Introdotto l’American way of death e impostato il dibattito che ne infiamma la letteratura di riferimento nell’articolo precedente, possiamo ora occuparci del rituale funebre americano percorrendo le diverse fasi che portano l’industria della morte a trasformare il corpo morto da rifiuto biologico putrescente a immagine finita e asettica del vivo, da presentare come fosse un dormiente alla platea di condolenti durante la veglia. Seguendo insomma le orme lasciate dal cadavere, conosceremo la storia, le professioni, le azioni e i luoghi che sovrintendono il funerale statunitense. Partiamo dunque dalla putrefazione, conseguenza istantanea dell’avvenuto decesso, non prima di aver fornito qualche concetto riguardante il corpo morto e le risposte culturalmente determinate alla sua decomposizione: nessi utili a comprendere l’atteggiamento e la psicologia di tanatoprattori e funeral director dinanzi al cadavere putrescente che andrà poi imbalsamato e imbellettato.
Antropo-poiesi, tanato-morfosi e tanato-metamorfosi: l’intervento dell’uomo e l’azione della natura
Occupandoci di un rituale, l’antropologia rappresenta la nostra disciplina di riferimento, tuttavia «la morte ha occupato uno spazio piuttosto marginale nella teoria antropologica, almeno fino agli ultimi venticinque anni».11A. Favole, Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 18.
Tra i motivi della reticenza degli antropologi nel trattare il tema, il tabù vigente nel discorso sulla morte individuato da Gorer nella società occidentale ha avuto sicuramente grande influenza nel lavoro di «osservazione partecipante» degli antropologi. I pionieri di un’antropologia della morte, Robert Hertz e Arnold Van Gennep, hanno posto l’accento sulle credenze che le popolazioni elaborano riguardo al destino dei defunti e sui riti mediante cui si accompagna la loro transizione (ovvero sugli aspetti meno drammatici e più «addomesticati»), mentre hanno rivolto minore attenzione alle diverse modalità di trattamento del cadavere,22Nonostante si faccia risalire l’origine dell’antropologia proprio alla comparazione del trattamento del cadavere da parte di Greci e Barbari, operata da Erodoto (Cf. U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori, Milano 2010, p. 3).
nonostante esse «possano essere molto significative per comprendere il modo in cui la società disegna il confine e di rimando riflette sul senso della propria umanità».33Favole, cit., p. 16.
Con il definitivo smascheramento della «morte proibita» e dei suoi meccanismi da parte di Ariès, l’antropologia della morte ha rinnovato la sua spinta e prodotto grandi classici che, considerando quest’ultimo aspetto alla pari degli altri, lo inseriscono tra gli interventi culturalmente determinati che il corpo umano subisce durante tutta la sua esistenza.
Con l’espressione «antropo-poiesi» (dal greco antropos, ‘uomo’, e poiein, ‘fare’), l’antropologia ha cercato di riassumere le molteplici procedure di ordine pratico, intellettuale e rituale attraverso cui le società pervengono a un modellamento della realtà umana. Con tali operazioni la cultura modella non solo le idee e le emozioni dell’uomo, ma soprattutto il suo organismo, il suo corpo: «ogni intervento antropo-poietico, per il fatto stesso di modellare e dar forma, presenta implicazioni di natura estetica».44F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Bari 2013, p. 79.
Il corpo è sempre e comunque veicolo di significati antropologici, e il messaggio corporeo fa pressoché totale affidamento sull’apparenza e sulla percezione sensoriale.
Ogni intervento antropo-poietico ha a che fare con il tempo. Le società organizzano la propria azione in successione temporale e non lasciano che gli individui si sviluppino a caso o secondo ritmi apparentemente naturali; elaborando programmi antropo-poietici corrispondenti ai modelli di sviluppo degli individui stessi, le culture ne dettano le fasi e le mete di maturazione (i riti di passaggio o di transizione) e così facendo contribuiscono a dare una forma e un senso al tempo stesso, imprimendovi una direzione. Tuttavia il tempo, spiega Remotti, non è da intendersi solamente come dimensione vuota e inerte al modellamento: «Con il termine ‘tempo’ noi indichiamo anche forze che si oppongono a quanto viene costruito, tanto in natura quanto nella cultura»55Ibid.
