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Dal Rumore al Noise: breve excursus di un'invasione estetica ed etica
Magazine, ASSEDIO - Part I - Ottobre 2016
Tempo di lettura: 19 min
Francesca Vason

Dal Rumore al Noise: breve excursus di un'invasione estetica ed etica

Come il rumore, nel corso del '900, è passato da elemento di disturbo a categoria estetica, attraverso flussi di scambio internazionali e contaminazioni stilistiche e transdisciplinari. Disamina di casi studio tra arte e musica, tra ‘sottosuolo’ e istituzione. Il caso italiano: Nico Vascellari.

«…una sensazione dell’udito che non è sonora e apprezzabile,

(…) una musica stordente e confusa,

dove si sente più fracasso che armonia,

più clamore che canto»

Jean-Jacques Rousseau, Dictionnaire de Musique (1768)

Una delle intuizioni più interessanti che fece Rousseau nel suo Dictionnaire de Musique fu quella di avvicinare per la prima volta il concetto di rumore a quello di suono, pur evidenziandone una sorta di opposizione all’interno della medesima categoria, la musica.

Partendo da una definizione generica, il rumore è nient’altro che una vibrazione incostante e intermittente che si traduce in un suono complesso non periodico, scomponibile in un numero di onde sonore di diverse frequenze e che non entrano in relazione armonica l’una con l’altra. Tale ‘disarmonia’ è il motivo per cui può essere definito come un fenomeno fisico-acustico, normalmente avvicinato a una sensazione dell’udito di sgradevolezza.

L’irruzione del rumore in campo musicale a cavallo tra il XIX e il XX secolo si configura come la spontanea esigenza di compositori e musicisti di estendere la ricerca e l’esplorazione progressiva del sonoro oltre i confini della musica cosiddetta «tradizionale», per giungere, come vedremo, alla conclusione che «tutta la musica porta con sé del Rumore».11G. Hainge, Noise Matters: Towards an Ontology of Noise, Bloomsbury Academic, Londra 2013, p.40.

In questo studio s’intende analizzare la portata estetica del rumore, non più considerato solo come elemento di disturbo, ma come categoria estetica pregna di implicazioni teoriche, storiche, sociologiche, oltre che tecniche e tecnologiche, che si sono intrecciate nel corso degli ultimi due secoli fino a diventare un genere musicale riconosciuto dal sistema dell’arte, mediante flussi di scambio internazionali e contaminazioni stilistiche che hanno interessato, e interessano, il nostro Paese. L’obiettivo dunque non è costruire un pedissequo excursus antologico delineando una geografia del genere Noise, ma prendere in considerazione alcuni momenti e alcuni casi studio più recenti, soprattutto italiani, che bene esprimono questa rete di commistioni tra arti, linguaggi e luoghi dediti alla ricerca e all’esposizione artistica.

Il rumore possiede infinite declinazioni – è interferenza, disarmonia, disordine, può sussistere e manifestarsi solo all’interno di un sistema di riferimento nel quale si configura come elemento disturbatore. Da quando esiste l’apparato uditivo esiste la percezione di ciò che generalmente viene definito ‘rumore’. I suoni, la musica, le vibrazioni e i rumori sono pervasivi e operano sull’intelletto e sul corpo, sollecitandoli in vari modi; fanno parte del nostro ambiente, sia che noi li percepiamo consapevolmente, sia che li subiamo senza accorgercene: «questa condizione di rumore continuo, di moto costante, di divenire incessante ci perseguita ormai ovunque, in ogni istante».22G. Dorfles, L’intervallo perduto, Skira, Milano 2006, p.11.

Dalla musica alla pubblicità al cinema, il suono influisce sul comportamento umano fino a diventare un’arma capace di condizionare le folle, utilizzata anche in ambito militare.33S. Goodman, Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear, MIT Press, Cambridge-London 2009, p.57.
 In Noise. A Human History of sound and listening, David Hendy riscrive la storia dell’evoluzione umana attraverso il suono e il suo uso da parte dell’uomo, sin dalla Preistoria, «da quando l’uomo di Neanderthal sceglieva le zone delle caverne con più riverbero per disegnare le prime pitture rupestri» – scrive T. Bonini – «al paesaggio sonoro della Roma imperiale, dove chi viveva in centro passava notti insonni tanto quanto gli abitanti della Manhattan del 1926 all’angolo tra la 34esima strada e la Sesta Avenue, nominato all’epoca il luogo più rumoroso del mondo».

