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Le forme pop della didascalia
Project, 12 March 2019
Collaborazione

Le forme pop della didascalia

L’uso della didascalia nel contesto museale e la descrizione dell’immagine nell'epoca della cultura visiva: una riflessione scaturita dal secondo appuntamento di Q-RATED (Quadriennale di Roma).

Stockholm Syndrome Sonnet, Notes on Glaze, courtesy Oliver Wasow.

 

Il resto dell’immagine è il terzo appuntamento di Q-Rated, progetto di formazione ideato da Quadriennale di Roma che, grazie alla sua struttura itinerante, offre l’opportunità ad artisti e curatori italiani under 35 di entrare in contatto con direttori, curatori, artisti e teorici internazionali, attivando e contribuendo ai dibattiti contemporanei che maturano da e nella pratica artistica. Il workshop, svolto a dicembre 2018, si è tenuto al Castello di Rivoli e si è sviluppato nel corso di tre giornate: la prima, condotta da Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del museo torinese, la seconda, da Sofía Hernández Chong Cuy, direttrice del centro di arte contemporanea di Rotterdam Witte de With, e la terza, dedicata al simposio sull’intelligenza artificiale promosso dal Castello di Rivoli e curato da Hito Steyerl, l’artista che ha concepito The City of Broken Windows / La città delle finestre rotte, mostra temporanea del Castello a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio.

KABUL magazine ha partecipato al workshop con l’obiettivo di raccontarne lo svolgimento. Qui il resoconto della prima giornata.


Tra la primavera 2010 e l’inverno 2015, la rivista «Cabinet» invita il poeta e critico Wayne Koestenbaum a scrivere regolarmente per la rubrica “Legend”, uno spazio editoriale dedicato alla descrizione dell’immagine. Ogni tre mesi i redattori del magazine chiedono a Koestenbaum di scrivere una o più didascalie estese relative a una fotografia da loro selezionata, titolo incluso. Le immagini, «tratte da fonti vernacolari, commerciali e scientifiche», oltre a essere totalmente decontestualizzate dalla loro fonte, dovevano giungere come inedite agli occhi dell’autore, chiamato a osservarle e a descriverle per la prima volta. Notes on Glaze, pubblicazione edita nel 2016, raccoglie le 18 didascalie. Quelli che in prima battuta giungono al lettore come semplici esercizi di scrittura, a una lettura più attenta lasciano trasparire il diretto coinvolgimento dell’autore, il quale riesce a creare linee di diretta continuità con la sua vita privata, il proprio vissuto, mettendo spesso a nudo tra le righe alcuni spaccati di profonda intimità. Un aspetto interessante che emerge è che il disinteresse critico, tipico della didascalia, nel corso dell’esperimento cede il passo all’empatia, al coinvolgimento discreto, alla vicinanza, aprendo la via a speculazioni di carattere estetico. Spaziando tra Duccio di Boninsegna e Barbara Streisand, l’autore ha voluto dar vita a un immaginario di personaggi, fonti, avvenimenti e ispirazioni tali da spostare l’attenzione rispetto ai contenuti e ai significati che originariamente appartenevano all’immagine di riferimento, per crearne di nuovi, estremamente personali.

Cat on Edge, Notes on Glaze.

Che cosa resta di un’immagine nel passaggio da un medium all’altro? A partire da questa suggestione, Sofía Hernández Chong Cuy ha avviato una prima conversazione con i partecipanti al workshop, invitandoli a eseguire alcuni esercizi di scrittura.

Descrivere un’immagine. Fotografarla. Pubblicarla su un social network o su un libro: questa fluida mobilitazione visiva implica un continuo cambio di contesto che incide inevitabilmente sulla percezione dell’immagine stessa da parte di colui che la fruisce, nonché sull’interpretazione del suo significato. In questi passaggi, l’immagine, che viene concepita come tutt’altro che conclusa, se da un lato perde per strada alcuni significativi tratti caratteristici, dall’altro ne acquista di nuovi: «To think about one’s own ephemera, all the images and stories we’re all always in the process of creating and leaving behind. Koestembaum’s poised and acrobatic sentences give these orphans a new home». Tale aspetto può caratterizzare anche il processo vitale di un’opera, nel momento esatto in cui l’artista decide di consegnarla al mondo.