. Il corpo viene allora configurandosi come il campo privilegiato e l’oggetto stesso della contesa tra l’antropo-poiesi e il tempo, ovvero tra i progetti di costruzione e le forze di distruzione che ci portano a invecchiare e morire. Insomma, il decadimento fisico e la morte scompongono la costruzione antropo-poietica, ne annullano ogni funzionalità e ogni marchio di umanità: «La morte è un vero e proprio scacco dell’antropo-poiesi».66Ivi, p. 135. Sarebbe bene non opporre così drasticamente l’antropo-poiesi e la morte, in quanto la prima include sempre la seconda: «i progetti antropo-poietici producono morte di possibilità tutt’attorno» (Remotti, cit., p. 4). La moda è il campo antropo-poietico in cui più evidentemente appare la caducità dei modelli preposti. In Leopardi, la Moda dice alla Morte: «so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra» (G. Leopardi, Operette morali (1835), a c. di G. Ficara, Mondadori, Milano 1988, p. 57).
Se il corpo vivo risulta da una serie di azioni fisiche e culturali che devono armonizzarsi trovando un certo ordine, il corpo morto in preda alla decomposizione manifesta processi esclusivamente naturali (fisici, chimici, biologici) che prendono il nome di «tanato-morfosi» (dal greco thánatos, ‘morte’, e morphé, ‘forma’) e portano all’insorgere di uno spaventoso disordine. Infatti, trasformando il corpo in maniera irreversibile e radicale e allontanandolo sempre più dalla sua condizione biologica di organismo individuale e autonomo, oltre che dalla sua condizione sociale di persona, la tanato-morfosi è «il punto terminale e irreversibile dell’opera di costruzione dell’essere umano. In quanto tale […] pone una minaccia mortale non solo all’individuo ma all’intera società».77Favole, cit., p. 35.
Il corpo in preda alla tanato-morfosi ripiomba dalla cultura che l’aveva forgiato nella vita brulicante della putrefazione, e infine da questa nella materia inerte dei resti secchi, dello scheletro, ma tale processo, regressivo rispetto agli sforzi delle società, riguarda i morti, non certo i sopravvissuti. Questi ultimi conservano la loro cultura e non possono rinunciare alla riflessione su tali ricadute, quindi all’assunzione di determinate decisioni.88Cf. Remotti, cit., p. 8.
«Liberarsi dei corpi morti senza praticare su di essi alcun tipo di intervento e senza dedicarvi una seppur minima attenzione rituale è una modalità dis-umana, aberrante, e violenta di trattare i defunti».99Favole, cit., p. 31.
Fatta esclusione per i casi estremi, in cui i corpi morti sono considerati portatori di un’alterità minacciosa che li colloca al di fuori dei confini dell’umanità, l’uomo non concepisce il corpo morto alla stregua di un semplice involucro biologico. L’attenzione rituale che universalmente circonda i cadaveri «pare connessa alla stessa origine filogenetica dell’essere umano»1010Ivi, p. 22.
e nasce proprio dalla humanitas evanescente che caratterizza i resti. L’attenzione per i corpi dopo la morte si presenta come corollario dell’idea per cui «l’uomo è in primo luogo un essere bio-culturale che modella il proprio corpo»,1111Ivi, p. 36.
e curare il cadavere è un prolungamento di questo sforzo, una reazione della società alle forme disgreganti e disgustose della putrefazione.
Ma post-mortem è ancora questione di «fare umanità» e di antropo-poiesi? Se per la categoria dei processi trasformativi di ordine naturale si era ricorso al termine tanato-morfosi, per la categoria di interventi culturali che interferiscono con quelli di ordine naturale useremo il termine «tanato-metamorfosi»: in entrambi i casi vi è l’idea della morte e della trasformazione, ma nel caso della tanato-metamorfosi emerge una progettualità consapevole, una coscienza tipicamente culturale (anche se talvolta ignara dei presupposti profondi e delle controfinalità di tali operazioni) opposta al carattere caotico e «cieco» della decomposizione1212Cf. Remotti, cit., pp. 5-6.
