondo Amore riesce nel descrivere la meschinità tipica di una cittadina americana in piena era Eisenhower. Tuttavia, Fassbinder va più a fondo e ricerca le “radici sociali del disprezzo contro la coppia Alì/Emmi” (Magrelli, Spagnoletti, 1983), setaccia l’ordinario per scovarvi il germe dell’intolleranza. Quello di Fassbinder è sicuramente un cinema che si interroga, che pone domande ai suoi personaggi. Basti pensare all’episodio del regista all’interno del film Germania in autunno, in cui sottopone sua madre a un vero e proprio “terzo grado”.44Titolo originale Deutschland im Herbst, 1978, diretto da A. Kluge, R. W. Fassbinder, V. Schlöndorff, A. Brustellin, B. Sinkel, K. Rupé, H. P. Cloos, E. Reitz, M. Mainka e P. Schubert.
Viene messa alle strette dopo una serie di domande incalzanti: ciò che emerge è la concreta possibilità di un ritorno del nazionalsocialismo.
Comunque sia, i contesti cinematografici di riferimento di questi due film sono ben diversi. Se da un lato vi è quello del Neuer Deutscher Film degli anni ’70, dall’altro vi è invece quello hollywoodiano della metà degli anni ’50. Insomma, da una parte abbiamo i vincitori della Seconda guerra mondiale, dall’altra, il popolo tedesco, terribilmente bisognoso di riflettere su se stesso a decenni di distanza dalla disfatta bellica. Il germe del male è ancora presente nel quotidiano, unitamente a una visione gerarchica della società.“…Il germe del male è ancora presente nel quotidiano, unitamente a una visione gerarchica della società.” Si pensi alla scena in cui Emmi viene isolata dalle colleghe durante la pausa pranzo. La stessa situazione si ripresenta nel momento in cui lei e le altre donne isolano una nuova assunta solo perché appartenente a “una fascia di reddito più bassa” rispetto alla loro (fotogramma 8 e 9). Oltretutto Emmi parla di Hitler con innocenza, come fosse un qualsiasi personaggio famoso. Nel momento in cui chiede ad Alì se lo conosce, sembra infatti che stia parlando di un attore: spiega che lei e suo padre erano nel partito poiché alla fin fine erano tutti iscritti. Inoltre, per festeggiare il matrimonio, i due pranzano in un ristorante italiano, “il preferito di Hitler”. Emmi ed Alì (fotogramma 4) siedono al tavolo e fissano la cinepresa. I due personaggi sono incorniciati da una porta che invita lo spettatore a guardarvi all’interno. Si tratta dell’unico momento di debrajage presente nel film: un giovane marocchino e un’anziana donna tedesca festeggiano la loro complicità sullo stesso tavolo in cui mangiava colui che li avrebbe voluti annientare. È un’immagine di speranza e forse il regista intende comunicare che qualcosa è cambiato rispetto agli anni passati.
Il tema della cornice ricorre frequentemente all’interno del film, (fotogramma 7, 8, 9 e 1) spesso sotto forma di quadri raffiguranti tipici paesaggi tedeschi (si veda più avanti), finestre o, per l’appunto, porte. Queste vengono aperte e chiuse ripetutamente in tutto il film. Spesso inquadrate da un interno o da un esterno, rappresentano un vero e proprio limen oltre cui è possibile mutare la propria condizione. Già nella prima immagine della prima sequenza, per esempio, compare Emmi che, con fare teatrale, entra in scena attraversando la porta d’ingresso del bar, mentre alla fine della medesima sequenza la stessa porta è attraversata sempre da Emmi ma in senso contrario, dall’interno all’esterno. Tuttavia vi è una novità: si ha infatti un cambiamento nella condizione di solitudine di Emmi che va via dal bar insieme al giovane Alì. Infine si potrebbe dire che la prima immagine con cui si apre la seconda sequenza, immediatamente successiva a quella appena descritta, può rappresentare la sintesi tra le due precedenti: la porta è inquadrata dall’interno, come nella prima immagine della prima sequenza, ma ad aprirla dall’esterno non è più la sola Emmi, ma sono lei e Alì. Altri elementi ricorrenti nel film sono di natura tecnico-stilistica. Utili per far comprendere allo spettatore certi ruoli ricoperti all’interno della narrazione, alcuni iniziali movimenti di macchina informano su quali siano i personaggi della vicenda, come le due carrellate su Alì ed Emmi nella prima sequenza. Ulteriori elementi, invece, dalla funzione più sintattica, riguardano la messa in serie delle sequenze (Casetti, di Chio, 1990). Ciascuna sequenza è legata alla successiva tramite due opzioni: stacco netto o alla dissolvenza in nero. La prima soluzione stilistica prevale numericamente sulla seconda, tuttavia la dissolvenza in nero assume funzione di interpunzione drammatica tra una sequenza e l’altra. Seguono infatti alcuni dei momenti più drammatici del film, come ad esempio quando Emmi dà prova di lucidità nel difendere Alì dalle accuse pregne di razzismo della portinaia, o quando Alì tradisce Emmi con la proprietaria del bar, dalla fisicità “generosa”, stereotipicamente “tedesca”.
