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Ermafroditi e cyborg: post-identità contro il binarismo di genere
Magazine, POST - Part II - Marzo 2017
Tempo di lettura: 19 min
Dario Alì

Ermafroditi e cyborg: post-identità contro il binarismo di genere

Strategie di ricolonizzazione del corpo. Breve itinerario storico-iconografico tra la filosofia di Michel Foucault e Donna Haraway e l’immaginario di Henry Darger e Lee Bul.

Barry X Ball, Sleeping Hermaphrodite, 2010. Andrea Crespo, patient(s) history, 2015, dettaglio, courtesy of Swiss Institute, New York.

Nel 2013, la Germania è stata la prima nazione europea a riconoscere il genere intersex per i bambini nati con organi genitali non strettamente classificabili come “maschili” o “femminili”. Tuttavia, ancora oggi, in Europa non esiste alcuna legislazione a tutela delle persone intersex, che nella maggior parte dei casi continuano a subire interventi irreversibili di riassegnazione di genere prima ancora di prendere coscienza della propria condizione. Sebbene in Italia si siano fatti molti passi avanti rispetto agli anni ’70 – quando la riassegnazione avveniva esclusivamente in base alla lunghezza del pene –, oggi la prassi medica continua a essere quella di intervenire chirurgicamente sul minore senza il suo consenso, rischiando così di causare squilibri fisici e danni psicologici permanenti, oltre che negando del tutto l’integrità fisica, l’autonomia e l’autodeterminazione del soggetto.

Frutto di una visione eteropatriarcale della società, la griglia binaria dei sessi esclude tutte quelle forme di identità non ascrivibili al sistema di genere dominante. E più in generale, le categorie dualistiche (uomo-donna, bianco-nero, eterosessuale-omosessuale ecc.), insite nella cultura occidentale, favoriscono la costruzione del termine oppositivo come altro su cui esercitare forme di dominio e pratiche di esclusione.

Chris Cunningham, All is full of love (Björk), videoclip, 1999.

Quello del binarismo di genere, che vede fronteggiarsi tra loro due sessi opposti, e codifica norme comportamentali da associare a identità specificamente o “maschili” o “femminili”, è solo uno dei sistemi utilizzati per la classificazione sessuale. Fuori dall’Occidente, tale paradigma non sempre trova riscontro. È il caso, per esempio, degli hijras – termine che riunisce le persone transgender, intersex ed ermafrodite –, ufficialmente riconosciuti come “terzo genere” in Pakistan, India e Bangladesh; o dei fa’afafine delle isole Samoa, anch’essi percepiti all’interno della società come un genere diverso da quelli maschile e femminile.

Ai persistenti dualismi su cui tradizionalmente si fonda la società occidentale, s’intende qui contrapporre una visione costruita piuttosto sulla pluralità e l’inclusione, e ben espressa da due miti – quello di Ermafrodito e quello del cyborg – forse in grado di sfuggire alla griglia categoriale binaria attraverso l’istituzione e proposta di un immaginario alternativo a quello finora assunto.

 

Androgini ed ermafroditi nel mito

Nelle narrazioni mitologiche arcaiche e nelle rappresentazioni artistiche di varie culture, la figura dell’androgino è una presenza costante che, in virtù della sua «attitudine a rappresentare ogni sorta di dualità essenziale, al di là della semplice polarità sessuale»,11S. Sivelli, L’androgino e il simbolo, «Itinera», 1, 2011, p. 95.
può essere concepita come il “simbolo dei simboli”, una metafora in grado di sintetizzare armonicamente le tensioni opposte che la costituiscono.

Costantin Brancusi, Princess X, 1920.

Nella cultura occidentale tale figura si afferma con il Simposio di Platone, in cui si narra che in origine i sessi fossero tre: maschile, femminile e, appunto, androgino. Sempre Platone ci dice che all’epoca gli esseri umani, composti da due teste, due braccia e due gambe, erano così arroganti da immaginare di scalare l’Olimpo. Per indebolirli, Zeus decise così di dividerli in due metà, che da quel momento non smisero più di cercarsi (ecco che il mito dell’androgino diviene funzionale a delineare una vera e propria genealogia dell’amore).