. Ci occuperemo nel prossimo articolo di come la società americana contemporanea si occupi del corpo in disfacimento praticando l’imbalsamazione. Ora ci preme trovare una risposta alla seguente domanda: che cosa prova chi si occupa concretamente del cadavere?
Il senso del limite. Il tanatoprattore americano e il disgusto estetico
Abbiamo visto come funeral director e tanatoprattore cooperino all’interno del contesto della funeral home svolgendo mansioni fondamentalmente distinte. Il funeral director si occupa dell’aspetto prevalentemente organizzativo: quale imprenditore, presiede all’accoglienza dei luttuanti, ovvero dei clienti che intendono organizzare il funerale, propone dei funeral arrangement adeguati ai loro desideri e disponibilità, dispone il trasferimento del cadavere dall’obitorio ospedaliero alla funeral home e infine si preoccupa dell’allestimento della slumber room per la veglia funebre, mantenendosi in contatto con i fornitori di apparati floreali e di feretri, con i rappresentanti delle diverse confessioni religiose, con i cimiteri o crematori della zona. L’imbalsamatore ricopre invece il ruolo di un dipendente salariato del funeral director e si occupa esclusivamente dell’imbalsamazione e dell’imbellettamento della salma; in contesti di lavoro più rigidamente organizzato, alla cura cosmetica presiede la specifica figura del tanatoesteta, che segue le direttive dell’imbalsamatore quale suo superiore.1313Cf. Laderman, Rest in peace. A cultural history of death and the funeral home in twentieth-century America, Oxford University Press, New York 2003.
A queste due ultime figure è possibile riferirsi con il solo termine di «tanatoprattore»1414Questo termine è usato in Italia quale corrispondente dell’inglese deathworker (Cf. G. Howarth, Last rites: the work of the modern funeral director, Baywood Publishing Company, New York 2006, p. 17).
, che restituisce bene l’idea di un approccio pratico-operativo al cadavere.
A mansioni così diverse non può che corrispondere una diversa percezione del cadavere stesso. Glennys Howarth, sociologa della morte e del lutto e docente alla Plymouth University,1515Howarth è fondatrice del Centre for Death and Society (http://www.bath.ac.uk/cdas/) della University of Bath e di «Mortality», la prima rivista di death studies in Europa; membro di numerose associazioni sulla morte e sul morire e autrice di numerosi studi sul tema, è figura di fondamentale importanza per il progresso degli studi interdisciplinari sulla morte.
ha realizzato una delle poche interviste esistenti su questo tema, chiedendo ai dipendenti della Stone’s Funeral Home quali reazioni avessero di fronte a un cadavere in putrefazione. Adrian Stone, funeral director, ha dichiarato: «Ovviamente noi vediamo e dobbiamo maneggiare alcune delle più orribili cose che si possano immaginare… Alcune persone sono morte mesi prima e sono state abbandonate in un appartamento per un po’ di tempo, e sono orribili, disgustose. E non vuoi toccarle. Allora trovi una soluzione per non dover toccare proprio. E non guardi a quella cosa per niente!»1616Howarth, cit., p. 72. Ogni traduzione, salvo diversa indicazione, è da intendersi di chi scrive.
.
Tale reazione è del tutto affine a quella dei funeral assistant di Adrian Stone, incaricati di prelevare i cadaveri all’obitorio. Barry, novizio, è disturbato dalla vista dei cadaveri e Peter, suo esperto collega, gli consiglia di non guardare:
B: Quando andiamo a prelevarne uno, la porta dell’obitorio è aperta
e normalmente [gli addetti] ci stanno lavorando sopra, magari su tre tavoli…
P: Ma la cosa non ci riguarda.
B: No, ma lo vedi!
P: Potresti vedere – ma non hai bisogno di vedere.
