David Firth, Cream, short film, 2017, courtesy the artist (https://www.youtube.com/watch?v=0UgiJPnwtQU).
Il contesto attuale “iperoccupato”, dove il tempo e lo spazio in cui viviamo vengono riempiti da azioni e strumenti che ne limitano la reale libertà, vede ‘la vita’ invadere l’arte in modo sempre più prepotente. Tanto che essa non è solamente uno degli oggetti principali dell’indagine artistica, ma ha finito per appropriarsi dei mezzi utilizzati dall’arte per raggiungere una forma estetica stimolante e coinvolgente. Per essere più precisi tale estetizzazione avviene colmando ogni nostro giorno di attività collettive e processuali (pensiamo a Twitter e alla pratica dello sharing di ciò che ci accade in ogni istante), mantenendo le persone occupate senza apportare alle loro esistenze alcun risultato o realizzazione. È bene precisare infatti ciò che in primo luogo differenzia l’occupazione dal concetto di lavoro: una conclusione o risultato non necessari. Occupazione è da intendersi, quindi, come azione fine a se stessa, di pura gratificazione, lontana da quel ‘mezzo per un fine’ che è il lavoro. Inserendosi nei più diversi contesti quotidiani l’occupazione determina una serie di slittamenti che producono nuovi parametri relativi a un tempo e uno spazio che non sono più circoscritti in un quadro, ma sono legati al semplice trascorrere, al “leisure and pleasure”. Molti si potrebbero chiedere a questo punto come possano le implicazioni sopra evidenziate essere reali. Probabilmente alcune delle domande che Hito Steyerl, artista e filmmaker tedesca, pone nell’articolo pubblicato su «e-flux journal» nel dicembre 2011 possono risultare illuminanti per un richiamo a una nuova interpretazione del concetto di autonomia nei confronti del reale, dove la dissociazione arte e vita appare ormai utopica e impossibile. Ecco qui alcune delle domande di Steyerl: «Does art process you in the guise of endless self-performance? Do you wake feeling like a multiple? Are you on constant auto-display?».
Oppure:
«Have you been beautified, improved, upgraded, or attempted to do this to anyone/thing else? Has your rent doubled because a few kids with brushes were relocated into that dilapidated building next door? Have your feelings been designed, or do you feel designed by your iPhone?».
Se proviamo a rispondere o a interrogarci su queste domande, l’onnipresenza dell’arte nella vita di tutti i giorni si rende visibile in maniera più lucida e chiara. Le azioni sopracitate si manifestano come sintomi di una vera e propria occupazione artistica. La dematerializzazione dell’oggetto o dell’opera e la loro relativa sostituzione a favore di azioni relazionali e performance sono diventate oggi le regole di un processo iniziato negli ultimi cinquant’anni. Lo slittamento, che è avvenuto e sta ancora realizzandosi, vede quindi l’incorporazione del mondo dell’arte nella vita, nella forma anche di un processo di estetizzazione politica. L’autonomia artistica, per com’è stata analizzata e teorizzata crocianamente nei primi del Novecento, appare oggi non solo morta ma paradossalmente persino funzionale alla costruzione di modelli di business apparentemente clever e super cool. Se, recuperando il pensiero crociano, nella separazione dalla vita l’arte generava la sua purezza, se nell’indipendenza dal contesto produceva un valore aggiunto, ora è la base portante per la costruzione della vita stessa. Questo ribaltamento è evidenziato anche da Steyerl quando scrive: «Artistic autonomy was meant to separate art from the zone of daily routine – from mundane life, intentionality, utility, production, and instrumental reason – in order to distance it from rules of efficiency and social coercion».
Cécile B. Evans, Hyperlinks, video, 2014-in corso, courtesy the artist.