Durante la prima fase del workshop Sofía Hernández Chong Cuy ha chiesto ai ragazzi di portare a termine il seguente esercizio: descrivere attraverso le parole un ricordo, un momento, un avvenimento del passato, come se dovessero descrivere un’immagine. Qualcuno ha rievocato scorci visivi, dettagli fattuali, mentre qualcuno ha descritto azioni, odori, sogni (alcuni dei ricordi descritti dai partecipanti sono stati pubblicati in calce a questo articolo come restituzione dell’esercizio).

Wayne Koestenbaum, Three Women, Notes on Glaze.

Ricordare significa scavare nella propria memoria per far riaffiorare qualcosa che, pur essendo avvenuto nel passato, dovrà essere rielaborato con gli occhi del presente. Come tradurre questo scarto temporale in un’immagine? E soprattutto come rendere in modo comprensibile e attinente alla verità un ricordo rivolgendosi a un interlocutore che, a sua volta, potrebbe elaborarne i contenuti in base alla propria storia e al proprio bagaglio culturale?

Un esercizio apparentemente così semplice ha evidenziato la difficoltà di dover offrire elementi esaustivi e facilmente comprensibili. Saper rendere l’idea di un odore, di un’atmosfera, di uno stato d’animo – spiega Sofía Hernández Chong Cuy – implica la necessità di fissarlo nella memoria, arrestarlo temporaneamente, per riuscire a sviluppare in modo razionale tutta la sua complessità.

La descrizione comporta un lavoro analitico entro cui il racconto dei dettagli, dei riferimenti temporali e spaziali non può essere tralasciato. Tuttavia, è altresì necessario un esercizio critico attraverso cui selezionare ciò che è meritevole di essere esternato e ciò che invece può essere tralasciato o demandato all’immaginazione di chi ci ascolta. In quest’ottica lo spettatore, sia esso un ascoltatore o il visitatore di una mostra, può diventare interprete dell’opera o del messaggio, e conferirgli un significato del tutto personale, talvolta inedito e distante dall’originale.

All’inizio la didascalia costituiva la parte non dialogica di un testo teatrale. Via via ha assunto, tuttavia, la forma più funzionale dell’“istruzione”, ovvero di una frase sintetica particolarmente esplicativa riferita a un concetto o a una serie di informazioni, o più correttamente di un insegnamento. La forma scritta è stata pertanto sovraccaricata di una responsabilità etica.

parlare di immagini significa assumere una posizione politica.

L’uso poliedrico della didascalia in Italia è stato ampiamente sdoganato da Alberto Garutti che, ereditando tale inclinazione dalla tradizione concettuale, ha alleggerito e semplificato la sintassi della didascalia per attivare una dinamica di relazione tra l’opera d’arte, che formalmente coincide con la didascalia stessa, e il pubblico. Da un lato la didascalia attira il pubblico nella comprensione dell’opera, mentre dall’altro attiva un cortocircuito concettuale che invita a riflettere sull’immatericità dell’opera attraverso l’affermazione di se stessa. È in questo modo che l’artista restituisce all’opera d’arte una forza al tempo stesso poetica e sociale.

How to take a screenshot on your Mac.

La seconda parte della giornata è proseguita approfondendo la questione dell’uso della didascalia all’interno del contesto museale. Considerata ormai come strumento fondamentale a disposizione del frequentatore di mostre, la didascalia, accompagnata da una serie di strumenti informativi cartacei inseriti nel percorso espositivo (fogli di sala, testi a muro, etichette ecc.), ha assunto persino una valenza didattica.

Nel saggio Wal Text. What Makes a Great Exhibition? (2006), Ingrid Schaffner mette a fuoco gli aspetti positivi e negativi che caratterizzano la presenza dell’elemento testuale all’interno del contesto espositivo. Se da un lato il wall text è diventato una convenzione «paternalistica» e «spesso deprimente» attraverso cui si ritiene di poter educare le masse, dall’altro rappresenta un agile strumento di mediazione a disposizione del visitatore. È altresì vero che ogni tentativo di mediazione rappresenta un’interruzione, un’intromissione nel processo di contemplazione di un’opera e come tale va calibrato attentamente. Citando un articolo di R. Smith pubblicato sul «New York Times», Schaffner sottolinea quanto l’autorialità curatoriale abbia progressivamente soppiantato l’opera d’arte all’interno delle mostre, sfociando in esposizioni che comunicano soprattutto attraverso la presenza di etichette e cataloghi.

Joseph Kosuth, The Play of the Unmentionable, The Brooklyn Museum, 1990.