Se pertanto nel mito dell’androgino è insito un sentimento di nostalgia rivolto a una perfezione e un’unità originarie perdute, in quello che può essere visto come il suo doppio negativo – cioè il mito di Ermafrodito – «più che di sintesi si può parlare di un accumulo di due sessualità, che si realizza senza dare atto a una soluzione armonica, anzi esasperando, senza risolverlo, il conflitto tra la dimensione maschile e quella femminile».22Ivi, p. 77.

Figlio di Ermes e Afrodite – come si racconta nelle Metamorfosi di Ovidio – il bellissimo Ermafrodito diviene oggetto del desiderio della ninfa Salmacide che, dopo averlo invitato a spogliarsi e a tuffarsi con lei in un lago, supplica e ottiene dagli dei che il suo corpo si unisca per sempre a quello del giovane. In questo caso, la compresenza di due sessi (e due generi) in un unico individuo si presenta dunque come condizione ottenuta alla fine di un processo metamorfico (o «performativo», per usare le parole di Judith Butler), che non dà spazio alcuno alla nostalgia ma, anzi, mette in evidenza l’impossibilità di armonia e fusione.

Se consideriamo la determinazione sessuale come una delle caratteristiche che storicamente e culturalmente definiscono l’identità di un individuo, Ermafrodito, oltre ad aver perso per sempre la propria individualità per via della sua nuova natura doppia e androgina, non può nemmeno più essere considerato come espressione di un’identità categorizzabile e in grado pertanto di essere controllata e disciplinata. Se tale interpretazione è plausibile, come si tenterà di dimostrare con il celebre caso di Herculine Barbin, potremo considerare il corpo ermafrodito come un corpo culturalmente e politicamente destabilizzante, e la sua iconografia un valido strumento per invalidare e minare il mito del binarismo di genere.

Lynda Benglis sulle pagine di «Artforum», 1974.

 

Louise Bourgeois, Filette, 1968.

Herculine/Alexina

«Io mi libro al di sopra di tutte le vostre innumerevoli miserie, partecipando della natura degli angeli; poiché l’avete detto, non c’è posto per me nella vostra angusta sfera. A voi la terra; a me lo spazio illimitato. Incatenati quaggiù dalle mille costrizioni della vostra grossolana e materiale sensibilità, i vostri spiriti non si bagneranno nel limpido Oceano dell’infinito, dove s’abbevera l’anima mia, perduta per un giorno sulle vostre aride spiagge».
(Herculine Barbin, Una strana confessione)

Parafrasando le riflessioni di Michel Foucault espresse in La volontà di sapere, Silvia Ferrari afferma: «La sfida del potere è di cucire sul soggetto una precisa identità in modo che rientri in una griglia categoriale fissa e binaria (normale-anormale) al fine di classificarlo, controllarlo e disciplinarlo e, spingendosi ancora oltre, che sia proprio il soggetto, spontaneamente, a voler diventare ben definibile e definito – attraverso l’affermazione e la rivendicazione della propria identità».33S. Ferrari, Herculine Barbin e l’ermafroditismo. Una critica foucaultiana all’identità di genere, academia.edu, pp. 704-705.

Herculine Barbin muore suicida a soli 30 anni, nel 1868. Nella sua autobiografia, scoperta dopo la morte e pubblicata da Foucault nel 1980, Herculine racconta di come, dopo esserle stato attribuito alla nascita il sesso femminile per via di una variazione dei genitali, in età adulta sia stata costretta da un tribunale ad assumere sesso e identità maschili. Quello di Herculine è un raro caso di pseudoermafroditismo maschile. Cresciuta in un convento con il nome di Alexina, a vent’anni diviene insegnante in una scuola per ragazze, dove si innamora di una collega. A causa di una serie di intensi dolori dovuti al suo stato fisico, Herculine è costretta a farsi visitare da un medico. La scoperta della sua condizione porta così all’apertura di un iter giudiziario che culmina con la riassegnazione del sesso maschile, motivo che la porta di lì a poco al suicidio.