Insomma, il cadavere sarebbe disgustoso. In carenza di più interviste specifiche, cerchiamo di comprendere la categoria estetica del disgusto e i sensi che ne sono interessati al fine di spiegare le reazioni sopra esposte.
Il disgusto, dice Martha Nussbaum riferendosi agli esperimenti psicologici di Rozin, «sembra essere un’emozione estremamente viscerale. Esso implica forti reazioni a stimoli che hanno spesso marcate caratteristiche fisiche. La sua classica espressione è il vomito; i suoi classici elementi scatenanti sono i cattivi odori e altri oggetti, il cui stesso apparire risulta ripugnante. Ciò nonostante, l’importante ricerca dello psicologo Paul Rozin ha mostrato che il disgusto ha un complesso contenuto cognitivo, basato sull’idea dell’assorbimento di un elemento contaminante. La definizione fondamentale di disgusto, per Rozin, è «repulsione alla prospettiva dell’assorbimento di un oggetto offensivo. Gli oggetti offensivi sono contaminanti; ovvero se essi entrano in contatto anche brevemente con un cibo accettabile, tendono a rendere quel cibo inaccettabile».1818M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni (2001), ed. it. a c. di G. Giorgini, il Mulino, Bologna 2004, pp. 250-51. Il testo di Rozin a cui Nussbaum fa riferimento è il seguente: P. Rozin, A. Fallon, A Perspective on Disgust, in «Psychological Review», 94, 1987, pp. 23-41.
Gli oggetti del disgusto possono variare molto, ma «tutti […] sono animali o prodotti animali, o oggetti che hanno avuto contatto con animali o prodotti animali»,1919Ivi, p. 252.
oppure si tratta di «cose guaste, in decomposizione».2020Ibid.
Nussbaum suggerisce che alla base del disgusto vi sia il nostro interesse a controllare il confine tra noi e gli animali, quindi anche tra noi e la nostra stessa animalità, respingendo di conseguenza tutto ciò che è in grado di inficiare la nostra purezza e ricordarci di essere mortali:2121Ciò riguarda il «distacco dalla vita terrena che è proprio di un essere in grado di immaginare un aldilà» (M. Mazzocut-Mis, Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno, Le Monnier Università, Firenze 2009).
«In tutte le società il disgusto esprime il rifiuto di ingerire ciò che potentemente ci ricorda la nostra mortalità e animalità, e il rifiuto di esserne contaminati»2222Nussbaum, cit., pp. 255-256.
.
Perciò, il cadavere rientra nel novero degli oggetti disgustosi che relazioniamo alla nostra vulnerabilità al decadimento e al nostro divenire noi stessi prodotti di scarto, tanto più se esso risulta in stato avanzato di putrefazione o amputato di alcune parti: «Spesso il disgusto ha a che fare con un eccesso e con ciò che ne evidenzia i sintomi: la morte e i caratteri che la rendono tale, cioè il cadavere invaso della ‘vita’ putrida che lo consuma, oppure un arto amputato di cui si riconoscono ancora i segni che lo tenevano unito al corpo o ancora una testa mozzata e il sangue generoso che da essa fuoriesce».2323Mazzocut-Mis, cit., p. 106.
Quali sono i sensi privilegiati del disgusto? Maddalena Mazzocut-Mis, richiamandosi all’estetica settecentesca, a Derrida e Miller, chiarisce che il problema meramente fisiologico del disgusto riguarda soprattutto gusto e odorato, che pervenendo a una «quasi comunione tra percepito e percipiente»2424Ivi, p. 110.
risultano essere delle modificazioni del soggetto in rapporto all’oggetto disgustoso. Ma anche il tatto, senso dell’impenetrabilità e senso del mondo esterno, si presenta quale senso dell’immediatezza a causa della pressione sull’oggetto percepito; così «non abbiamo bisogno di inghiottire le cose per esserne contaminati. Una concezione del disgusto basata sul gusto [e sull’olfatto] non può rendere conto del fatto che buona parte della contaminazione ha luogo semplicemente per contatto e non per ingestione, e non esclusivamente attraverso il contatto con la pelle, ma anche con […] lo spazio che rivendichiamo come nostra immediata riserva corporea.2525W. Miller, Anatomia del disgusto (1997), McGraw-Hill, Milano 1998, p. 57.