La rinnovata sensibilità del XX secolo, a seguito della Rivoluzione Industriale, verso il progresso e i fenomeni correlati alla città, al culto della macchina e alla visione di un futuro telematico e tecnologico, pone l’accento sul rumore come parte integrante della società contemporanea: «il rumore assordante è la cifra del Novecento».44S. Pivato, Il secolo del rumore, Il Mulino, Bologna 2011, p.21.
 E proprio in questo periodo, anche in campo musicale, avviene il definitivo superamento della divisione accademica tra suono e rumore: «non riusciamo più a contenere il nostro desiderio di creare una nuova realtà musicale, senza violini, pianoforti, bassi e noiosi organi… [per] il generoso, solenne, bianco respiro della città notturna…» (Luigi Russolo).

È proprio Russolo, nel 1913, in seguito alla concezione della Musica Futurista, con la diffusione di L’Arte dei Rumori e l’invenzione dell’Intonarumori, a riconoscerne per primo un valore artistico e sociale. Motori, macchine, industrie, guerra. Le «orecchie futuriste», come era solito definirle, accolgono una gamma di suoni, fino a quel momento mai presi in considerazione, come elementi musicali attraverso i quali si ridisegna un nuovo paesaggio sonoro. Termini rumorosi come “bomba, fulmine e Bombance”55da Le roi Bombance, tragedia satirica in 4 atti di Filippo Tommaso Marinetti, 1905.
(trad. ita. ‘baldoria’) connotano il vocabolario futurista e si affermano tra i componimenti, seguiti dall’invenzione di una nuova divisione paradigmatica del rumore, come gli ululatori, gli scoppiatori, i crepitatori, i ronzatori, gli «stroppicciatori» e molti altri. La tendenza, inaugurata dal movimento futurista, è quella di aver disegnato un nuovo lessico delle arti, che «avrebbe segnato l’incipit di un inedito modello estetico, proteso a riformare in toto l’esistenza degli uomini sulla terra».66M. Donà, Arte e filosofia, Bompiani, Milano 2007, p.230.
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I rumori del quotidiano attirano l’attenzione dei compositori. Erik Satie suggerisce la necessità di scavalcare le modalità e i riferimenti compositivi classici per ottenere una partitura musicale melodiosa e piacevole che allo stesso tempo contempli il contesto in cui essa viene eseguita77Cf. K. Gann, Il silenzio non esiste, Isbn edizioni, Milano 2012, p.58.
 e nel 1917, su richiesta di Jean Cocteau, compone la musica del balletto Parade, realizzando una partitura che comprende elementi rumoristici prelevati dalla quotidianità, come sirene, rombi di aeroplano e ticchettii dell’apparecchio Morse, mescolandoli a sonorità di natura percussiva.88G. Fronzi, Electrosound: Storia ed estetica della musica elettroacustica, EDT, Torino 2013, p.62; cf. G. FronziIl Rumore nella musica contemporanea, in «Idee. Semestrale di filosofia e scienze sociali ed economiche», Anno I-Nuova Serie, nn. 1-2, Gen-Dic 2011, pp. 171-179.

Il crescente interesse verso il nuovo universo sonoro e i progressi in ambito tecnologico alimentano la sperimentazione e la ricerca dei decenni successivi: l’appropriazione del suono mediante registrazione, montaggio e archiviazione adoperata all’interno del Groupe de Recherce de Musique Concrète (1951), il primo espressamente e totalmente dedicato alla ricerca e alla sperimentazione sonora, riconosce non soltanto l’esistenza tangibile del Rumore come fenomeno, ma anche la precisa intenzione di capirne le innumerevoli declinazioni e potenzialità. Pierre Schaeffer, ideatore del movimento, inizia a immaginare una sinfonia di rumori, soprattutto ambientali, dove più sorgenti sonore (modulate in modo diverso) possano riprodurre in contemporanea. Per la prima volta l’atto compositivo è il risultato di un procedimento di carattere tecnologico, nel quale il suono registrato, come ad esempio il fischio di una locomotiva, rappresenta l’objet musicaux, ovvero un’unità riproducibile e manipolabile all’infinito attraverso il mescolamento con altre registrazioni. Questo nuovo modo di concepire la musica impone un cambiamento nella percezione anche da parte dell’ascoltatore, il quale, messo a dura prova, è catapultato dentro esperienze d’ascolto immersive, destabilizzanti e disturbanti.

