L'utopia realizzata che viviamo nel nostro presente. Se l’utopia entra nella nostra quotidianità ha ancora senso provare a delineare un’utopia del futuro?
DIS Magazine, The Island (KEN), 2015. Photo: Heij Shin/New Museum.
«Benvenuti a Renotopia, dove il rinnovamento domestico
sostituisce la creazione di nuovi mondi»
(McKenzie Wark, TALK, New Museum, 2015).
«Renotopia» è un concetto coniato dalla sociologa australiana, specializzata in teoria e comunicazione dei media, MacKenzie Wark. In un talk tenuto nel 2015 al New Museum, in occasione dell’edizione della Triennale Surround Audience, Wark si rivolse al pubblico del museo newyorkese dicendo: «Benvenuti a Renotopia, dove il rinnovamento domestico sostituisce la creazione di nuovi mondi».
Ma è veramente possibile parlare di un’utopia del presente? Già da questa breve frase introduttiva della studiosa è possibile capire che la sua utopia preclude una connotazione temporale, il benvenuto iniziale lascia intendere che adesso stiamo vivendo l’utopia, e dunque sì, è possibile parlare di utopia del presente. Renotopia è da intendersi come un’utopia realizzata che per certi aspetti contraddice il significato originario del termine che porta con sé i concetti di “non luogo”, “luogo altro”, “luogo buono”, “luogo di un possibile futuro ideale”. Oltre ad avere un tempo specifico, Renotopia possiede infatti anche uno spazio determinato: le mura domestiche. La nostra casa è il luogo in cui vive l’utopia di oggi.
Il testo riportato di seguito è stato pubblicato nel 2015 su «Public Seminar», è scritto da Wark ed è strutturato come una sorta di manifesto, volto alla divulgazione e spiegazione di tale teoria: «L’utopia è viva e vegeta», dunque esiste nel nostro presente, «è soltanto diventata molto piccola. Il problema adesso è uno: capire come godersi la vita. Rinnoviamo! Buttiamo via quei brutti armadietti da cucina e finiamola con quella doccia che perde acqua! L’utopia è una voglia che diventa surplus».
«Organizza la tua casa secondo il tuo stile di vita», «La casa è il posto più importante al mondo»: sono gli slogan IKEA che esaltano l’ambiente domestico come centro e simbolo della nostra quotidianità. La casa come luogo di lavoro, di svago/gioco e della loro unione. La casa come rappresentazione dell’uomo lavoratore nomade che annulla i confini tra l’ufficio e il salotto in cui rilassarsi davanti alla televisione, inconsapevole così delle effettive ore lavorative quotidiane. Ritorna anche la ripetizione del termine “nuovo” (“new”): «New ideas, new designs, new low prices»: una voglia quasi spasmodica della ricerca di novità, del consumo ingiustificato, di quello che Wark ha definito come «rinnovamento» e che risponde alle seguenti domande: «dove trovare il benessere? Come vivere nel benessere?».
Renotopia è la soluzione ai bisogni dell’uomo di oggi, ma è anche il punto di arrivo di Wark a seguito di una serie di studi e pubblicazioni sintetizzati in Utopian Realism (Realismo Utopistico), apparso per la prima volta nel 2014, un anno prima rispetto al talk del New Museum e al testo qui riportato. Più che come un manifesto, Utopian Realism si presenta come un vero e proprio taccuino di appunti in cui Wark elenca e passa in rassegna alcuni studiosi e argomenti funzionali alla sua definizione di Realismo Utopistico. Attraverso le sue argomentazioni descrive quelle che, ai tempi in cui sono state formulate dai loro autori, erano da considerarsi come “utopie” (nell’accezione ideale e tradizionale del termine), e che invece oggi, nel nostro presente, sono da concepire come descrizioni della società contemporanea. Il compito di studiosi e teorici è pertanto simile a quello dell’archeologo: fare un lavoro sul campo, indagare il terreno che quotidianamente calpestiamo scovando tracce e indizi che messi insieme vanno a costituire la trama su cui sarà costruito il nostro futuro, non ideale ma figurato.