Confrontando il film con Secondo amore è interessante far presente un particolare: il ruolo che gioca la televisione nel sottolineare come, nonostante i contesti di riferimento siano molto diversi, i tempi sono cambiati. Se infatti in Secondo Amore la protagonista si rifiuta di comprarla, offrendoci uno spaccato dei pregiudizi che al tempo erano rivolti a una donna vedova con una televisione in casa, in La paura mangia l’anima Emmi ne possiede una, e se non fosse per il calcio di rabbia che uno dei figli le sferra dopo aver saputo di Alì, probabilmente nemmeno ce ne saremmo accorti. Altro fatto interessante: entrambi i figli provvedono affinché le loro madri ne abbiamo una. Infatti in un secondo momento il figlio di Emmi risarcirà opportunisticamente la madre; mentre in Secondo amore, alla fine, ne verrà regalata una alla donna contro ogni sua volontà.
Quella di Emmi e Alì è una storia di conflitti che a tratti assume i toni di una lotta per la sopravvivenza. La famiglia, la coppia, hanno ruolo di riparo. Famiglia, dunque, come luogo in cui può avvenire una catarsi, in cui i conflitti si stemperano e vengono controllati. Alì rappresenta una figura in grado di colmare i vuoti della donna, ma la complicità è bilaterale. C’è una sequenza in cui l’unione tra i due personaggi viene sancita da un gesto in particolare. Alì si trova nella stanza in cui è ospite a casa di Emmi e non riesce a dormire. La sua figura in orizzontale è sovrastata da un quadro appeso al muro raffigurante un tipico paesaggio tedesco: un lago, un edificio, probabilmente un castello dal tetto molto spiovente. Il quadro in questione, “luogo” chiuso delimitato dalla cornice e posizionato al di sopra della figura di Alì, sembra rappresentare il loop mentale di autocommiserazione di cui Alì fatica a liberarsi. Ed è proprio questo sommovimento interiore che lo porta a bussare alla porta di Emmi, anche lei insonne: “La luce” e “il buio”, quindi, si congiungono grazie alle mani dei due personaggi che si stringono l’una nell’altra.
Alla base di questa scena vi è un sistema semisimbolico: alla parte illuminata della stanza corrisponde la figura di Emmi, mentre a quella buia la figura di Alì. Inoltre, a queste due coppie di categorie ne corrisponde una ulteriore, che si innesta sulla precedente, ovvero i diversi colori della pelle dei due protagonisti:
Da questo punto in poi i due saranno complici l’uno dell’altra. Tuttavia, i conflitti continueranno a minare la loro relazione finché l’esterno, il contesto sociale in cui è ambientata la vicenda, smetterà di esercitare la sua influenza verso l’interno. Successivamente, in un secondo momento i conflitti emergeranno in modo drammatico anche all’interno della coppia. Come in Sirk i due non possono vivere da soli, ma sono anche “incapaci di vivere insieme” (Fassbinder, 1988). Dopotutto questa è la vita. E spesso è proprio la vita degli attori e delle attrici dei suoi film a ispirare fortemente il regista.