E ancora: «Il disgustoso che penetra attraverso il tatto dilania nell’intimo perché ferisce la sensibilità nel profondo e non consente nessuna forma di distrazione o liberazione […]. Il ripugnante, l’orrido, il nauseabondo e in prima linea il disgusto [sono] in funzione di una modalità di fruizione che non può prescindere dalla modalità tattile».2626M. Mazzocut-Mis, Voyeurismo tattile. Un’estetica dei valori tattili e visivi, il Nuovo Melangolo, Genova 2002, p. 114.
Ecco spiegata la riluttanza di Adrian Stone nel toccare i cadaveri. «Riducendo il contatto fisico con il cadavere, i funeral director credono, e mettono in luce l’idea, che il loro coinvolgimento con il lato più contaminante del lavoro sia minimo».2727Howarth, cit., p. 73.
E la vista? Funeral director e funeral assistant mettono l’accento persino sul (non) vedere la salma. La vista, come l’udito e al contrario di tatto, gusto e olfatto, «ha bisogno della distanza per funzionare efficacemente. Se ci avviciniamo troppo, le cose si offuscano o vengono oscurate dall’ombra che noi stessi proiettiamo; se ci allontaniamo troppo, la vista non riesce a distinguerle abbastanza bene».2828Miller, cit., p. 69.
A media distanza (quella sufficiente a Barry per intravedere i cadaveri dell’obitorio attraverso la porta semiaperta) «la funzione della vista è quella di suggerirci la possibilità di contatti allarmanti, sapori sgradevoli, odori nauseabondi, oppure di evocare processi contaminanti quali la putrefazione».2929Ivi, p. 70.
Per salvarsi dal disgusto visivo bisogna quindi evitare di vedere o almeno cercare di non interiorizzare lo sguardo: «È come guardare un video – è come se vedessi e poi vuotassi la mente da ciò che ho visto»,3030Howarth, cit., p. 73.
dice un anonimo funeral assistant.
Tali strategie di rifiuto del cadavere non possono certo durare per sempre. Funeral director e assistant prima o poi dovranno vedere (e all’occorrenza toccare) le salme, preferibilmente dopo il trattamento igienico operato dall’imbalsamatore. In questi casi il corpo morto non pone più solo i già citati problemi di disgusto, ma anche quelli concernenti la sua umanità residua e l’empatia che essa è in grado di risvegliare. La tecnica utilizzata è allora quella di un distacco emotivo e psicologico, definito da Howarth «disumanizzazione [dehumanization]»: «Non pensi a loro come a persone, o a qualcosa di simile. Una volta visto un cadavere è finita lì. Non li tratto come se una volta fossero state persone viventi. Per me non lo sono più. È solo un guscio».3131Ibid.
Peter racconta di aver appreso questa tecnica da un suo vecchio collega, che a sua volta tentò di confortare una donna alla notizia della morte della sua anziana vicina di casa: «E questo [collega] le disse: “Beh, devi vederla così, cara. Nonostante la signora sia caduta, sia morta, e sia rimasta là per un po’, davvero [il cadavere] non è che il guscio della sua persona. Lo spirito non è più lì. È morta e quello [che ne rimane] è solo un guscio”. Il che è giusto, vero? Io penso sia giusto. È la maniera in cui l’ho sempre presa. Anche se una persona è morta, non penso sia la persona – solo il guscio della persona»3232Ivi, p. 75.
.