Il suicidio di Herculine, tuttavia, non va concepito come una vittoria del potere disciplinare sul soggetto, ma rappresenta piuttosto l’ultimo disperato atto di una resistenza non solo etica ma anche politica ed esistenziale, che emerge dai suoi stessi scritti. Per parlare di sé, Herculine utilizza indifferentemente pronomi maschili e femminili, producendo un’ambiguità che non consente al lettore di inquadrarla entro uno specifico genere. Come Ermafrodito, Herculine non possiede pertanto un’identità categorizzabile, ma la sua tragedia ha inizio solo nel momento in cui la sua vita si scontra con il potere, cioè quando la società la costringe a definire la sua identità. Nell’interpretazione di Foucault, il tentativo di normalizzare Herculine – ritenuta un errore da correggere all’ufficio anagrafe – corrisponde alla necessità del potere disciplinare di usare la categoria del sesso come caratteristica necessaria dell’identità corporea, producendo così ciò che è definito come “corpo sessuato” (che diventa poi anche sorvegliato, punito, addestrato ecc.). Allora, come ha notato a ragione Judith Butler, «nel curare e pubblicare i diari di Herculine Barbin, Foucault sta chiaramente cercando di dimostrare come un corpo ermafrodito o intersessuato metta in luce e confuti implicitamente le strategie regolative della categorizzazione sessuale».44J. Butler, Questione di genere, Laterza, Bari 2013 [1999], p. 137.

Ermafrodito dormieante (collezione Borghese), I sec. d. C., materasso in marmo di Carrara scolpito da Gianlorenzo Bernini nel 1619.

 

Jusepe de Ribera, Maddalena Ventura con il marito e il figlio, olio su tela, 1631.

Iconografia dell’ermafrodito

Prima di affrontare nello specifico il motivo dell’ermafrodito nella storia dell’arte occidentale, è necessario premettere che tutta l’arte queer, in un certo senso, sfida il binarismo di genere, e che anche all’interno dell’arte non strettamente inquadrabile come queer è possibile individuare elementi per un immaginario che faccia da contraltare a quello assunto tradizionalmente. Senza soffermarmi troppo, è il caso, per esempio, di un dipinto del pittore spagnolo Jusepe de Ribera realizzato nel 1631 su commissione del duca di Alcalà per la sua vasta collezione di mirabilia. Maddalena Ventura con il marito e il figlio mostra al centro della tela, in primo piano, una donna originaria di Accumoli famosa per le sue sembianze maschili e la lunga barba. Ritratta insieme al figlio e al marito, l’unico tratto femminile che la caratterizza è un grande e tondo seno scoperto da cui allatta il neonato, ma la rappresentazione dei topoi tradizionali della maternità e della bellezza femminile è qui rovesciata, seppur con l’unico scopo – è bene ricordare – di creare stupore in chi osserva.

Nel 1920 Costantin Brancusi presenta al Salon des Indépendants di Parigi Principessa X, una scultura che avrebbe dovuto rappresentare Marie Bonaparte, ma che desta scandalo ed è accusata di oscenità per via della sua palese forma fallica. Nonostante l’artista abbia respinto le accuse affermando che l’opera raffigurerebbe nient’altro che un profilo di donna (un grande volto ovale leggermente inclinato e un lungo collo poggiato su un seno prosperoso), l’opera palesa un’ambiguità di genere che aumenta in base all’angolazione da cui si guarda: se da sinistra è infatti riconoscibile un profilo femminile astratto e geometrico, da destra la maggiore inclinazione rivela la sagoma di un pene eretto.

Robert Gober, Untitled, 1991.

Per non parlare poi di alcune icone femministe del XX secolo che hanno fatto dell’emancipazione dal paradigma binario la propria bandiera. È il caso per esempio di Louise Bourgeois – si pensi a Fillette, scolpita nel 1968, che rappresenta un enorme fallo che, visto da una diversa prospettiva, assume le sembianze di un torso femminile, come suggerisce anche il titolo dell’opera – o di Lynda Benglis, la cui iconica fotografia che la ritrae nuda con un enorme dildo in mano finì nientemeno che sulle pagine di «Artforum» nel 1974.