A El Hedi Ben Salem è dedicato l’ultimo film di Fassbinder, Querelle de Brest, del 1982, anno in cui il regista apprende della sua morte (avvenuta nel ’77). L’attore, molto caro al regista, muore di infarto in un carcere di Parigi, città in cui era scappato dopo essere stato coinvolto in una rissa a Berlino. Aveva tra i 35 e i 38 anni, ed è normale l’approssimazione, poiché tra i berberi la data di nascita non è mai registrata con precisione. Nato in Tunisia, trascorre la propria vita a girovagare. Impara l’alfabeto arabo e quello latino da autodidatta. A dire di Fassbinder, “ci sono tante storie come la sua” (Magrelli, Spagnoletti, 1983), e per El Hedi Ben Salem, così come per Brigitte Mira, La paura mangia l’anima ha molto di autobiografico. Ed è probabile che l’attrice sia riuscita a identificarsi in pieno nel ruolo di Emmi anche grazie alla somiglianza tra le vicende del film e quelle della propria vita.
La paura mangia l’anima è un film di finzione ma estremamente verosimile, in grado di aprire uno spaccato sulla società tedesca della prima metà degli anni ’70 e sugli stereotipi e i pregiudizi che ne influenzavano le pratiche sociali. Infatti, ciò che il regista intende far emergere è che, nonostante siano passati diversi decenni dalla sconfitta del nazionalsocialismo, quella tedesca si dimostra una società in cui si palesano ancora forme di intolleranza nei confronti di certe categorie sociali minoritarie, nello specifico immigrati arabi e donne, specie se anziane. L’intolleranza si manifesta però nel momento in cui i soggetti appartenenti a queste categorie iniziano ad assumere comportamenti non conformi a quelli attribuiti alla loro posizione sociale, fatto particolarmente evidente nel personaggio di Emmi. Come già evidenziato, il film è metaforicamente ricco di cornici che delimitano i personaggi in ruoli sociali ben precisi. Questi confini-cornici vengono anche attraversati, da Emmi e Alì, gli unici personaggi “mobili” della vicenda. Seppur conoscano quali siano i comportamenti consoni ai loro ruoli sociali, decidono di ignorarli, di migrare oltre i loro confini e di incontrarsi. L’emblema di questo incontro tra esistenze è già stato citato in questo scritto (fotogramma 3). Sanzionano la ribellione ai ruoli sociali di appartenenza tutti gli altri personaggi, a esclusione dell’affittuario di Emmi, che è l’unico a prendere apertamente la loro difesa di fronte alle malelingue delle inquiline del palazzo (min. 56:29).
Il film risulta diviso in due parti in relazione al modo di comportarsi dei personaggi evidenziati in blu nello schema in alto: prima in modo sanzionatorio poi in modo opportunistico.
Sono le colleghe di Emmi le prime a parlare male di quelle donne che, nonostante la loro età e la loro nazionalità tedesca, si innamorano di uomini arabi più giovani: «Per quelli non c’è nulla di sacro, neanche la vecchiaia», «Vivono sulle nostre spalle, tutti i giorni stupri o cose del genere», «Eppure ci sono donne tedesche sposate con immigrati», «Chiaro, ce ne sarà sempre qualcuna che non ha schifo di niente», «Io non ce la farei proprio, che vergogna». Inoltre, gli immigrati arabi in Germania sono anche “single”, dunque privi della rispettabilità che potrebbe avere un capofamiglia (Bellassai, 2004). La disapprovazione aumenta nel momento in cui subentra anche la differenza d’età: «Nel nostro quartiere ce n’è una, ha almeno cinquant’anni, con lei non parla più nessuno».