Per fare due esempi, sempre secondo Wark il filosofo Charles Fourier sarebbe riuscito a prefigurare a inizio ’800 il comportamento e le abitudini relazionali e sessuali dell’uomo contemporaneo, la grande facilità con cui si entra a contatto gli uni con gli altri, e la predisposizione a essere educati e cresciuti dalla comunità, o community, dalla società dei mass media più che dall’istituzione famiglia; Constant, invece, con La Nuova Babilonia avrebbe descritto una società iperconnessa, estendibile all’infinito e globalizzata, in cui l’uomo confonde il lavoro con l’intrattenimento, come spesso ci accade oggi quando utilizziamo i social network per condividere file e informazioni. Scrive Wark: «In un mondo falsificato dalla spettacolare estensione della forma della merce a un’intera totalità, i frammenti e gli indizi di un diagramma per forme e relazioni sociali effettive potrebbero dunque essere ciò che costituisce l’utopia».
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Qual è oggi, nell’era della sovraesposizione e della post-verità, la relazione tra utopia e produzione artistica? Per Wark gli artisti hanno perso la speranza nel futuro, e per questo possono auspicare solo alla composizione di mondi relativi a un futuro imminente – come dimostrano le opere esposte al New Museum, tra cui il video The Island, da considerarsi come un vero e proprio messaggio promozionale di Renotopia –, e non dunque a rappresentare proiezioni ideali della nostra quotidianità. Possiamo pertanto dire che l’indagine artistica sul presente è paragonabile a quella effettuata da Fourier e Costant? Verrebbe da rispondere sì, a patto che si riesca a perlustrare non la post-verità ma la vera realtà. Per far questo è necessario l’aiuto sia delle opere, a seguito del ragionamento fatto, sia dei videogiochi: «Il lavoro critico del gioco come utopia è quello di mostrare al mondo di non essere tanto reale quanto afferma». Senza avere piena coscienza di quale sia la vera realtà è impossibile provare a delineare un’utopia del futuro.
La teoria di Wark è apparsa anche in un articolo pubblicato su «Frieze» e intitolato Home Alone: On art, architecture, and domestic effects of digitalization. In esso la studiosa si interroga sulla relazione, più o meno consapevole, che stabiliamo con gli elettrodomestici che decidiamo di acquistare e disporre in casa. Il testo si apre con una riflessione sulla tv intelligente, prodotta da Samsung, in grado di eseguire dei comandi vocali e di registrare, in modalità offline, le conversazioni tra abitanti e ospiti della casa. Questi dati raccolti sono potenzialmente trasmettibili a terzi.
Possiamo dunque dire che è la privacy la nostra utopia del futuro? Wark omette questo argomento, siamo ancora troppo inconsapevoli delle strategie di controllo di cui ci circondiamo, pertanto la privacy non è la risposta alle nostre domande e non è l’utopia a cui auspica la società di oggi. Secondo la studiosa, l’utopia del futuro è un’altra: siamo coscienti di vivere in un’utopia realizzata, in cui grazie a un interruttore e a un rubinetto siamo in grado di avere luce, fuoco e acqua, ma dobbiamo altrettanto essere coscienti che questo sogno che viviamo non è stato distribuito equamente. Wark è archeologa del realismo utopistico quando sottolinea questa disparità e chiede che tali risorse, tali infrastrutture possano essere al servizio di tutti e non solo di pochi.
L’utopia è viva e vegeta: è soltanto diventata molto piccola. L’arte utopica del nostro tempo è il rinnovamento della cucina o del bagno – renotopia. Renotopia è il sogno per cui se potessimo strappare via tutto e ricominciare, il mondo perfetto potrebbe veramente nascere – se si potesse tenere solo gli elettrodomestici e le finiture. La renotopia è un mondo piccolo ma perfetto.
L’utopia è spesso pensata come un mondo separato in cui la perfezione viene raggiunta, in cui l’armonia regna e il tempo si ferma. Può essere o un sistema che cerca di tenere tutto in considerazione o un lampo momentaneo di speranza. Ma esiste un altro modo di pensare all’utopia. Non è una forma idealistica, ma una molto realistica – un ragionamento rigoroso attraverso la vita di tutti i giorni. L’utopia è il genere che spinge il realismo al limite. Se si comparano gli scritti utopici di Charles Fourier ai romanzi realistici, è Fourier ad avere una migliore presa sulla realtà. Pone domande, cosa che il romanzo solitamente non fa, come: chi porta via la spazzatura?