A rovesciare radicalmente l’esperienza dell’ascolto è John Cage, con 4′ 33”. Qui il silenzio, che egli propone formalizzato in un concerto, non è concepito come assenza, ma come presenza e affermazione dell’esistenza di un mondo di suoni e rumori casuali dell’ambiente – come i suoni del vento, della pioggia, i mormorii e i bisbigli di stupore del pubblico, i colpi di tosse e gli scricchiolii delle sedie – fino a quel momento mai considerati come elementi musicali. Il paradosso dello zero assoluto attorno al quale opera Cage si esplica nel tentativo di annullare ogni forma di suono/rumore per riuscire a ottenerlo comunque in modo del tutto casuale e avulso da ogni modalità compositiva: «mentre annulla il Rumore, portandolo in un contesto musicale, cancella anche la musica».99M. Raponi, cit., p. 152.
 L’unico aspetto che determina Cage è il tempo, nonché lo spazio, che come un frame delimita la dimensione in cui questa casualità può compiersi liberamente.

L’attività di Cage verso la fine degli anni ’50, sia a New York che in Germania, ha avuto un’influenza artistica decisiva sull’imminente affermazione della scena Fluxus e di cui l’ormai famoso evento al Black Mountain College del 1952 rappresenta una tappa imprescindibile. Cage ha saputo estendere i limiti della musica, aprendola a uno sconfinamento intermediale che ha incontrato le arti plastiche, il cinema, la danza, la poesia e i nuovi media.

Corrispettivo cinematografico di 4′ 33” è la pellicola completamente trasparente – in cui tutte le imperfezioni della polvere e i graffi diventano prepotentemente protagonisti dell’opera – di Nam June Paik (Zen for Film, 1962). È proprio sulla durata e sul modo di concepire il tempo del componimento musicale che si interroga l’artista coreano, quando nel 1963 durante The Exposition of Music-Electronic Television presso la Galleria Parnass a Wuppertal, Germania Ovest, espone degli apparecchi televisivi modificati e altre installazioni sonore perlopiù meccaniche, concepite come composizioni libere e imprevedibili all’interno di uno spazio. Alcune delle immagini manipolate, distorte, che apparivano sugli schermi potevano essere eseguite direttamente dal pubblico. Musica elettronica e immagine elettronica si trovano integrate nel tempo di esecuzione del pubblico.

Ecco che il valore accrescitivo del momento della performance, l’immersione totale nell’esperienza, l’accento sulla durata dell’opera e quindi sull’esistenza di una contingenza di situazioni per le quali lo spettatore non è più mero osservatore ma parte attiva, apre le porte a un’ulteriore definizione del concetto di rumore, di cui ci offre un bellissimo spunto Douglas Kahn:

«Noise is the forest of everything. The existence of noise implies a mutable world through an unruly intrusion of an other, an other that attracts difference, eterogeneity, and productive confusion; moreover it implies genesis of mutability itself».1010D. Kahn, Noise, Water, Meat: A History of Sound in the Art, Mit Press, Cambridge 1999, p.21.

All’interno di questa continua e vagamente indisciplinata mutevolezza prendono piede modalità assai diverse di sperimentazione. Se la pratica «minimalista» di George Brecht propone una riduzione formale di azioni quotidiane (o events) molto semplici, come lo svuotamento di un catino colmo d’acqua dentro un altro contenitore a diverse altezze (Drip Music, 1962), parallelamente si manifestano una tensione verso l’accumulo e la sovrapposizione di materiali, con una propensione piuttosto invasiva nei confronti dello spettatore. Nel 1959, in 18 Happenings in 6 Parts, Allan Kaprow invita gli spettatori a muoversi in diverse stanze all’interno delle quali vengono immersi in ambienti multisensoriali carichi di stimolazioni visive, acustiche e olfattive. Si tratta di un «bombardamento» sensoriale, avviato dai futuristi, che anticipa gli imminenti noise-wall tipici delle performance Noise.