Non appena Emmi compare nella vicenda, viene subito schernita per il semplice fatto di essere una donna anziana, quasi come se la vecchiaia, a mano a mano, stesse scomparendo dall’immaginario collettivo in quegli anni di rivalsa giovanile. Già nella prima scena, la barista dice di Emmi: «La vecchia è suonata, chiacchiera, chiacchiera, forse non parla con nessuno tutto l’anno». Sembra sia proprio la differenza d’età a scatenare più di ogni altra cosa la disapprovazione da parte di tutti i personaggi femminili, tant’è che in più scene del film il rapporto tra Emmi e Alì viene addirittura etichettato come “contro natura”. Una delle più accanite nei confronti di Emmi è la giovane ragazza mora, abitudinaria frequentatrice del bar. Chiama Emmi con l’appellativo “quella vecchia puttana” ed è lei a dire che la relazione tra i due finirà sicuramente male perché “contro natura”. Una donna anziana che ha una relazione con un uomo più giovane di lei non è socialmente accettabile. In una logica patriarcale ed eteronormativa, che è quella della società occidentale contemporanea, è decisamente più accettabile che sia il soggetto maschile, rispetto a quello femminile, ad avere più anni. In fondo, il personaggio di Emmi ricalca un modello figurativo (Casetti, di Chio, 1990) che risale molto indietro nel tempo, ovvero quello della fattucchiera, una donna vecchia, ammaliatrice e dalla doppia faccia. Infatti, come può essere riuscita a conquistare il giovane Alì se non con un incantesimo?
Scavando nei significati del testo a un livello semio-narrativo profondo, con riferimento alla teoria greimasiana del percorso generativo del senso, si rintraccia l’opposizione tra due termini contrari con i quali è possibile costruire un quadrato semiotico (fotogramma 11) (Volli, 2003). Se si confrontano i corpi di Emmi e Alì, la prima differenza che salta agli occhi è che quello di Emmi è un corpo “ruvido”, raggrinzito dalle rughe, “floscio”, mentre quello di Alì è un corpo “liscio” e “muscoloso”. Il disappunto che la maggior parte dei personaggi provano vedendo i due protagonisti ballare insieme o passeggiare ha a che fare con la dissonanza tra i loro corpi e, almeno in parte, è proprio da questa dissonanza che scaturisce il sentimento del “contro natura”.
Come Alì rappresenta un modello di mascolinità tutt’altro che ordinario, anche Emmi e il suo comportamento sono fuori dagli schemi: oltre che essere una donna anziana in grado ancora di avere degli istinti sessuali, anche lei, come Alì, non è una vera tedesca, e il suo cognome lo svela. Svolge inoltre un lavoro umile che lei stessa ha difficoltà a rivelare ad Alì. Ma Emmi è sostanzialmente una donna sola, vedova, come la protagonista di Secondo Amore, con tre figli che ormai conducono ognuno la propria vita. Ciononostante, alcuni piccoli indizi fanno capire allo spettatore che Emmi, anche se sola, nutre ancora un sentimento di speranza: per esempio, indossa sempre abiti molto colorati. Entra nel bar per ripararsi dalla pioggia e ha indosso un cappotto scuro, ma quando Alì la invita a ballare il suo comportamento ci fa comprendere che non stava aspettando altro. Emmi si toglie il cappotto e mette in mostra un coloratissimo abito giallo, elemento antitetico all’idea che avevamo di lei sino a poco prima (fotogramma 2). Un ulteriore indizio è sicuramente la bottiglia di cognac che conserva in cucina, da offrire a chi intendesse farle visita. Per lo stesso motivo, nel mobiletto del bagno ha almeno dieci spazzolini, per eventuali ospiti; e infine, racconta ad Alì di un dirigente della ditta in cui lavora che di tanto in tanto la manda a prendere da una limousine che lei di certo non rifiuta. Tutto ciò fa di Emmi un personaggio aperto alle novità, ed è per questo motivo che non può rifiutare un ballo con il giovane Alì.
Ancora a un livello semio-narrativo profondo, il film racconta anche del confronto tra altri due corpi, quelli di Eugen e di Alì. I loro corpi, fisicamente, non si scontrano mai: il conflitto che li coinvolge e che li schiera l’uno contro l’altro è di natura estetica. Entrambi sono espressione di due rispettive mascolinità: egemonica (Bellassai, 2004) quella di Eugen, interpretato da Fassbinder stesso, e minoritaria quella dell’immigrato marocchino Alì. Per “mascolinità” qui si intende: «Differenti modi di essere o di voler essere maschi in termini sociali e simbolici all’interno di diversi contesti storici e culturali» (dell’Agnese, 2007:3).