Ma venendo alle opere che sviluppano specificamente il motivo dell’ermafrodito, ricordiamo anzitutto, in epoca classica, l’esempio dell’Ermafrodito dormiente, una scultura a grandezza naturale che raffigura il personaggio omonimo. Tra le varie realizzate, la copia più nota è quella romana del I sec. d. C., riscoperta a Roma nel 1608 ed entrata a far parte della collezione Borghese. Ermafrodito giace sensuale su un materasso in marmo di Carrara scolpito nel 1619 da Gianlorenzo Bernini, su commissione del cardinale Scipione Borghese. Nel 2010, l’artista statunitense Barry X Ball ne ha realizzato una straordinaria riproduzione in marmo nero.

Ancora, Untitled (1991) di Robert Gober, una scultura in cera, peli umani e pigmento, mima le sembianze dei torsi in marmo della classicità, da cui tuttavia si discosta per via della compresenza di elementi maschili e femminili sulla medesima porzione del corpo. Diviso in due metà, l’ermafrodito è poggiato sul pavimento e rivolto contro il muro, simile a un sacco abbandonato.

Jesse Kanda, Xen (Arca), 2014.

Riferimenti all’immaginario ermafrodito sono presenti inoltre nella ricerca estetica sul corpo grottesco condotta da Jesse Kanda, artista visivo autodidatta – come si definisce nel suo sito – e stretto collaboratore del musicista Arca, per il quale ha realizzato vari videoclip e copertine di album. E proprio sulla copertina di Xen, album pubblicato nel 2014, Kanda raffigura un personaggio contraddistinto da caratteristiche fisiche insieme maschili e femminili, non riconducibili a una visione del corpo binaria. Xen, che stando alle parole di Arca rappresenterebbe un «alter-ego androgino» del musicista, appare inoltre nel videoclip di Thievery, anch’esso opera di Kanda, in cui il personaggio nudo, dopo aver ballato per l’intera durata della traccia, al minuto 2:26 mostra per la prima volta i propri genitali, rivelando tuttavia solo un’indistinta massa di carne che ancora una volta non consente di inquadrare il personaggio all’interno di una griglia categoriale fissa.

Accanto a questi, numerosissimi altri esempi dell’uso del corpo ermafrodito o intersex andrebbero citati, così come accade nelle opere di Matthew Barney, Hans Bellmer, Pierre Klossowski, Orlan, Cindy Sherman ecc. Tuttavia, si è scelto di affrontare più diffusamente uno specifico caso studio (e caso limite) non ancora sufficientemente approfondito dalla critica: quello dell’immensa opera di Henry Darger.

Henry Darger – In the Reams of Unreal.

 

Henry Darger, In the Reams of Unreal.

In the Reams of Unreal

Quando Henry Darger trasloca dal piccolo appartamento all’851 della W. Webster Avenue di Chicago, dove ha vissuto per più di 40 anni, il fotografo Nathan Lerner, proprietario della casa, scopre il suo appartamento interamente tappezzato da una miriade di ritagli di giornale, riviste, fotografie, collage, bozze e acquerelli. Insieme alle immagini di bambini rapiti e uccisi, l’appartamento custodisce un’opera monumentale frutto di quasi 50 anni di lavoro, che senza questa scoperta sarebbe certamente andata perduta.