Il rumore riesce a penetrare in diversi campi dell’esperienza, alimentato dal riconoscimento che la sperimentazione sonora ottiene all’interno delle istituzioni artistiche. Mentre gallerie e musei sono luoghi in cui sperimentare sul campo, grazie al rapporto diretto con il pubblico, gli studi cinematografici e televisivi fanno loro da spalla e si aggiudicano il ruolo di partner ideali per la realizzazione di progetti che contemplano una ricerca sul suono.1111Cf. M. Raponi, cit., p.22.

In Italia, ad esempio, la fondazione dello Studio di Fonologia a Milano (1955) apre interessanti canali di ricerca e dialogo con il cinema. L’inserimento di materiale elettronico nelle composizioni musicali, l’uso di sintetizzatori e modulatori di suono si diffonde a macchia d’olio nella cultura popolare. Nel 1967, come spiega Ben Osborne, autore-dj-curatore-fondatore di Noise of Art, i Beatles usano alcuni strumenti elettronici per il singolo Strawberry Fields Forever, e la tecnica del loop, recuperando così una pratica propria della musica concreta, in Tomorrow Never Knows. Sempre lo stesso anno, Paul McCartney scrive una pièce per il festival di musica elettronica alla Roundhouse di Londra.

Il Noise si afferma innanzitutto come un’attitudine, e successivamente come genere. La complessità e la fitta rete di scambi e relazioni che gli artisti-musicisti intessono tra loro si traduce in una moltiplicazione di micro-generi che sfociano in interessanti contaminazioni con il rock, il punk, il pop, fino ad arrivare a soluzioni più sperimentali nell’incontro con l’elettronica. Generi come l’industrial, il Power noise, e la musica glitch affondano le proprie radici nelle pratiche rumoriste, pur percorrendo tra loro cammini diversi.

Le deflagrazioni ideologiche degli anni ’60 e ’70, le contestazioni giovanili e la crescente presenza di mezzi tecnologici innovativi portano a una ridefinizione dei confini del proprio corpo. Raponi individua proprio nel rapporto tra corpo e pratiche rumoristiche un momento nodale nella storia del rumore. Il corpo viene concepito come un territorio identitario, mistico, simbolico, erotico e sessuale, e l’azione performativa ne rappresenta, come direbbe Lea Vergine, la «rimessa al mondo».

Con l’esperienza fondamentale del movimento Fluxus, e successivamente con la Body Art, dove il rapporto tra uomo-corpo-macchina si fa sempre più centrale, si assiste da un lato a uno sconfinamento dell’arte verso nuovi e differenti linguaggi creativi e ambiti di ricerca e, dall’altro, al definitivo passaggio all’elettronica, a una «con-fusione»1212M. Raponi, cit., p.26.
 tra essere umano e dispositivi tecnologici. Il risultato è un ibrido meraviglioso, un incrocio di pratiche artistiche e contaminazioni che, tra l’altro, hanno il merito di scavalcare l’orientamento visiocentrico della prima metà del ‘900, per contemplare un universo sensoriale più ampio e articolato, nel quale l’apparato uditivo viene ad assumere un ruolo e un valore inediti.

In questa visione, le pratiche corporali e quelle rumoristiche condividono approcci e strategie. Ecco che all’interno di questi continui scambi tra ambiti artistici diversi, dove i criteri di dissonanza e atonalità tipici della pratica rumorista vengono concepiti come strumenti per manifestare le incertezze della condizione umana nella società, il Rumore trova la sua più spontanea ragion d’essere.

Muri di rumore, distorsioni, samples effettati, volumi e densità all’insegna della saturazione spaziale per creare tunnel di suoni dentro i quali il pubblico è totalmente rapito ed estraniato, sottoposto al flusso continuo del rumore persistente, diventano la cifra stilistica del Noise più estremo: «Il rumore è seduzione» – scrive S. Reynolds – «rapisce, fagocita e intorpidisce il pubblico».1313S. Reynolds, Blissed Out. The Raptures of Rock, Serpent’s Tail, Londra 1990.