Per essere più precisi, tale definizione si riferisce al termine inglese masculinity, più corretto del corrispettivo italiano associato alla “virilità”, dunque a un essere maschile dominante e aggressivo. I modi di essere maschili di Eugen e di Alì si trovano esattamente agli antipodi. Eugen lavora come manovale e vive malissimo il fatto che il suo capo sia un immigrato arabo. È un frustrato, e appena può se ne sta a casa e impartire ordini alla compagna (interpretata da Irm Hermann). Il suo fisico è quello di Fassbinder (fotogramma 10): fuori forma, pallido, beve birra seduto nel salottino di una modesta casa. Anche Alì beve birra, ma al bar, fatto che di per sé lo rende già un personaggio più attivo rispetto a Eugen. Alì, inoltre, non può permettersi di saltare nemmeno un giorno di lavoro: il suo capo è un tedesco che, a suo dire, tratta i dipendenti di origine marocchina come fossero animali. Il personaggio interpretato da Fassbinder è sostanzialmente un complessato. Ciò che realmente teme non è che in Germania gli immigrati stiano rubando posti di lavoro ai cittadini tedeschi, ma l’inevitabile confronto, che i fenomeni migratori necessariamente comportano, tra ciò che ha sempre considerato mascolino e un differente modo di essere maschili.
Il corpo di Alì, d’altronde, è molto diverso da quello di Eugen: oltre ad avere la pelle scura, Alì è anche molto muscoloso (fotogramma 5 e 6). Nel film, il muscolo assume una doppia valenza, da un lato erotica e dall’altro legata al potere. Nel primo caso, sono diversi i momenti all’interno del film in cui quando si parla di arabi si fa subito riferimento alla loro prestanza fisica, talvolta anche in termini di brutale istinto animale. «Ad alcune donne va bene così. Non hanno nessuna cultura. Hanno solo il sesso nel cervello. Mi vergognerei, fossi una di quelle», afferma una delle colleghe di Emmi a proposito delle donne che si intrattengono in relazioni amorose con gli arabi. E continua: «Io l’ho sempre detto che sono puttane quelle che si invischiano con quelli». A dire di questa donna, parrebbe che gli arabi siano buoni solo per il sesso, fatto che contribuisce a ipersessualizzare il loro corpo, e quello di Alì non è certo esente da questa attribuzione di valore. Le stesse donne, poi, in un momento di ipocrisia mista a ruffianesimo nei confronti di Emmi, diranno di Alì: «Mica male» (fotogramma 6). Infatti, nel momento in cui si troveranno di fronte il giovane arabo, da Emmi esposto come un fenomeno da baraccone, le donne non riusciranno a trattenere espressioni maliziose verso i suoi muscoli e la sua sessualità in generale: «Ci sa fare», dice persino Emmi con vanto di fronte alle amiche. Insomma, in questa scena, la figura di Alì è fortemente oggettivizzata: dopo essere stato esposto e palpeggiato dalla schiera di donne, decide di andarsene. Emmi, per non dare scandalo, continua ad annullarne la soggettività (e la sensibilità) dicendo «A volte fa di testa sua, è così, un’altra mentalità», riferendosi al suo compagno quasi come fosse un gatto da appartamento. D’altronde, una caratteristica tipica del cinema di Fassbinder è proprio quella di frustrare i sentimenti di empatia dello spettatore verso i suoi personaggi: non esistono buoni o cattivi, non esiste bene e male, esistono gli umani, capaci sia dell’uno che dell’altro.