Particolarmente rappresentativo è, per Shaffner, lo storico caso dell’installazione di Joseph Kosuth presso il Brooklyn Museum, in cui la presenza della didascalia rappresenta un elemento essenziale nella morfologia della mostra, in quanto è sottoposta a un processo interpretativo non diverso dalla costruzione di un’opera d’arte, una mostra, una storia, una conoscenza.

Ripercorrendo le parole utilizzate da Shaffner, Sofía Hernández Chong Cuy ha quindi colto l’occasione per rimarcare l’importanza di riconoscere l’importanza della presenza di elementi testuali all’interno percorso espositivo, in quanto: «Wall text is an opportunity to transmit insight, inspire interest and to point to the fact that choices have been made is an ephimeral literature. It colours our experience, but is eminently forgettable. Is: to experience the object more fully charged».

Bertrand Lavier, Steinway & Sons (1987), pittura acrilica su pianoforte, 106x151x180 cm, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Stainway&sons è in una stanza che potrebbe essere abitata ma non lo è. In questa stanza potrebbe risuonare della musica da camera, ma non risuona. È la scultura di un pianoforte realizzata dipingendo un pianoforte. / Stainway&sons is a grandpiano sculpted with painture. It is located in a room tat could be inhabitated but it is not. In this room, chamber music could resound but it does not.
Didascalia di Nicola Lorini, Elena Radice, Sara Ravelli. Esercizio realizzato nell’ambito di Q-Rated Torino.

Sebbene non si possa perseguire una regola univoca nell’uso della didascalia, Schaffner – che, come ricorda Sofía Hernández Chong Cuy, quando scrive queste parole è alla direzione dell’Istituto d’arte contemporanea di Filadelfia – se ne individua la funzione formativa di “servizio”, ne dichiara anche l’autonomia sul piano formale e nella definizione della cornice curatoriale della mostra: «Labels speak for the curator, whose job it is to articulate the reason for an exhibition. When curators don’t use labels, or when labels are badly written, it may indicate that the show was only vaguely conceived from the start. All exhibitions, including monographic ones, are essentially essays. […] Labels have the potential of art itself, to be sensual, smart, and experimental».

Paradossalmente tale autonomia raggiunta può permettere alla didascalia di sussistere con più di un’immagine, e viceversa. Qualsiasi immagine, esattamente come nel già citato caso di Koestenbaum. Pertanto anche un’opera d’arte può essere catturata, ricontestualizzata e associata ad altri ambiti della cultura popolare. A tal proposito, Sofía Hernández Chong Cuy ha chiesto ai presenti di eseguire un secondo esercizio: individuare un’opera della collezione del Castello di Rivoli, associarla a un aspetto della cultura popolare contemporanea per scriverne una nuova didascalia.

La mediamorfosi dell’immagine contemporanea è caratterizzata da una moltitudine di riferimenti visuali e da una gestualità che ogni giorno eseguiamo senza rendercene conto. La ritualità dello scroll, o dello swipe up che quotidianamente mettiamo in atto su Instagram, per esempio, rientra in una serie di automatismi ormai connaturati e che hanno persino mutato il tempo di contemplazione che trascorriamo di fronte a un’immagine.

Secondo Georges Didi-Huberman, in qualsiasi caso e a qualsiasi livello, commentare un’immagine e parlare più in generale di immagini significa «assumere una posizione politica», vale a dire entrare nel merito dell’efficacia che tali immagini hanno sulla comunità. Ed è grazie a ciò che l’immagine sopravvive.

Di seguito si riportano alcuni esercizi realizzati dai partecipanti al workshop, ai quali è stato chiesto di descrivere un proprio ricordo come se stessero descrivendo un’immagine.

 

How to Swipe Up in instagram story.

Pietro Consolandi
I just woke up, as the soft morning light starts crawling in from the old stained window, hanging there for centuries.
Someone else is activating the engine which produces a tired roaring sound in the effort of lifting the iron-made, heavy and rusty window blind with its technology, kind of avant-garde for 1992 Italy.
I must be laying on my right side, too sleepy to properly open my eyes, still not able to talk and form rational thoughts, half awake and half dreamy.
I can turn my eyes to look at this brightly coloured plate, that I would later learn to be a souvenir from a weird past of my country. Anyway, I don’t pay attention to it: all I can see is moving stripes of shadow and light, climbing up the wall towards the ceiling.
I realize I must be one-year-old, before that memory there is just an unclear, ever-changing mist.