Nel tratteggiarla come tale, Steyerl si sofferma – per mostrare il cambiamento avvenuto – sulla scelta presa in passato dagli artisti di rifiutare le specializzazioni nel settore. In quanto tale, questa decisione, giustificata anche da una volontà di allontanamento dall’alienazione, appariva come una delle mosse principali per rendersi per così dire ‘autonomi’. Il rifiuto della specializzazione da parte dell’artista appare oggi recuperato e trasformato in una pratica ben precisa dai sistemi neoliberisti che ne fanno uso al fine di coprire il dilettantismo professionale presente in molte forme di occupazione contemporanea. Mostrandosi come apparentemente multitasking, i soggetti di tale sistema neoliberista, quali manager, amministratori e imprenditori, hanno smesso di separare i settori lavorativi per una falsa degerarchizzazione con il fine di risparmiare in numero la manodopera specializzata. Il che assume un significato politico in quanto si dimostra come una chiara e pervasiva azione di auto-oppressione. Risulta quindi necessaria una riarticolazione funzionale di quest’occupazione, in modo da non dimenticare il valore di luogo che ha e che ci investe nella totalità fisica e mentale: «It is a space of affect, materially supported by ripped reality. It can actualize anywhere, at any time» afferma Steyerl.
Assunto ciò, proprio come evidenzia anche Boris Groys in un articolo su «e-flux», il punto centrale non è quasi più la capacità dell’arte di essere politica o meno (dubbio che pare già frustrare abbastanza il sistema), ma il fatto che la sfera politica sia appunto, come affermato all’inizio, fortemente estetizzata:
«[…] Instead of changing the world, art only makes it look better. This causes a great deal of frustration within the art system, in which the predominant mood appears to almost perpetually shift back and forth between hopes to intervene in the world beyond art and disappointment (even despair) due to the impossibility of achieving such a goal. While this failure is often interpreted as proof of art’s incapacity to penetrate the political sphere as such, I would argue instead that if the politicization of art is seriously intended and practiced, it mostly succeeds. Art can in fact enter the political sphere and, indeed, art already has entered it many times in the twentieth century. The problem is not art’s incapacity to become truly political. The problem is that today’s political sphere has already become aestheticized».
L’incessante produzione mediatica di immagini che rappresentano, pubblicizzano e ci informano sui politici ne è la dimostrazione. Tanto che potrebbero calzare perfettamente le parole che Susan Sontag scriveva nel 1973: «Le immagini che in una società moderna hanno un’autorità praticamente illimitata sono infatti soprattutto le immagini fotografiche».11
Dimostrandosi come fortemente efficaci e radicate, in particolare rispetto alla produzione del sistema dell’arte stesso, le totalizzanti forme mediatiche hanno ribaltato la posizione dell’artista, che ha iniziato a muoversi allo stesso modo dei politici o dei nuovi businessman. Diventando lui stesso immagine, opera, l’artista crea il disegno di se stesso, un self-design non privo di preoccupazioni determinate dalla continua esposizione agli sguardi. Ma siamo davvero sicuri di ‘disegnare’ l’immagine del proprio essere autonomamente? A detta di Groys no, infatti: «The ultimate problem of design concerns not how I design the world outside, but how I design myself – or, rather, how I deal with the way in which the world designs me».
Guan Xiao, Dengue, Dengue, Dengue, 3 channel video, 2017, courtesy the artist.
La responsabilità che ci assumiamo per la nostra auto-progettazione appare così in definitiva governata dall’esterno, da un mondo analogico al cui interno dovremmo realmente essere responsabili. A questo punto, la proposta di riflessione sul concetto di autonomia si relaziona ai termini di ‘discrezione’ e ‘anonimato’ che i filosofi Marina Garcés e Federico Ferrari condividono nella propria riflessione. L’onestà nei confronti del reale, oggetto di un articolo di Garcés pubblicato nel 2012 sul «Journal of Aesthetics & Culture», è concepita come una forma di terapia, come virtù che si presta a essere un nuova modalità di impegno e intervento. In un mondo in cui la ripoliticizzazione dell’arte è pura apparenza, mentre dominano “luoghi d’arte” identificabili in prospettive di consumo e banalità, l’onestà, non circoscrivibile entro temi, spazi e processi ben precisi, si caratterizza per il potere di coinvolgimento e il desiderio di verità che ci riguardano e riguardano il mondo là fuori. Se le uniche due domande che l’Occidente finora si è posto nei confronti del reale sono sempre state legate a un come interpretarlo e come trasformarlo, questa form of treatment, al contrario, si manifesta come «way of being, of perceiving, of sustaining, or having something in hand, or situating oneself».22
