Princess Carolyn: BoJack! Are you watching MSNBC right now?
BoJack Horseman: Great question. Well, I didn’t fall down on my remote, randomly changing the channel to MSNBC, while simultaneously crippling myself, thus forcing me to watch MSNBC, so no. I’m *not* watching MSNBC right now.
(BoJack Horseman, 2014, s01 e02)
Contro la comunicazione
Nel 2004 Mario Perniola, filosofo, teorico e scrittore, recentemente scomparso, scrive un breve e lungimirante saggio intitolato Contro la Comunicazione. Nel suo testo, Perniola analizza, con estrema lucidità, i pericoli che la comunicazione massmediatica può procurare sulla conoscenza e sulla qualità del senso critico dell’individuo contemporaneo, e lo fa mettendo in contrapposizione una serie di difetti intrinseci alle modalità operative della comunicazione con alcuni pregi dell’estetica e del suo sistema di valori totalmente opposto a quello massmediatico. Per ora ci concentreremo solo sull’analisi dei difetti della comunicazione, per poi passare, in un secondo momento, a un’analisi delle possibili soluzioni sulla base delle avvertenze segnalate da Perniola.
La comunicazione mediatrice
Secondo Perniola, uno dei maggiori difetti della comunicazione sarebbe quello di essere fautrice della scomparsa della figura del mediatore e di essere diventata, essa stessa, l’unica figura di mediazione consentita tra contenuto e fruitore.
La comunicazione massmediatica, infatti, vanta tra le sue doti principali quella di rivolgersi direttamente al pubblico, “qualità” che, sebbene le conferisca una parvenza molto democratica, non fa altro che danneggiare il contenuto che tenta – se di reale tentativo si può parlare – di trasmettere.
Togliendo al contenuto la possibilità di essere rappresentato in maniera adeguata da un mediatore qualificato, che ne conosca tutti i dettagli e le sfaccettature, la comunicazione non fa altro che operare «un livellamento della varietà delle esperienze su di un solo registro», e facendo questo «esercita su tutto ciò che tocca un’estrema violenza, appiattendolo, banalizzandolo, privandolo di ogni luce e interesse»,11M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, pp. 86-87.
il tutto a favore del raggiungimento di un bacino di utenza sempre più vasto.
La comunicazione totalitaria
Un’altra caratteristica fondamentale della comunicazione messa in luce da Perniola è il suo totalitarismo. La comunicazione, infatti, non si schiera (o almeno dichiara di non farlo) pretendendo di «parlare contemporaneamente di una cosa, del suo contrario e di tutto ciò che sta in mezzo ai due opposti». Dimostrandosi «totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale».22Ivi, p. 9.
Ciò rende la comunicazione una forza onnipresente capace di occuparsi di tutto, senza alcuna limitazione, e in grado, soprattutto, di acquisire credibilità da un numero sempre maggiore di fasce di pubblico.
La comunicazione ambivalente
Tuttavia, l’atto di supportare e promuovere posizioni completamente opposte tra loro non rende la comunicazione un modello di neutralità, bensì alimenta la confusione che produce nel suo uditorio. Perniola accosta tale tendenza della comunicazione a parlare di una cosa e del suo opposto alle teorie freudiane sull’ambivalenza.
Per Freud l’ambivalenza di pensiero è un tratto caratteristico dell’infanzia, momento in cui si vivono pulsioni antagoniste di forze uguali; l’ambivalenza, tuttavia, costituiva anche una caratteristica del linguaggio primitivo, in cui una stessa parola poteva essere usata per indicare una cosa e il suo esatto opposto. Ora, sarebbe troppo facile per Perniola accostare la comunicazione massmediatica a un sistema di espressione primitivo. Infatti è pienamente consapevole del background di sviluppo tecnologico che un sistema come quello deve avere necessariamente alle spalle e intravede nella comunicazione non il primitivismo in sé, ma un’induzione allo stesso.