 

Collettivo DITTO
La figura più vicina è un alone luminoso di un bianco acceso, come un’eclissi al contrario, attorno emerge una cornice gialla spenta. Si scorge la sagoma del guerriero coleottero con la sua armatura verde smeraldo, che accecata brilla. Il flash accende la carrozzeria di una lussuosa macchina rossa. Al centro, il più valoroso tra tutti i guerrieri, il grande cyborg arancione con un bazooka al posto del braccio sinistro, ha un volto umano, sorride, è sicuro di sé e del suo gruppo.
Un enorme gorilla astronauta è una montagna bianca che si staglia sullo sfondo, mostra le proprie fauci. Un possente cavallo nero tiene le fila del gruppo, il suo occhio rubino è una spia accesa. Sono pronti a combattere.

 

Irene Fenara
Two flights and a turning landing
Ero nel mezzo.
Nel bel mezzo delle scale c’era un piccolo pianerottolo, ricoperto di moquette chiara.
Dall’ammezzato riuscivo a vedere sia il piano terra che il primo piano della casa, senza dover muovere più di tanto la testa o il corpo. Si trattava di quel punto in cui una scala rigira su se stessa e per cambiare direzione ha bisogno di una piccola sosta che ne permetta la deviazione. È il momento in cui un corpo rallenta la sua salita e consente alla rotazione di avvenire, trovandosi così faccia a faccia con i due piani differenti.
Del piano terra potevo vedere il grande e luminoso soggiorno pieno di piante e mobili di vimini disposti su un parquet scuro. La grande finestra che dava sul giardino illuminava abbondantemente tutto il salotto. La mia visione verso il basso era molto nitida, come se il piano terra facilmente visionabile fosse meglio conoscibile.
Il piano visivo è talmente ampio che non a caso la prospettiva dall’alto verso il basso è anche quella della sorveglianza. Ma è anche la prospettiva del selfie, quando la distanza dal dispositivo che ne inquadra la visione è quella di un braccio.
Il primo piano invece si presentava come uno scuro corridoio lungo il quale probabilmente si affacciavano le varie stanze della casa. La visione verso l’alto era misteriosa e non riuscivo a visualizzare la conformazione dell’architettura. L’attrattiva di immaginare cosa ci fosse lassù oltre il visibile è il motivo per cui non mi sono mai sentita nostalgica nei confronti delle cose che finiscono.

Mi ricordo molto poco dei miei primi anni ma quando penso al mio primo ricordo mi vengono sempre in mente queste scale. Mi piaceva quel modo di guardare (quasi) ovunque. Guardare su due piani fisici e visivi con opposte prospettive. L’essere nel mezzo delle scale mi permetteva di praticare la, altrimenti impossibile, multilocazione, la capacità di un corpo di essere contemporaneamente in due o più luoghi diversi, abilità attribuita in genere ad alcuni santi.
L’esperienza ubiqua è oggi espansa, non necessita di essere localizzata, le coordinate spaziali diventano superflue e tutto si muove verso un’immobilità solo apparente, come quella della terra mentre compie i suoi giri attorno al sole. Sulle scale mi sentivo in una temporanea stasi, dove a muoversi era solo il mio occhio, che esplorava attentamente prima un ambiente e poi un altro sentendosi infine in un terzo territorio sospeso che visto da fuori mi ricorda l’architettura della tortura di Sansone in una delle tarsie del coro di Lorenzo Lotto di Santa Maria Maggiore a Bergamo. L’architettura, nella raffigurazione, si sviluppa su due piani e l’occhio dell’osservatore sembra quasi essere al livello del pavimento del primo piano, per essere in grado di vedere contemporaneamente il sopra e il sotto ovvero il prima e il dopo. Lotto, infatti, concentra nella stessa scena più momenti temporali diversi, è un artificio con cui rappresenta contemporaneamente azioni successive nel tempo.

 

Nicola Lorini
I feel quite exhausted now, after climbing up steps made of stone for about 40 minutes.
I don’t know what to expect, there is nothing to expect I suppose.
Quite a lot of wind though, I can feel it flowing through my fingers, like honey: viscous and dense.
A sound of human excitement is coming from the other side of the hill. Flags and tunics.
I am in front of a wall, just concrete and sand, it is meant to prevent people and vehicles from falling in the underlying valley. In some parts the wall is open and I can see through the concrete, I can observe the horizon and the fragmented profile of the mountains.
An abandoned Sprite can, green and blue, is flying into a perpetual circle within a frame of one of these apertures in the wall. The wind is coming from both sides, the can can’t fall in the valley, it can’t move towards me either, it is suspended in this marginal space of air.
How nice would be the stop it, to kick it, grab it and squash it! I can’t, I can’t, it is still going.