Da un punto di vista sociologico, le esperienze musicali legate al rumore che si manifestano a partire dagli anni ’80 sono accomunate da un radicale spirito di opposizione al sistema. Questa forma di resistenza sociale fa sì che si costituisca «un sub-mondo autonomo, indipendente, incontaminato»1414M. Raponi, cit., p.29.
, libero sia da un punto di vista tecnico-espressivo-compositivo che discografico (sono gli anni in cui esonda l’etica del do it yourself). Si riconosce, dunque, un fenomeno di resistenza a fronte della manifestazione di un disagio politico, volto al totale sovvertimento dei valori sociali.

L’Italia assorbe queste contaminazioni e s’inserisce nel panorama rumoristico condividendo innanzitutto gli intenti di opposizione: «l’approdo al rumore di molti musicisti punk scaturisce di esperienze militanti in scene underground […] come unica via praticabile al fine di trovare un luogo d’espressione davvero divergente, inedito e pregno di significazione»1515M.Raponi, cit., p.68.
, e che in molti casi sfocia in forme di anarchia musicale. Loop ipnotici, la rievocazione di scenari particolarmente cruenti, scioccanti, come l’immagine di un corpo carbonizzato in copertina, rappresentano la cifra stilistica di uno dei padri dell’industrial italiano degli anni ’80 e ’90: MB, alias Maurizio Bianchi. Sin dagli esordi egli definisce il suo mondo musicale come «rumori concreti per menti elettroniche» e costruisce le sue tracce attorno a distorsioni e decontestualizzazioni spiazzanti di puro rumore, difficilmente incasellabile in una struttura definibile. Tra le sue opere più rappresentative, Symphony For A Genocide (1981, LP, Sterile Records) è un album ispirato ai campi di concentramento nazisti con un intento etico volto, come afferma Bianchi stesso, a «rammentare ai miei contemporanei il pericolo di poter ripetere gli errori del passato».

Pur emergendo come uno dei principali rappresentanti in Italia del Noise anni ’80, la sua attività resta contenuta e rivolta a un pubblico di nicchia. La sua produzione entra in contatto con artisti internazionali, giungendo in Giappone all’incontro con una delle icone del movimento Noise giapponese, Merzbow, alias ispirato al dispositivo artistico ideato da Kurt Schwitters, che nella prima fase della sua produzione raccoglie, campiona e assembla suoni industriali con un procedimento molto simile a quello adottato in Merzbau.

Il determinarsi di una geografia globalizzata che investe inevitabilmente tutti i linguaggi artistici, Il proliferare di festival audio-visivi, soprattutto tra gli anni ’90 e 2000, e di manifestazioni deputate alla sperimentazione, alimenta il network tra artisti e performer di tutto il mondo e crea un fitto calendario di appuntamenti e momenti di ascolto. Il Noise esce dal sottosuolo e si apre al pubblico, contaminandosi con le arti visive. Per citarne solo alcuni che ancora possiedono un certo riverbero oltre i confini nazionali: Robot Festival, Live Arts Week, fondata nel 2012 ma memore delle esperienze di Netmage, International Live Media Festival e il Festival Internazionale dello Spettacolo Contemporaneo, ClubTOClub, la programmazione dedicata alla musica sperimentale all’Auditorium Parco della Musica a Roma.

A questo punto è necessario fare una riflessione sugli scambi che il Noise sviluppa più recentemente con le arti visive all’interno di istituzioni che ne riconoscono il valore artistico, e in particolare occorre porre l’accento su un caso studio specifico e contemporaneo, quello di Nico Vascellari.

Classe 1976, originario di Vittorio Veneto, si forma nella scena underground punk hardcore e per alcuni anni è il frontman dei With Love, band in area noise/punk composta da Giovanni Donadini, Nicolò Fortuni, Andrea Giotto e, appunto, Vascellari. Artista visivo e musicista, se ancora ha senso scindere questi suoi mondi, nel 2007 è invitato a partecipare alla Biennale di Venezia, nella sala Marceglia dell’Arsenale. L’artista giunge a Venezia con Revenge, un’installazione imponente che ospita una performance ispirata alla scena musicale underground internazionale (qui un estratto della performance).

Davanti a un grande muro di amplificatori, il giovane artista si esibisce, accompagnato da altri performer, in un live assordante costituito da suoni amplificati e urla, coadiuvato da John Wiese, musicista esponente del Noise punk di Los Angeles. I sessanta amplificatori, chiesti in prestito dall’artista a musicisti della scena punk, metal e indie, sono installati su una parete di abete grande quanto la sala che la ospita. Revenge rappresenta e celebra il punto di contatto tra il mondo istituzionale e quello underground, ed è in questo punto di contatto che si annuncia una rivincita.