Secondo Perniola la comunicazione userebbe volutamente un linguaggio ambivalente nei confronti dei suoi fruitori, affinché questi ne siano confusi e disorientati e, di conseguenza, possano essere più facilmente manipolabili e soggiogabili. La confusione sarebbe, dunque, alla base dell’asservimento dell’uditorio. In altre parole, la comunicazione è vista dal filosofo come un sistema finalizzato alla distruzione delle conquiste intellettuali, politiche e sociali ottenute fino a quel momento dai suoi fruitori, allo scopo di prevenire un’ulteriore evoluzione degli stessi, che ne potrebbe provocare la fuga dal proprio controllo.
Come spesso rimarca Perniola, la comunicazione non sembra voler imporre un’ideologia, un’identità o un credo in particolare; al contrario, il suo scopo sembra quello di «favorire l’annullamento di ogni certezza e prendere atto di una trasformazione antropologica che ha mutato il pubblico in una specie di tabula rasa estremamente sensibile e ricettiva, ma incapace di trattenere ciò che è scritto su di essa oltre il momento della ricezione e della trasmissione».33Ivi, p. 108.
L’impianto strategico della comunicazione ha una giustificazione più che plausibile da fornire a chi intravede questi meccanismi, ovvero “spaccia” tutte le sue incongruenze come «manifestazioni della potenza e della fecondità creativa della vita».44Ivi, p. 27.
Meccanismo di giustificazione che potremmo riscontrare anche nel ricorso continuo, da parte della comunicazione, al “live” o al “reality” (tv, ma anche social), strumenti che rafforzano nel pubblico l’idea di essere immersi fino al collo in una “naturale” incongruenza della realtà, incongruenza che, tuttavia, abbiamo riscontrato essere già stata appiattita da una visione univoca e preconfezionata da parte dei media, al fine di incontrare i gusti di un numero sempre maggiore di individui.
La conseguenza diretta è che il pubblico non possa far altro che continuare, in modo naturale, a navigare in un mare magnum di confusione, impotente davanti a una tale vastità e varietà delle cose, perché d’altronde la realtà, e dunque la vita, sono così.
La comunicazione distruggi gabbane
La comunicazione, poi, non lavora solo sulla massa, ma opera anche sulle singole entità che la compongono. Da sempre la comunicazione concentra gran parte delle sue energie sull’analisi delle esigenze dei singoli individui, al fine di poterne prevedere i desideri, soddisfarli e crearne di nuovi. Può essere utile, in merito, tenere sempre a mente The Century of the Self (2002) di Adam Curtis e ricordarsi quanto sia importante per il capitalismo stesso plasmare i desideri di ogni singolo individuo.
Nell’analisi e nel modellamento costante dei desideri del singolo, Perniola vede non solo una facile manipolazione degli stessi, ma soprattutto il pericolo di un progressivo sgretolamento di ogni sicurezza da parte di chi li nutre: «Una volta l’espressione voltagabbana si applicava a coloro che cambiavano opinione con leggerezza […], il loro comportamento per quanto biasimato, talora era momentaneamente efficace, ma alla lunga risultava penalizzante. Nella comunicazione non c’è più una gabbana, ma soltanto un voltare e rivoltare incessante che volatilizza e dissolve la gabbana».55Ivi, p. 109.
Il risultato, o forse dovremmo dire l’intenzione, sembra essere quella di generare, così facendo, un pubblico confuso, malleabile e “incavo”, pronto a essere riempito e indirizzato, all’occorrenza, per vari scopi.
Contro la strumentalizzazione
Approfondiamo i rischi e le effettive conseguenze di una strumentalizzazione mediatica sul nostro senso critico, o persino sulla nostra salute mentale e fisica. Per farlo prendiamo in analisi due libri scritti di recente in contesti molto distanti da loro ma per certi versi simili: Populismo Digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (2017) di Alessandro Dal Lago e Kill all Normies (2017) di Angela Nagle.