L’altra accezione del muscolo è quella di strumento di potere e mezzo della sua affermazione. Dal momento in cui in tutta la narrazione l’unico a possedere realmente dei muscoli è Alì, questo genera un “senso di vulnerabilità” nei confronti degli esponenti della mascolinità egemonica “ospitante”. Sostanzialmente, il muscolo va bene solo se rivestito di pelle chiara (Bellassai, 2004). Se è invece proprio di fisicità “altre”, rischia di mettere a repentaglio l’identità mascolina tradizionale così tanto strenuamente costruita e, in passato, già fortemente debilitata, per esempio, dai grandi avvenimenti bellici del ’900. Il genere può dunque essere una chiave di analisi per comprendere anche gravi fenomeni come il razzismo. E non è raro che anche nella cronaca italiana più recente compaiano dichiarazioni che fanno pensare più a un complesso atavico verso la fisicità africana che a un odio razziale tout court. È il caso, per esempio, della frase pronunciata nell’agosto 2018 dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini: una sfilata di “palestrati” è stato il suo commento verso gli uomini e le donne rimasti per giorni all’interno della nave Diciotti senza la possibilità di scendere (Gangi, 2018). Spesso gli uomini di colore vengono infatti accusati di ostentare il loro corpo, e da qui ad accusarli «di comportamenti sessualmente devianti» il passo è davvero breve (ibidem).
Bellassai sottolinea che dagli anni ’60 del ’900 la nuova ridefinizione di mascolinità si scontra con la diffusione esponenziale dei beni di consumo, diffusione a cui corrisponde la ridefinizione di nuovi stili di vita. “L’uomo nuovo” è un uomo moderno, al passo con i tempi e aperto ai cambiamenti. Questa seconda ondata di modernità, proprio come quella tra ’800 e ’900 tramite cui le donne hanno conquistato diritti civili minimi, mieterà tuttavia le sue vittime. Eugen dà prova di mantenere una certa resilienza nei confronti del cambiamento e vive in un costante “stato di assedio” (Bellassai, 2004:48). L’infezione tipicamente novecentesca che si sta propagando “dalla periferia al centro del corpo sociale” (Bellassai, 2004:33) è quella dell’avanzata di donne che, così come altre categorie “socialmente minoritarie” quali omosessuali e uomini (e donne) di colore, guadagnano sempre più potere e visibilità nella sfera pubblica, ricoprendo anche posizioni gerarchicamente superiori a quelle dei soggetti mascolini tradizionali. Questi, con la perdita di una posizione di totale egemonia, sperimentano e somatizzano la nevrosi, se non proprio lo stress, che infiacchisce i corpi e li rende “non muscolosi”, seguendo la terminologia del quadrato semiotico (fotogramma 11).
Eugen è un pavido, Alì, invece, non ha paure. Infatti, il titolo tedesco del film conserva la sgrammaticatura del verbo essen, “mangiare”, che viene lasciato all’infinito senza essere coniugato.55Essendo il soggetto della frase Der Angst, una terza persona singolare, la coniugazione esatta del verbo essen sarebbe dovuta essere isst.
Il titolo assume quindi valenza enunciazionale poiché contiene al suo interno l’errore grammaticale“…Il titolo assume quindi valenza enunciazionale poiché contiene al suo interno l’errore grammaticale”, l’enunciato di una soggettività, quella di Alì, la quale enuncia se stessa come soggetto (Volli, 2003). Sebbene non parli perfettamente tedesco, Alì non è incapace di produrre frasi anche molto profonde come quelle tramite cui cerca di consolare Emmi spaventata per aver realizzato che non sarà affatto semplice farsi riaccettare dalla sua cerchia sociale ora che ha sposato Alì. L’uomo le dice che non deve avere paura, che lui non ha paura, perché «la paura mangiare l’anima». Lui non ha paura perché ha esperito il male, mentre Eugen vede in lui qualcosa che «riflette la nostra stessa vulnerabilità umana e al contempo, poiché sappiamo di vivere con più agio, il suo arrivo ispira il timore di qualcosa che ci sarà tolto. Dietro l’angolo, immaginiamo il mostro della sottrazione» (Dubosc e Edres, 2017).