Operazioni che rientrano perfettamente negli usi e costumi extra-istituzionali, come la richiesta di prestito delle attrezzature, rappresentano un espediente per mettere provocatoriamente a confronto e sullo stesso piano le logiche della cultura underground con quelle istituzionali. Codici e approcci differenti si trovano quindi uno di fronte all’altro: «sentivo che di colpo era come se venissi quasi istituzionalizzato, ho sentito che il lavoro perdeva una sorta di minacciosità» afferma Vascellari durante l’incontro tenutosi nel 2012 nell’ambito di Ren.con.tre (progetto di Lelio Aiello, Accademia di Belle Arti di Bologna), «magari non era mai stato minaccioso, però per me doveva essere così. In questo senso ancora una volta ho chiamato con me i compagni di avventura».

Durante la performance, l’artista si dimena in modo convulso, si lancia verso il pubblico, emette urla violente. Lo spazio è invaso dal suono, tutto calibrato su un gioco di riverberi e risonanze che mettono in dialogo dinamico i vari dispositivi. Il muro accentua ulteriormente la valenza scultorea di questa rete di relazioni tra corpi e oggetti. Il noise-wall, infatti, rappresenta metaforicamente la costellazione di musicisti, performer e generi che articolano la scena musicale Noise. La presenza del muro (paradossale se si considera la funzione divisoria che tradizionalmente ha) tende la mano alla rivendicazione di un dialogo tra ambiti diversi, linguaggi e discipline in apparenza discordanti, approccio che come abbiamo visto è proprio della cultura Noise.

L’operazione artistica avvenuta in occasione della Biennale di Venezia del 2007 non è l’unico incontro tra Vascellari, il suo background e le istituzioni. Egli annovera collaborazioni con musei, gallerie e fondazioni internazionali – tra cui il MACRO di Roma, il Museion di Bolzano, il Marina Abramovic Institute di San Francisco, il Tent di Rotterdam, Beyeler Foundation di Basilea, il Pinchuk Art Centre di Kiev e la Kunsthaus di Graz – in cui combina diversi linguaggi, in particolare quello performativo con il video e l’installazione. Natura, suono e rituale sono elementi che affiorano dalla sua ricerca, sempre caratterizzata da una costante sperimentazione sonora e un legame profondo, seppur controverso, con i paesaggi e i territori della sua città natale. Salto nel vuoto (stampa fotografica, 2014), che unisce il salto nella folla di un cantante punk a quello di un fantoccio durante una manifestazione folkloristica paesana, è un dittico che unisce i mondi da cui trae spunto: il territorio e la musica punk.

Nella ricerca artistica di Vascellari convergono diversi elementi propri dell’approccio rumorista, a cominciare dalla componente della casualità, il margine di errore che egli contempla come parte integrante della propria produzione: «è la casualità che completa l’opera […] e il disagio è la fonte della mia energia, quello che trasmetto nelle performance. Per disagio ho oltrepassato i muri tra le discipline. Ho rischiato di diventare un pessimo artista e un pessimo musicista».1616A. Mammi, La mia arte suona il punk, «L’Espresso», 24 ottobre 2013, pp. 100-101.

Nonostante il lavoro di Vascellari sia il risultato di una ricerca personale – che sfocia in progetti sì provocatori, ma pensati per far esplodere la natura più fisica, istintiva e viscerale attraverso una narrativa più meditata ed evocativa –, la collaborazione e il confronto alimentano la sua produzione artistica. A cominciare da Codalunga, spazio progetto nato nel 2005 a Vittorio Veneto, in cui realizza eventi e concerti in collaborazione con artisti e musicisti italiani e internazionali. Codalunga rappresenta uno spazio fisico all’interno del quale sottolineare ancora una volta, come in Revenge, la necessità di rinfrancare il senso di appartenenza, non tanto territoriale, ma piuttosto artistico, verso cui l’artista tende e del quale è senza dubbio uno dei protagonisti. Nel 2012 presso lo Spazio Concept di Milano apre, insieme ad altri noiser italiani – Matteo Castro, Paolo Bandera, Bologna Violenta e Molestia Auricularum –, una delle due date italiane di Merzbow.