Dibattito pubblico (quel che resta del)
Lo studio di Dal Lago si focalizza soprattutto sui meccanismi populisti messi in atto dalla politica (a suo parere soprattutto da quella di destra) all’interno di social network e altre piattaforme online d’informazione di massa. Nella sua analisi, i social network appaiono come un terreno estremamente fertile per il germogliare di un populismo semplicistico che solleva le masse in favore di una o dell’altra questione politica e/o sociale, usando odio e livore immotivato quali carburanti di ogni discussione.
Un aspetto-chiave dell’analisi di Dal Lago è quello che interessa il mutamento del dato qualitativo del dibattito pubblico degli ultimi anni, reso evidente attraverso l’analisi di alcune tipiche discussioni che avvengono tra i commenti ai post pubblici dei social network. Dal Lago evidenzia in primo luogo l’uniformità che caratterizza qualsiasi individuo virtuale che prenda parte a queste discussioni: i soggetti che compongono l’arena digitale sono infatti essi stessi estensioni digitali degli utenti, e ciò contribuisce a rendere l’intero insieme estremamente uniforme e modulare.66A. Dal Lago, Populismo Digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina, Milano 2017, pp. 73-74.
Trovandoci pertanto di fronte a un’agorà standardizzata, essa per sua stessa natura si presterà più facilmente alla manipolazione.
Evidenziando la vulnerabilità degli attori coinvolti all’interno del dibattito online, Dal Lago analizza inoltre la tipologia più ricorrente dei loro commenti: «Davanti a una notizia relativa a un tema strategico del dibattito pubblico […] i commenti non entreranno quasi mai nel merito di una questione, ma ribadiranno ossessivamente un punto di vista sedimentato, che non sembra essere scalfito dall’enormità di ciò che si legge e commenta».77Ivi, p. 78.
L’analisi comparativa dei commenti lasciati online mostra l’esigenza, da parte di chi li scrive, di ribadire la propria posizione, in modo da essere inquadrato, il più saldamente possibile, a uno specifico contesto ideologico o modo di pensare. Inoltre – nota sempre Dal Lago – man mano che si prosegue nella conversazione, all’interno dei commenti si fanno sempre più rari, fino a scomparire, i riferimenti tangibili all’argomento che ha dato avvio alla discussione. Dopo un breve scambio di battute, gli utenti tendenzialmente si concentrano solo sui loro interlocutori e incominciano a sminuire le posizioni l’uno dell’altro sfociando spesso nel vicendevole insulto.
Simili approcci alla discussione sono oggi estesi anche al dibattito pubblico, come mostra il recente caso del sindaco di Faenza che, dopo aver annunciato sulla propria pagina Facebook ufficiale che le scuole sarebbero rimaste aperte nonostante la neve, ha ricevuto commenti pregni di imprecazioni, insulti e minacce.
E-violence generates violence
Più gravi sono le conseguenze analizzate in Kill all Normies (2017) di Angela Nagle. Qui il contesto di partenza è del tutto diverso: ci troviamo in America, in un’America scandagliata così in profondità, attraverso concreti esempi di microblogging, che ci sembra quasi di non averla mai vista così da vicino.
Il libro è denso di storie di cameratismo, persecuzioni e vere e proprie congiure nate e cresciute online, che non si fermano allo scambio reiterato di insulti, ma sfociano in atti di violenza psicologica e fisica nei confronti di utenti considerati più deboli, spinti persino al suicidio.
Nagle parla della cosiddetta culture of purging, accusa la rete di aver generato masse d’attacco anziché masse critiche e cita numerosi esempi di bullismo cominciati online e proseguiti nella vita reale.88A. Nagle, Kill All Normies. Online culture wars from 4chan and Tumblr to Trump and the Alt-Right, Zero Books, Croydon 2017, p. 77.
Tuttavia, il fulcro dell’intero volume non è tanto quello di offrire una panoramica di tali fenomeni, quanto quello di riflettere su come questi episodi di cameratismo siano spesso stati cavalcati e a volte direttamente generati da partiti e movimenti politici americani. In sostanza il pubblico di queste masse d’attacco è lo stesso che sostiene e alimenta le più recenti campagne politiche in America.