Oggi l’utopia sta vivendo nel tuo bagno e nella tua cucina. Questi due luoghi sono costruiti su una delle più grandi utopie mai realizzate: l’acqua corrente e le fognature, per non parlare di gas ed elettricità. La più grande utopia socialista che sia attualmente mai stata costruita è l’infrastruttura dei servizi. Tuttavia, mentre scrivo questo, alle persone della città di Baltimora è stata interrotta la fornitura d’acqua. È un promemoria di come questa utopia era, ed è, distribuita imperfettamente anche negli Stati Uniti.
Baltimore Shutting Off Water To Thousands While Ignoring Corporate Debtors | Portside.
Se c’è una caratteristica fondamentale della renotopia è un rifiuto della necessità per grandi, infrastruttuali utopie come fondamenti per quelle private della cucina e del bagno. La renotopia è il sogno di una civiltà in ritirata. Il problema diventa uno: capire come godersi la vita. Rinnoviamo! Buttiamo via quei brutti armadietti da cucina e finiamola con quella doccia che perde acqua! L’utopia è una voglia che diventa surplus. Ma quanto può andare lontano questa voglia in una civiltà in declino? Solo fino agli elementi del bagno.
Le utopie implicano sempre i confini – limiti che tengono a bada caos e violenza. Il bagno e la cucina hanno rubinetti e interruttori per gestire tutti i confini di solidi, liquidi o gas. Queste sono le zone che hanno più a che fare con i nostri corpi mammiferi. La renotopia promette che, con una scrupolosa attenzione alle superfici interne ed esterne del tuo corpo, anche tu possa raggiungere una certa forma di vita.
È curioso che le cucine siano diventate a pianta aperta, mentre i bagni no. Il bagno è ancora un dominio per artificio, per rendere il corpo puzzolente, stantio e cadente come qualcosa di inumano e favoloso, usando le arti cosmetiche basate sulle più recenti tecnologie della chimica industriale. Il bagno è la più riservata delle zone privatizzate. È possibile chiudere e persino bloccare la porta.
Come le classiche utopie, la renotopia promette di trasformare la nostra specie in qualcosa di più raffinato, più armonico ed elegante. È un mix strano tra il renderci più naturali per certi aspetti e meno naturali per altri. La cucina è per lo più sulla natura, ma non completamente. I tuoi nuovi elettrodomestici saranno realizzati con strani nuovi materiali azionati dai computer. Il bagno è per lo più sull’artificio, ma non completamente. Ci potrebbero essere finiture in pietra e legno naturale. La renotopia mescola tecnologia ultra-bassa e ultra-alta e taglia fuori la via di mezzo, per dar vita a una nuova specie che è über-umana.
Mentre scrivevo il mio libro, Molecular Red, mi ero interessato a quello che definisco meta-utopia. Non è né la visione totale dell’utopia, né il frammento di qualcosa di simile a renotopia, ma la condizione attraverso cui diverse visioni frammentarie del benessere potrebbero negoziare l’una con l’altra. Come potrebbe essere ampliata l’aspirazione a una vita migliore attraverso gli elettrodomestici da cucina?
Piuttosto che chiudere quella ambizione, forse possiamo immaginare un mondo intero adeguato alle nostre favolose immagini di sé, un mondo di alto livello per tutti? Possiamo aspirare a ciò che il teorico Kristin Ross definisce «lusso comunitario»?
Il lusso comunitario è quello che Ross pensa che possiamo imparare dalla Comune di Parigi. Rivivere questa linea di pensiero e sensazione – utopica nel migliore dei modi – potrebbe essere un passo avanti nei nostri tempi, che sembrano intrappolati in due imperativi: rinnovare a casa e innovare sul lavoro. Dovremo rinnovare o “rinnovare” tutto il tempo, ma non per fare la storia.
"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
di McKenzie Wark
McKenzie Wark è una scrittrice e accademica australiana esperta di teoria dei media e autrice, tra i più recenti, dei volumi General Intellects (Verso, 2017), Molecular Red (Verso, 2015) e A Hacker Manifesto (Harvard, 2004), tradotto in italiano con il titolo Un Manifesto Hacker (Feltrinelli, 2005). Wark insegna Media e Cultura alla New School di New York City.
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