Per liberarsi da un mondo di sofferenza e angoscia in cui le vittime sono la chiave di lettura della forza di un potere quasi inarrestabile, è necessario assumere una posizione, situare se stessi ed esporsi. Tale scelta non implica il parlare delle vittime e il continuare ad apportare ulteriori immagini di esse in un mondo in cui sono già onnipresenti, ma anzi cambiare alla radice il nostro modo di vedere e percepire. Non si tratta di codici morali da rispettare o di una rivoluzione da attuare ma, prima di tutto, della condivisione di un grido di protesta. Vivere il mondo come attività condivisa. Parafrasando Garcés, la scelta di assumere una posizione di onestà nei confronti del reale non è cosa da poco, in quanto rappresenta, in una sorta di accezione meno negativa, un esercizio di violenza che prevede due direzioni: il lasciarsi influenzare – il che significa rompere qualcosa di se stessi per poi ricostruirsi in una nuova forma – e l’entrare in scena. Ribaltare l’individuo fuori di sé per renderlo anonimo e libero di entrare in contatto con l’altro. Per essere attuato, tutto ciò richiede l’integrità e l’umiltà di imparare ad accettare la realtà nelle sue innumerevoli forme, positive o meno, consci del fatto che sia indispensabile contrastare la neutralizzazione e immunizzazione che il liberismo stesso ha prodotto. Contrastare quell’imposta rimozione di una relazione con gli altri e il mondo che in altri termini Garcés definisce, citando le parole di Tiqqun, come un «living as if we weren’t in the world».33 L’atto violento è allora più nitido e si presenta in primo luogo come responsabilità di essere noi stessi e in secondo come decisione di entrare effettivamente nel reale esponendoci.
Tristan Bera, Ana Vaz, A Film, Reclaimed, video, 2015, courtesy the artist.
La partecipazione che la politica, e in particolare il neoliberismo, sta producendo nella sua iperperformatività non coinvolge davvero, al contrario offre un lista di opzioni che non alterano le condizioni attuali esistenti. Ciò è visibile in quanto in tale lista non vi sono posizioni possibili ma già decise e dove noi interveniamo attraverso strumenti – in particolare mediatici – precostruiti. Il vero impegno e coinvolgimento onesto contro vite immunizzate, autoreferenziali e privatizzate corrisponde pertanto, nella proposta di Garcés, al cambiare sguardo e schierarsi, impegnandosi anche se non si conoscono tutti i fronti presenti in battaglia. Fondamentale è smettere di interrogarsi sul senso del mondo, sul perché le cose accadano, per passare a un come agire e a un come condividere l’urgenza di protesta. Interrompendo quest’analisi sul senso del mondo, si apirà una distanza da concepire in realtà come una prossimità. Come già espresso, è distaccandosi dal proprio sé che si acquisisce la possibilità di un «entering on to the scene»: «This proximity is what brings about the crisis of sense that forces us to start to think, to speak and to create».44
A questa non necessità di senso si affianca dunque il potere dell’anonimato, da intendersi non come privazione del proprio nome, ma semplicemente come allontanamento dal nostro ‘I-brand’ costruito e cercato nelle cose e nelle persone del mondo. Il reale non è rappresentabile e non aderisce perfettamente a nessuna identità pur caratterizzandosi di innumerevoli singolarità che formano l’esperienza del comune. A questo punto alcuni dei perni centrali della riflessione di Garcés – una realtà costituita di nulla, la necessità di prendere una reale posizione e l’importanza di un distacco da immagini precostituite del mondo là fuori – si possono riscontrare nelle considerazioni che Federico Ferrari rivolge alla figura dell’anarca:
«Quando penso alla figura dell’anarca penso immediatamente a Seneca, alla sua capacità di stare nel mondo, al centro del mondo, per poi ritirarsene, senza alcun pentimento, alcun rimpianto. Ma subito mi appare anche Leopardi nella noia di una calda giornata d’estate a Recanati. O Marcel Duchamp, il più influente degli artisti contemporanei, il quale, nel trambusto parigino, rispondendo divertito alle seriose domande di un intervistatore, dice “per me le questioni d’arte non hanno più assolutamente alcun interesse”»55.