Si torna dunque al populismo tracciato da Dal Lago e alla facile manipolazione delle masse a scopi politici e sociali. Nell’ascesa di numerosi gruppi di estrema destra, Nagle riconosce infatti l’influenza diretta di giovani “star del web”, come Milo Yiannopoulos e Lauren Southern.
Southern è una giovane ragazza americana che realizza video dalla forte impronta conservatrice. In alcuni di essi la vediamo recarsi personalmente in mezzo a proteste femministe, pro gender, pro immigrazione, e porre ai manifestanti domande “scomode”. Sebbene alcune (poche) di quelle domande potrebbero addirittura porre le basi per l’inizio di un confronto costruttivo tra posizioni contrastanti, tuttavia il tono scelto da Southern non agevola mai la conversazione che finisce, quasi sempre, con scambi di insulti e/o rifiuti categorici nel parlare con lei. L’atteggiamento restìo di chi protesta è dunque fatto passare da Southern come prova di un presunto estremismo non professato ma, di fatto, per lei, presente. Tuttavia, è ragionevole pensare che le stesse domande “scomode”, poste in contesti e a sostenitori di ideali opposti, susciterebbero comunque la medesima ritrosia e insofferenza.
Giovani come Southern hanno saputo raccogliere un gran numero di consensi all’interno di piattaforme come 4chan, nota, oltre che per la varietà e la libertà d’espressione che garantisce, per la violenza esplicita di molti suoi contenuti. Insieme poi a un eloquio forbito, accattivante e a strategie demagogiche che fanno leva sui sentimenti popolari, sono arrivati a fomentare la nascita e il sostegno di veri e propri movimenti politici, uno su tutti l’Alt-Right.
Nonostante non abbia ancora un leader né specifiche linee guida, l’Alt-Right ha raccolto intorno a sé un gran numero di sostenitori. Steve Bannon, ex responsabile della campagna elettorale di Donald Trump e successivamente ex braccio destro del presidente, è direttore del portale online Breitbart News, definito dallo stesso Bannon come la «piattaforma Internet dell’Alt-Right»: «I loro numeri sono incerti, ma la loro origine viene fatta risalire a un discorso del 2008 […] del filosofo di destra Paul Gottfried».99Tutto quello che c’è da sapere sull’Alt-right in America, «America 24», «Il Sole 24 Ore», 13 Novembre 2016.
Per avere un’idea della portata del movimento, basti pensare che oggi la pagina Facebook di Breitbart News conta 3.854.148 like.1010Il numero dei like è registrato in data 4 Aprile 2018.
Il problema, dunque, non sembra essere legato all’appartenenza a uno schieramento piuttosto che a un altro, ma risiede nella facilità tramite cui un numero sempre crescente di persone tendono a farsi sostenitrici di movimenti e ideologie di cui conoscono poco o addirittura nulla.
A rendere tale consenso più immediato è la possibilità di manifestarlo e corroborarlo attraverso un semplice clic.
Abbiamo assistito proprio in questi giorni allo scandalo di Cambridge Analytica. L’attenzione dei media si è concentrata quasi esclusivamente su Facebook e sulla figura di Mark Zuckerberg, mettendo in risalto come la piattaforma non abbia tutelato i dati dei propri utenti, né li abbia avvisati della violazione della loro privacy, pur essendone a conoscenza da almeno due anni. Tuttavia la storia è ben più articolata di così. Lo sviluppatore Aleksandr Kogan è il creatore di mydigitallife, l’App che ha raccolto i dati di oltre 270.000 utenti (più quelli dei loro amici) e li ha poi rivenduti alla Cambridge Analytica. La Cambridge Analytica non è altro che una società di consulenza britannica che utilizza i dati degli utenti per elaborare strategie di comunicazione sempre più convincenti, e lo fa in ambito elettorale.
Cambridge Analytica ha di fatto utilizzato i dati che gli erano stati venduti per creare una campagna elettorale tagliata su misura per i “propri” utenti: «Instead of standing in the public square and saying what you think and then letting people come and listen to you […] you are whispering into the ear of each and every voter».1111C. Wylie, Video Intervista con Observer, 17 Mar 2018.