Che nella cerchia dei funeral director il cadavere sia inteso come mero oggetto è evidente anche dagli appellativi con cui vi si riferiscono: «il corpo [the bod]», «il guscio [the shell]», «il contenitore [the case]», o «la cosa [the thing]». Ovviamente, parlando con i luttuanti e contrattando i particolari del funerale, il cadavere torna a essere chiamato, più rispettosamente, «signore», «signora», «madre», «padre».3434Howarth, cit., p. 75. La stessa bara [coffin] è ribattezzata «scatola [box]» dai funeral director, in modo che perda la sua associazione con la morte. Di fronte ai parenti del defunto, viene invece chiamata col più elegante casket, traducibile con «scrigno» o «cofanetto», nel tentativo di nobilitare il prodotto.
Howarth fa notare quanto sia ironico che un’industria che si vanta di rendere più accettabile la morte, tramite personalizzazione [individualizing] e umanizzazione [humanizing] dei defunti, usi la disumanizzazione come metodo per gestire la spiacevole natura di questo lavoro. D’altronde, tale tecnica di distanziamento3535Cf. ivi, pp. 73-76.
è usata anche dai medici per focalizzare i loro sforzi scientifici verso i pazienti, e i becchini sono rinomati per il loro sense of humour.
Fin qui abbiamo discusso di come funeral director e funeral assistant si rapportino al cadavere. Nel caso del tanatoprattore la questione è molto diversa: «L’imbalsamatore, al contrario dei funeral assistant, non vede il cadavere come ripugnante. Il distinguo tra il professionista e chi preleva o deposita il corpo [bodyhandler] è dovuto a differenze di status, abilità e obiettivi […]. Meno abile [skillful] è il contatto col cadavere, più contagioso esso diviene e più disgustoso è questo compito. L’imbalsamazione, insistono gli esperti, implica un processo intricato e altamente specializzato, che richiede formazione ed esperienza. Coloro che operano sul cadavere si considerano tecnici professionisti».3636Ivi, p. 79.
Allora è la concezione che il soggetto ha dell’oggetto, e non le proprietà di questo, a determinarne la reazione edonica.3737Cf. Nussbaum, cit., p. 251.
Il disgusto può essere superato «dal contesto e dal tipo di aspettative che il contesto genera»3838Miller, cit., p. 54.
e impedito dall’assuefazione.
Nel prossimo articolo capiremo quali fattori abbiano storicamente portato all’insorgere dell’American way of death in seno al capitalismo e in virtù della pratica imbalsamatoria: una risposta alla putrefazione, non a caso, così fortemente basata sull’apparenza e sulla bellezza da risvegliare molteplici e articolate critiche.
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Stefano Menichini si è laureato in Storia e critica dell’arte all’Università degli Studi di Milano nel 2018, con specializzazione in arte contemporanea. Durante gli studi ha lavorato per il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano e la Galleria Daniele Agostini di Lugano, e ha scritto recensioni e articoli di approfondimento per d’Arte, KABUL Magazine e Flash Art web. È stato consulente di Google Arts&Culture per il Cinquecentenario della morte di Leonardo Da Vinci. Dal 2019 collabora con la Fondazione Giulio e Anna Paolini di Torino e si occupa di archivi di collezioni private. Attualmente è parte del team curatoriale di BUILDING, Milano.
A. Favole, Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza, Roma-Bari 2008.
U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori, Milano 2010.
G. Howarth, Last rites: the work of the modern funeral director, Baywood Publishing Company, New York 2006.
G. Laderman, Rest in peace. A cultural history of death and the funeral home in twentieth-century America, Oxford University Press, New York 2003.
G. Leopardi, Operette morali (1835), a c. di G. Ficara, Mondadori, Milano 1988.
M. Mazzocut-Mis, Voyeurismo tattile. Un’estetica dei valori tattili e visivi, il Nuovo Melangolo, Genova 2002.
M. Mazzocut-Mis, Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno, Le Monnier, Firenze 2009.
W. Miller, Anatomia del disgusto (1997), McGraw-Hill, Milano 1998.
M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni (2001), ed. it. a c. di G. Giorgini, il Mulino, Bologna 2004.
F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Bari 2013.
F. Remotti, Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamòrfosi, Mondadori, Milano 2006.
P. Rozin e A. Fallon, A Perspective on Disgust, in «Psychological Review», 94, 1987.
Centre for Death and Society della University of Bath.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.