Già a partire dall’incipit del testo pubblicato da Mimesis è possibile non solo notare una serie di analogie con le parole della filosofa spagnola, ma persino chiarire ulteriormente l’altro termine – “discrezione” – che, insieme all’anonimato, caratterizza la riflessione sull’autonomia. L’anarca di Eumeswil, romanzo di Ernst Jünger del ’77 e punto d’avvio della riflessione di Ferrari, è padrone del proprio sé in una forma di indifferenza e distanza dalla società da intendersi come forma antologica di comprensione dell’essere. L’anarca di Jünger e di Ferrari non ha nulla a che vedere con gesti radicali e ossessioni di opposizione al potere, anzi è presentato, in particolare nell’incipit del testo di Ferrari attraverso tre grandi nomi (Seneca, Leopardi e Duchamp), come figura priva di una ‘fisionomia’ ben delineata e inserita per così dire nel ‘fuori corso’ del secolo. Dimostrando un’indifferenza ai tratti distintivi e ai simboli di appartenenza, carattere che lo accomuna all’anonimia delineata precedentemente nel pensiero di Garcés, rivolge la sua attenzione verso l’esistenza di un nulla di cui si compone la realtà e a cui intende abbandonarsi. In questo abbandono, però, non si prefigura una passività quanto, in realtà, il gesto centrale della sua azione nei confronti del contesto che gli ruota attorno: lasciare che il potere non trovi appigli e che si distrugga con la sua stessa forza. Il potere, quale forma di sottomissione stessa a un principio più alto, ha costruito certezze basate su ideologie, narrazioni e concetti filosofici che conducono a un’idea di salvezza e redenzione che in realtà non si dimostra possibile. Non vi è infatti alcuna battaglia da vincere, scrive Ferrari, anzi nella costruzione di queste distrazioni l’unica cosa che si ‘guadagna’ è la perdita di un contatto profondo con il reale, lo stesso contatto che segnala Garcés. Oltre a queste si inseriscono anche le distractions più attuali legate alla formula di una società iperattiva che investe il nostro quotidiano: iPhone, smartphone, Internet e social network. Nell’ortodossa società in cui viviamo, all’interno di una continua logica di rinvio al futuro a causa di un’imperfezione del presente, la vita quindi «resta sospesa o nella disperazione di una felicità annunciata o già perduta o nella fede di un ritorno apocalittico».66 Inoltre l’interesse continuo per la produzione, sia essa collettiva o individuale, ha comportato lo scaturire di un’iperperformatività accompagnata da una perenne ansia da prestazione e una perpetua proiezione nel futuro. L’anarca nel suo distacco, invece, in quanto libero da questa futuristica proiezione, «sa che non è possibile resistere alla corrente del tempo; sa che andare contro-corrente è un’impresa disperata; che illusorio è pensare di superare la velocità del secolo»77, e decide pertanto di porsi in una posizione opposta.
Nella sua scelta di stasi, in una discrezione quasi atarassica, riesce a osservare il procedere vorticoso del tempo con sguardo oggettivo, percependone la sua simultaneità e immergendosi in una sorta di fraternità con gli altri esseri viventi pur restando un individuo “solo”, un uno.
E se ci sottraessimo alla tirannia dell’apparire, del costruire immagini da selfie e alla reperibilità costante al fine di riappropriarci di un nuovo significato politico? Giunti a questo punto che cosa accadrebbe? Nella veste di figure discrete, come afferma anche Pierre Zaoui nel suo recente saggio “L’arte di scomparire”88, attuiamo un gesto volontario e politico. Pertanto è prendendo sia una posizione alla maniera in cui la intende Garcés, anonima ma pronta a riflettersi nell’esperienza comune, sia alla maniera che ci propone Ferrari, anonima ma intima e muta, che ci è permesso vivere all’interno della realtà sopportando il contesto attuale, agendo e costruendo un movimento onesto e propulsivo, violento e pacato allo stesso tempo. Nel mondo dell’onnivisibilità, la discrezione è un’urgenza e una scelta di vita che fa del sottrarsi il vero affermarsi. Da questa posizione «tutto è identico a prima, salvo il nostro modo di vedere che, nei fatti del mondo, nel solido nulla, come ebbe a chiamarlo Leopardi, non scorge più decadenza, decomposizione, perdita, approssimarsi della fine e attesa redentrice ma solo un’infinita metamorfosi di cui il nostro sguardo è la mutevole cornice»99.