Qui torna in gioco Steve Bannon, ex vice presidente di Cambridge Analytica che, insieme a Robert Mercer, altro investitore della società, ha reso possibile, attraverso la Cambridge Analytica, la campagna elettorale di Donald Trump.
Ultimo appunto sulla questione: la compagnia di consulenza britannica non si limitò, in quell’occasione, a creare pubblicità in favore di Trump, ma si adoperò a confezionare e diffondere nel web decine di video che screditavano i suoi diretti avversari.
Entrambi i volumi citati – sia quello di Dal Lago che quello di Nagle – mostrano come finora una comunicazione politica mirata attraverso i social network sia stata usata con maggiori risultati proprio da quelli che possono essere considerati come i gruppi politici più estremisti, ossia quelli che cavalcano quegli stessi sentimenti d’odio e di violenza che caratterizzano un’alta percentuale della comunicazione online.
Carmelo Bene: «Gli Italiani continuano ancora ad andare, sempre a votare (votano, votano, votano) ma non si capisce perché votino. Per dare un senso a che cosa?».
Maurizio Costanzo: «Be’, ma il voto è un fatto democratico».
Carmelo Bene: «Eh quello è il guaio: non risolveranno mai niente con la democrazia. “Democrazia” nel senso di Hobbes, che la chiamava “demagogia”. Fu il primo a chiamarla col termine giusto».1212Carmelo Bene e Maurizio Costanzo – Maurizio Costanzo Show, 1994.
Senso Critico e altri rimedi
Perniola parla della scomparsa dei mediatori; Dal Lago denuncia l’impoverimento del dibattito critico; Nagle parla del rovesciamento del ruolo dei gatekeeper a scapito della creatività e della qualità del discorso.1313«As old media dies, gatekeepers of cultural sensibilities and etiquette have been overthrown, notion of popular taste maintained by a small creative class are now perpetually outpaced by viral online content from obscure sources, and culture industry consumers have been replaced by constantly online, instant content producers» (A. Nagle, cit., p. 3).
Che cosa può voler dire tutto questo?
Ad accomunare le conclusioni di questi autori è la speranza intrinseca che si possa tornare a essere noi i primi mediatori di noi stessi, acquisendo la consapevolezza critica necessaria a farlo. Tornare dunque ad avere un filtro personale con il mondo esterno senza farsi sopraffare dalla fiducia nella tecnologia, dalla superficialità di giudizio e dalla memoria a breve termine che spesso ci consente di archiviare false promesse come realizzate.
Nel suo saggio, Perniola rimarca l’importanza di una società fondata sull’economia dei beni simbolici: l’estetica, la cultura, la discrezione, la moderazione e la profondità, ma ribadisce anche alcune semplici e imprescindibili abitudini quotidiane da rispettare, e in un’intervista del 2005 aggiunge: «I rimedi sono sempre gli stessi dall’antichità fino a oggi. […] Una massima attenzione ai piccoli cambiamenti, unita alla volontà di non lasciarsi contaminare troppo».1414M. Perniola, Contro la Comunicazione. Conversazione con Mario Perniola, Dario Fasoli, «Riflessioni.it», Ott. 2005.
YouTube
Uno dei cambiamenti più discussi dell’anno appena trascorso è quello che ha coinvolto le politiche pubblicitarie di YouTube con la cosiddetta1515P. Minto, L’anno che ha cambiato YouTube, «Il Tascabile», 24 Ott. 2017.
Adpocalypse (advertising + apocalypse).
Tutto ha avuto inizio con il caso PewDiePie, al momento lo youtuber con più iscritti al mondo, il quale nel gennaio 2017 ha deciso di realizzare un video coinvolgendo Fiverr – un sito che consente ai propri utenti, a costi irrisori, di far realizzare a terzi servizi “creativi” come loghi, video promozionali, traduzioni e altro – ha chiesto “ironicamente” – se di ironia si può parlare – a due giovani indiani di realizzare e diffondere online un cartello recante la scritta Death to Jews.