 

Federico Pozuelo
The flag was white with the symbol of a football team. The flag was waving. It is on my window to tease my neighbors. In Carrara there is an active political life. It is full of anarchist and this matter of flags is kind of interesting. Why that flag is out there? Probably is part of my childhood when I did not understand that a football club is an institution. Maybe I should burn it, but I prefer to continue teasing my neighbors. The flag remains the situation of my country. The waving flag scared me, it is scaring me right now. The only thing that makes me feel better is that I bought it in a Chinese Store and was produced far far away, like the flags in my country.

 

Elena Radice
Les Glaneurs, chapter II
It is partially wrapped in bubble of plastic, placed where forgotten things use to belong, even though this is not its case. I’m not really sure about the place it should belong to.
The golden and linear frame used to mach perfectly with the 60’s style of grandmother’s wallpaper, the linear pattern made of creamy shiny stripes always looked as meant to be interrupted by that specific frame. Millet probably painted “les glaneurs” for that living room. The brownish tints of the field were the spontaneous pursuance of the sofa velvet, consumed, here and there, by generations of nephews jumping around.
Stories of the past, those actions of picking (something from the ground) frozen behind a glass, used to mix themselves with actions of the present: lights coming from the window, overlaying the “glaneurs” to reality on the go, coming from the outside.
My grandmother is one of them, and she loved to see what was going on outside, especially since, getting older, she couldn’t go out anymore.
Les glaneurs already belong to a museum, and there is a lot going on in front of them, and the wall paper on their back will stay, while ours has gone since a while.
They should not belong to an hidden place, they deserve actions to unfroze their action, they love to look at actions too, especially since they can’t move anymore.
Once the perfect wallpaper match is lost, one should be able to let it go, unwrap, and embrace it.

 

Davide Sgambaro
31 August 1989, birthday party.
Smell of pizza.
The only thing I know is that I’m dancing on my favourite carpet in the living room but I don’t know why I’m naked. Sometimes happens that I want to take off my clothes and feel free, especially with people around.
No pain, no gain.
These people are probably judging me as a kind of problematic young man, but my thinking is focused on being boring.
The carpet is very soft and my feet feel comfortable. In this room is very hot, but it’s not really true. I feel a little confuse.
Now I’m running, I think this man that is trying to catch me it’s my father but in the picture in my head is a black and white shape without any details. In the background I hear my angry mother. I hate her shouts.
Well, I’m young and a dancer, both stuff that I don’t play anymore.
The reason why I’m reliving this image right now is probably a kind of wish.
The wish to find a soft carpet to be able to return to dance over it, naked.
Off course the cake is a pizza.
Pizza is overvalued.

 

Caterina Shanta
Una civetta si appollaia sulla cima di un grande cactus: un Saguaro, tipico dei deserti americani, è una pianta centenaria che cresce per molti metri in altezza.
Un gruppo di Mariachi dorme ai suoi piedi, provengono da un vecchio film che guardavo quando ero piccola. Il set di questa storia era il deserto dell’Arizona, ed era un film da ridere, The three amigos, girato nel 1986, l’anno in cui nacqui.
Questo ricordo si lega a una fotografia scattata in un deserto costellato di Saguari, con il sole fisso nel cielo come fosse sempre mezzogiorno. Mia madre mi tiene in braccio: è in piedi tra gli altissimi cactus e la sabbia immobile del deserto. Forse ho 8 mesi, mia madre sorride felice e stanca di essere dall’altra parte dell’Oceano.
Qualche volta guardo i “three amigos” con lei, un film comico quasi introvabile. Qualcuno in versione piratata l’ha caricato su Youtube.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Francesca Vason
  • Francesca Vason è curatrice e storica dell'arte. Lavora con M+B Studio a Venezia come curatrice e project coordinator di​ progetti espositivi internazionali​. Collabora con TBA21-Academy e Ocean Space, La Biennale di Venezia, Danish Art Foundation, OCA - Office for Contemporary Art Norway, Singapore​ ​Design Council, oltre a sviluppare progetti indipendenti. ​Prende parte a Campo - programma per curatori italiani della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo​ e, dopo aver scritto​ per magazine come Juliet e InsideArt​,​ è tra i fondatori di​​ KABUL magazine, dove attualmente opera come autrice e referente per le sezioni Project ed Editions.