Il raggiungimento di una danza travolgente, quasi estatica, che nasce dalla militanza nel filone punk e hardcore, è alla base del progetto musicale ongoing Ninos du Brasil (2012), che Vascellari condivide con Niccolò Fortuni, ex batterista dei With Love. Ritmi insistenti, che ammettono ogni tipo di percussione e uniscono generi diversi, dalla batucada, alla minimal, all’electro-punk, invitano il pubblico a un approccio viscerale e di totale abbandono all’esperienza della performance. Vascellari si muove lungo dei confini – territoriali, dimensionali o culturali – prefiggendosi l’obiettivo di abbatterli, talvolta di scavalcarli; egli riesce a muoversi tra ambiti diversi dell’arte lasciando intendere la costituzione di un immaginario mitologico, legato a una ritualità e a una sacralità del culto del personaggio artistico, anch’essa tipica della scena musicale d’origine, che si manifesta come un flusso oscillatorio che sfiora la realtà e poi scivola velocemente unendosi a suggestioni più fugaci, di cui Vascellari ha sempre dichiarato l’esistenza: «nel mio lavoro c’è una necessità di fondere aspetti fittizi a cose reali, non si tratta, come più volte è stato detto, di costruire una mitologia personale, quello che viene creato viene allo stesso tempo distrutto, modificato».

In questo breve focus dedicato all’artista italiano, un caso particolare per molti aspetti, si celebra l’emersione ufficiale delle pratiche rumoristiche underground nel mondo istituzionalizzato dell’arte. Resta da chiedersi se, in seguito ai cambiamenti mediatici e dei processi sociali legati al mercato e alla creazione di nuova geografia globalizzata, che hanno inciso profondamente sulla sfera artistica, soprattutto musicale, fino a rendere sempre più sottili i confini tra sottoculture e scena mainstream, oggi sia ancora possibile attribuire all’underground la medesima forza etica. Una certezza esiste: la cultura musicale, come ogni altra forma d’arte, è innegabilmente legata a un determinato periodo storico e alla sua situazione sociale, e la capacità di adattamento insita nella pratica associata al rumore lascia pensare a un potenziale di sperimentazione ancora elevato.

Potremmo chiederci piuttosto: qual è il futuro del concetto di ‘suono’? A questo proposito è interessante la ricerca che sta conducendo Steve Goodman (aka Kode9), produttore, discografico, fondatore di Hyperdub, e docente che nel 2009 pubblica Sonic Warfare. Sound, Affects ad the Ecology of Fear, in cui propone il concetto di unsound, ovvero di una gamma di suoni che il nostro orecchio non è in grado di percepire e che ancora non sono stati sintetizzati o manipolati: «questa dimensione del mio lavoro è la continuazione di quello che i futuristi italiani chiamavano l’arte dei rumori» spiega Goodman in occasione della rassegna Giorno per giorno (2012), promossa dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT di Torino; «all’inizio del 20º secolo, Luigi Russolo con il suo manifesto intese portare il suono della vita di ogni giorno (delle industrie, della guerra) all’interno del campo della musica. Il suo interesse era indagare il futuro della musica, come nuovi suoni potessero entrare nella musica. La mia nozione del non ancora ascoltato è la continuazione di questa idea». Nella proclamazione di una cultura dedita al «culto della vibrazione», questa può rappresentare un’evoluzione nella storia della cultura musicale.

 

Per leggere la seconda parte dell’articolo, vai su Dal Rumore al Noise: intervista a Nico Vascellari.

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di Francesca Vason
  • Francesca Vason è curatrice e storica dell'arte. Lavora con M+B Studio a Venezia come curatrice e project coordinator di​ progetti espositivi internazionali​. Collabora con TBA21-Academy e Ocean Space, La Biennale di Venezia, Danish Art Foundation, OCA - Office for Contemporary Art Norway, Singapore​ ​Design Council, oltre a sviluppare progetti indipendenti. ​Prende parte a Campo - programma per curatori italiani della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo​ e, dopo aver scritto​ per magazine come Juliet e InsideArt​,​ è tra i fondatori di​​ KABUL magazine, dove attualmente opera come autrice e referente per le sezioni Project ed Editions.
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