L’intento del video era probabilmente ironico come lo stesso PewDiePie ha “spergiurato” più volte, dichiarando di voler solo dimostrare quanto fossero assurdi alcuni servizi disponibili online.1616M. Molloy, World’s most popular YouTube star PewDiePie accused of making racial slur, «The Telegraph», 11 settembre 2017
Sta di fatto che lo youtuber è stato accusato di antisemitismo dal Wall Street Journal e in breve tempo le multinazionali che lo supportavano hanno rescisso importanti contratti e relazioni di lavoro con lui.
Tale caso mediatico ha spinto YouTube a procedere a un controllo più oculato dei suoi contenuti, dando l’opportunità a grandi aziende e multinazionali di scegliere accuratamente chi (che cosa) sponsorizzare e chi (cosa) no.
D’altra parte è legittimo che un’azienda decida di non essere accostata a contenuti antisemiti o potenzialmente nocivi alla sua immagine, e per questo motivo molte aziende in un primo momento abbandonarono in massa YouTube, per poi tornare “rassicurate” dalla piattaforma, portando però con sé delle agenzie di Ad-Sales che le aiutassero a valutare i contenuti “più adatti” a ospitare le loro pubblicità su YouTube.
Un contenuto adatto, o safe, è un contenuto che non prende posizioni politiche né socialmente controverse, un contenuto non violento, né troppo schierato, insomma un contenuto politically correct. Sebbene sia inappropriato definirla “censura”, gli effetti che suscita sono tuttavia molto simili. Tali politiche sull’advertising non impediscono di per sé agli youtubers di pubblicare video dai contenuti più “schierati”, ma certamente li inibiscono dal farlo: no ad, no visibilità, no nuovi iscritti, no fondi per continuare il lavoro. Un lento ma inesorabile processo di censura verso qualsiasi tipo di contenuto “impegnato” e che ovviamente colpisce ugualmente i “buoni” e i “cattivi”.
Al di là del mettere in guardia dai contenuti violenti – come si è tentato di fare nella prima parte dell’articolo – o del discuterne il diritto d’espressione – come si è fatto nella seconda parte –, la questione centrale su cui occorre focalizzarsi è l’attuale perdita d’abitudine a fare i conti con la complessità di tali contrasti. Viviamo nella pretesa inconscia che un sistema globalmente informato sia in grado di darci più sicurezze che occasioni di discussione, quando in realtà, a parità di argomenti, abbiamo oggi il diritto e il dovere di sottoporre al vaglio del giudizio dieci, cento volte di più ogni cosa che sia sottoposta ai nostri occhi. Diminuire o persino eliminare la visibilità di un contenuto controverso toglie la possibilità di poterne parlare, di poter sviluppare un pensiero critico a riguardo. E l’assenza di confronto è l’arma più potente dell’asservimento dell’uditorio.
Come sottolinea Pietro Minto nel suo articolo sulla trasformazione di YouTube, la piattaforma, un tempo rifugio dall’istituzionalizzazione dei contenuti, sembra oggi ambire ad assumere i connotati della televisione, in cui ormai i meccanismi pubblicitari non fingono più nemmeno di non essere coinvolti. A dimostrarlo non solo le nuove politiche sulla pubblicità, ma anche alcune recenti scelte e le dichiarazioni di Susan Wojcicki (YouTube CEO) rivolte agli investitori durante una serata dedicata alle novità di YouTube: «We apologize for letting some of you down. […] Thank you for helping us become a stronger and better platform».1717M. Swant, YouTube Is Adding 40 Original Programs With Celebrities and Creators, «ADWEEK», 4 maggio 2017.
Questo a dimostrazione del fatto che anche YouTube ha ormai raggiunto l’agognata “fase due” dell’intrattenimento: l’indottrinamento.