In sintesi, sebbene La paura mangia l’anima sia un film ricco di suggestioni ed elementi che potrebbero aprire a molteplici scenari di analisi, in questo testo si è ritenuto opportuno mantenere un focus sui personaggi e, in particolare, sulle fisicità di alcuni. Sono stati inclusi in un quadrato semiotico quattro corpi in particolare: quelli di Eugen, Alì, Emmi e della barista, proprietaria del locale frequentato da Alì. Le difficoltà maggiori sono state riscontrate nella disposizione e nella scelta delle categorie utili a sintetizzare le fisicità dei personaggi. Un occhio allenato al cinema di Fassbinder e all’uso che il regista fa dei corpi degli attori, già dalla prima visione del film, intuisce che nulla è casuale. La storia della complicità affettiva tra i personaggi interpretati da El Hedi Ben Salem e dalla abilissima Brigitte Mira stona. Stona perché manda in cortocircuito le aspettative dello spettatore, nutrite anche da stereotipi riguardo ruoli e posizioni di potere: non è consigliabile a una donna anziana come Emmi intrattenersi in relazioni ambigue con un uomo molto più giovane di lei, per di più straniero, il quale si rivelerà sicuramente un approfittatore. I loro corpi sono uno il contrario dell’altro: uno femminile, l’altro maschile, Emmi ha la pelle chiara, Alì scura, in uno sono incisi i segni del tempo, mentre l’altro è ancora molto giovane.
La questione si complica nella scelta dei due subcontrari. Il personaggio di Eugen è stato messo a confronto con Alì in quanto, tolto il fatto che siano entrambi soggetti maschili e abbiano grossomodo la stessa età, ne rappresenta il contrario mascolino: Eugen ha la pelle chiara, Alì scura; il corpo del primo non è allenato, quello del secondo è muscoloso. Si potrebbe anche accennare al fatto che quest’ultima distinzione si attua a un livello più superficiale con una categorizzazione di Eugen come tipo “passivo”, e una di Alì come tipo “attivo”.
La figura della barista occupa infine l’ultimo angolo del quadrato semiotico. Non è stato semplice ritracciare all’interno del testo un referente per la categoria “non-floscio”, specificata dalla dicitura “non ruvido”. Di grande aiuto è stato quindi disporre i quattro personaggi lungo un continuum semantico che va da “non erotico”, Emmi e Eugen, a “erotico”, Alì e la barista. Infatti, è proprio tra questi ultimi due che si consumano le uniche (due) scene di passione del film. Sarebbe interessante un’analisi più approfondita riguardo a come si esplicano a livello più superficiale e discorsivo questi rapporti tra tipologie di corpi. In ultimo, il contributo della sociosemiotica, se non proprio delle scienze sociali (sociologia), potrebbe ulteriormente approfondire quanto espresso qui su corpi e relazioni di potere.
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Francesca Stelluti frequenta il corso di Laurea Triennale in Sociologia e Ricerca Sociale presso l’Università di Trento e si specializza a Torino in Comunicazione e Culture dei Media con una tesi che analizza il rapporto tra Information Visualization e Semiotica. Caso studio, le infografiche del South China Morning Post. Collabora come Assistente Curatoriale nell’Associazione Culturale IN Residence Design.
S. Bellassai, La mascolinità contemporanea, Carocci, Roma, 2004.
F. Casetti, F. di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990.
E. Dell’Agnese, Tu vuo’ fa l’Americano: la costruzione della mascolinità nella geopolitica popolare italiana, in E. Dell’Agnese, E. Ruspini (a cura di), Mascolinità all’italiana: costruzioni, narrazioni, mutamenti, UTET, Torino, 2007, pp. 3-34.
R. W. Fassbinder, I film liberano la testa, Ubulibri, Milano, 1998.
M. Gangi, Nave Diciotti, Fava: Salvini parla di palestrati? Salga a bordo, parli con loro e senta le loro storie, in «Il Fatto Quotidiano», 23 agosto 2018, ultimo accesso: 11 dicembre 2018.
E. Magrelli, G. Spagnoletti, Giovanni, Tutti i film di Fassbinder, Ubulibri, Milano, 1989.
U. Volli, Manuale di Semiotica, Laterza, Roma-Bari, 2003.
Si consiglia inoltre la visione dei seguenti film.
A. Brustellin, H. P. Cloos, R. W. Fassbinder et al., Germania in autunno, lungometraggio, 124 min, 1978.
R. W. Fassbinder, Reiner W. 1970. Il soldato americano. Lungometraggio, 80 min.
Id., La paura mangia l’anima, lungometraggio, 94 min, 1974.
Id., Querelle de Brest, lungometraggio, 108 min, 1982.
D. Sirk, Secondo amore, lungometraggio, 89 min, 1955.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.