La televisione
Parlare di cambiamenti avvenuti all’interno della televisione sembra quasi paradossale, soprattutto per coloro che, nati tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, i cambiamenti sembrano non averli mai visti. Infatti, i contenuti diffusi oggi dalla tv italiana non si discostano troppo da quelli veicolati dieci o vent’anni fa, seppur siano stati prodotti nuovi format importati soprattutto dall’estero (si pensi a reality e talent show, che pure oggi risultano “invecchiati”: per esempio un reality come Grande Fratello, inaugurato nel 2000, si trova oggi alla sua quattordicesima edizione, con un format certamente rinnovato, ma su cui a fatica è possibile parlare di vero e proprio “cambiamento”). La tv italiana si concentra ancora soprattutto sulla ricerca e cura del talento allo scopo di intrattenere lo spettatore (da Non è la Rai, negli anni ’90, ad Amici e X-Factor, dai 2000 a oggi), e sulla proliferazione di storie e racconti (di amori, abbandoni, malattie, vite travagliate: da Stranamore, negli anni ’90 con un revival nei 2000, a Uomini e donne e C’è posta per te, in onda rispettivamente dal 1996 e dal 2000), per fare breccia sull’emotività dello spettatore. E proprio l’emotività è la sfera di rimando degli istinti primordiali dell’uomo-spettatore (rabbia, gioia, libido), a cui la tv italiana si rivolge, diffondendo inoltre l’esplicito «trionfo della manualità per non correre il rischio del concetto» (si pensi ai vari programmi che propongono oggi faidate e tutorial, dalla cucina al trucco, passando per gli abiti da sposa).1818E. Ambrosi, Detto Fatto, quanto rumore per la battuta di una mamma sul pisellino di suo figlio, «Il Fatto Quotidiano», 17 gennaio 2018.
Istinti primordiali e manualità si collocano alla base dell’asservimento dell’uditorio, ma un motivo per cui vale (forse) ancora la pena soffermarsi a osservare la tv è quello di constatare quale condizione sia stata raggiunta dopo anni di indottrinamento programmato. Si prenda l’esempio di una qualsiasi puntata di Sanremo degli ultimi anni, per rendersi conto come, in tv, la pubblicità sia ormai entrata all’interno del contenuto stesso che sponsorizza. Da qualche anno, la compagnia telefonica TIM è sponsor unico del festival della canzone italiana e ha, al suo interno, uno spazio riservato a canzoni e performance di vario genere. Nel corso della puntata, il presentatore non manca mai di ringraziare e di ricordare, a chi non se ne fosse accorto, che tutto ciò che sta guardando è offerto da TIM.
Si prenda ancora l’esempio di quiz televisivi come The Wall, condotto da Gerry Scotti, in cui i concorrenti sono fatti accomodare in postazioni circondate dai prodotti offerti dagli sponsor, una modalità pubblicitaria senz’altro più invasiva rispetto a quella utilizzata, per esempio, in Ok, il prezzo è giusto! (1983-2001), nonostante qui i prezzi dei prodotti costituissero il perno su cui era costruita l’intera trasmissione. È sufficiente osservare per qualche minuto i programmi televisivi, per non parlare dei telegiornali, per rendersi conto che realtà “distopiche” come quelle di Brazil (1985) di Terry Gilliam o di Rollerball (1975) di Norman Jewison siano ormai pienamente compiute.
Rispetto alle tecniche di strumentalizzazione dell’uditorio a cui ci hanno abituato i vecchi media, Facebook opera in modo più strategico e innovativo. La piattaforma social nasce naturalmente con l’intento di intrattenere, ma lo fa tramite la coesione di più individui a cui è data la possibilità di mettersi in contatto tra loro. Sebbene Facebook consenta al suo interno la pubblicazione di inserzioni a pagamento, lo scorso gennaio 2018 Mark Zuckerberg ha annunciato una modifica nell’algoritmo che regola la visibilità delle notizie sulle bacheche degli iscritti. La scelta è stata quella di aumentare la visibilità delle notizie appartenenti alla cerchia di amici e/o familiari dei singoli utenti, diminuendo così la percentuale di «public content like posts from businesses, brands, and media».1919M. Zuckerberg, post su Facebook del 12 gennaio 2018.
Lo scopo dichiarato da Zuckerberg è quello di garantire agli utenti un tempo qualitativamente migliore speso sulla piattaforma, diminuendo così quelle che definisce come «passive experiences».2020Ibid.
Tuttavia quello che gli utenti vedranno con più frequenza utilizzando Facebook sarà ciò che rifletterà al meglio la loro stessa visione d’insieme delle cose, ciò che rafforzerà le loro idee e quelle della loro cerchia di amici e conoscenti, riducendo drasticamente nelle loro bacheche la percentuale di visioni e opinioni contrastanti. A proposito David Ginsberg, responsabile del settore ricerca di Facebook, ha affermato: «When people are engaging with people they’re close to, it’s more meaningful more fulfilling. […] It’s good for your well-being».2121M. Isaac, Facebook Overhauls News Feed to Focus on What Friends and Family Share, «The New York Times», 11 gennio 2018.
La dichiarazione non sorprende, del resto Facebook ha da sempre lavorato alla creazione di un recinto, all’apparenza democratico e libero: ma pur sempre un recinto. Se da un lato, attraverso questa nuova politica di visibilità dei post, Facebook tornerà a essere un grande album di vite altrui, dall’altro porterà con sé il rischio di rinchiudere i più deboli in un microcosmo di consensi e omologazione, divenendo di fatto non più un canale di sponsor e strumentalizzazione, ma un vero e proprio collettore di visioni ovattate, uniformi e condivise del mondo.
Conclusioni
«Truthiness: ignoring facts in the name of some larger truth».
Non esiste un vero e proprio corrispettivo italiano del termine truthiness, tuttavia alcuni sostantivi ne descrivono in parte degli aspetti: credulità, ingenuità, superficialità, genericità, corrività e altri ancora. Oggi molti di questi sostantivi rappresentano la base su cui si fondano gran parte dei nostri atteggiamenti e delle nostre azioni quotidiane. A tal proposito Perniola suggerisce di «non lasciarsi contaminare troppo».2323M. Perniola, Contro la Comunicazione. Conversazione con Mario Perniola, Dario Fasoli, «Riflessioni.it», ottobre. 2005.
Sforzarsi pertanto di uscire da un ciclo sterile di riproduzione e rientrare in un ciclo di produzione del pensiero: riabituarsi all’esercizio di un pensiero critico e ritornare a vedere la realtà in modo meno filtrato e più ragionevole: «You know what the problem is with everybody? They all just want to hear what they already believe» (BoJack Horseman, 2014, s01 e02).
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Alberta Romano è storica dell’arte e curatrice di arte contemporanea. È attualmente la curatrice della Kunsthalle Lissabon di Lisbona. Dal 2017 collabora anche con la Fondazione CRC di Cuneo per la quale segue le acquisizioni di arte contemporanea. Dopo la laurea in Storia dell’Arte alla Sapienza di Roma e in Pratiche Curatoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, ha frequentato CAMPO16 alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. I suoi testi sono stati pubblicati da Artforum, Flash Art, Contemporânea, Kabul Magazine etc.
E. Ambrosi, Detto Fatto, quanto rumore per la battuta di una mamma sul pisellino di suo figlio, «Il Fatto Quotidiano», 17 gennaio 2018.
A. Dal Lago, Populismo Digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina, Milano 2017.
M. Isaac, Facebook Overhauls News Feed to Focus on What Friends and Family Share, «The New York Times», 11 gennaio 2018.
N. Jurgenson, Truth, Facts, and Politics in the Digital Age, «L. M. Sacasas. Technology, Culture, and Ethics», 11 novembre 2016.
P. Minto, L’anno che ha cambiato YouTube, «Il Tascabile», 24 Ott. 2017.
M. Molloy, World’s most popular YouTube star PewDiePie accused of making racial slur, «The Telegraph», 11 sept. 2017.
A. Nagle, Kill All Normies. Online culture wars from 4chan and Tumblr to Trump and the Alt-Right, Zero Books, Croydon, 2017.
M. Swant, YouTube Is Adding 40 Original Programs With Celebrities and Creators, «ADWEEK», 4 maggio 2017.
M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.