Scrittore e artista autodidatta statunitense, Darger è autore di In the Reams of Unreal, un’opera di 15.145 pagine composta da testi, acquerelli e collage.55Il realtà si tratta di un’abbreviazione di comodo. Il titolo originale dell’opera è infatti The Story of the Vivian Girls, in What is Known as the Realms of the Unreal, of the Glandeco-Angelinian War Storm, Caused by the Child Slave Rebellion.
Dopo la morte di entrambi i genitori e un’infanzia trascorsa in un manicomio infantile, a 17 anni fugge dalla Lincoln State School e trova lavoro come custode in un ospedale cattolico di Chicago, dove lavorerà per il resto della sua vita, fondando un’associazione per la difesa dei bambini abusati. Nel 1930 comincia a scrivere e illustrare un’opera incentrata sulle vicende di sette principesse bambine dell’immaginaria nazione cristiana di Abbiennia, situata su un pianeta che orbita intorno alla Terra. Guidando una rivolta contro gli abitanti del malvagio impero di Glandelinia, le principesse combattono per liberare i bambini ridotti in schiavitù e torturati dagli adulti. In questo mondo immaginario, delle giganti creature fantastiche – i Belgigomeniani – vengono talora in soccorso dei bambini rapiti. La causa della guerra è l’omicidio della schiava ribelle Anna Aronburg, personaggio ispirato a Elsie Paroubek, una bambina di 8 anni rapita e uccisa a Chicago nel 1911, di cui Darger possedeva una fotografia ritagliata dal Chicago Daily News e sparita a seguito di un furto nella sua abitazione.66L’omicida di Elsie non è mai stato identificato, e ciò ha indubbiamente contribuito ad alimentare la leggenda secondo cui Darger sarebbe stato l’assassino.

Henry Darger, In the Reams of Unreal.

In un ricchissimo immaginario che prende ispirazione da testi sacri, fumetti, romanzi come La capanna dello zio Tom e Il meraviglioso mago di Oz, la lunga trafila di violenze e massacri che lo spettatore ha davanti non costituisce l’aspetto più enigmatico dell’opera (notoriamente la violenza appartiene, infatti, all’iconografia cristiana). I critici si sono invece interrogati su un altro aspetto, e cioè sul motivo per cui i bambini protagonisti dell’opera siano rappresentati come ermafroditi.

Indubbiamente l’immaginario di Darger appare quantomeno stridente in una società patriarcale e tradizionalmente eterosessista che ha imposto una visione dualistica dei sessi e dei generi. Lungi dall’essere rappresentate come prodigi o scherzi della natura, le vittime ermafrodite di Darger, combattendo una guerra per la propria libertà, appartengono a una dimensione eroica. Allora, come nota Joseph Nechvatal su Hyperallergic:

«[Darger’s hermaphrodites] remind us to reject the thesis that the order of the world depends upon the way that our bodies and minds (and our language/culture) work to structure it. These girl-boys remind us to reject the phenomenological idea of the knower and known».

Henry Darger – In the Reams of Unreal. Henry Darger, In the Reams of Unreal.

Sebbene, dunque, l’universo di Darger vada sempre ricondotto all’orizzonte del fantastico e dell’immaginifico, e nonostante personaggi dalla sessualità ambigua non fossero all’epoca del tutto inusuali, come dimostra Ozma of Oz di Lyman Frank Baum (che Darger conosceva), in cui compare un personaggio transgender,77Ozma of Oz, tradotto in italiano come Ozma, regina di Oz, è il sequel del Meraviglioso mago di Oz, in cui Tip, ragazzo destinato a essere futuro sovrano di Oz, altri non è che la principessa Ozma, trasformata da bambina dalla strega Mombi in un maschio.
non possiamo tuttavia fare a meno di riconoscere la portata emancipatrice che queste immagini riescono ancora oggi a veicolare.

Per concludere, Klaus Biesenbach su Darger:

«Why is Darger so relevant today? Perhaps it is because his focus on war and violence, belief and despair, and the heaven and hell of human interaction seem all too contemporary and speak to the deepest anxieties of our media-driven society».88K. Biesenbach, Henry Darger, Prestel, New York 2009, p. 11.

A ciò aggiungo che oggi l’opera di Darger rappresenta, con il suo complesso ritratto della sessualità infantile, una sfida per uscire dalla griglia categoriale imposta dall’immaginario tradizionalmente acquisito.

 

Lee Yong Baek, Pietà (Self Death), 2008.

A Cyborg Manifesto

Se finora il mito dell’ermafrodito è servito a delineare una valida contronarrazione per insidiare il paradigma eterosessista delle società patriarcali, un altro mito, che si è affermato nella seconda metà del XX secolo, è forse in grado di compiere un passo ulteriore verso la confutazione e lo sgretolamento del binarismo di genere, e più in generale di tutti i dualismi su cui si fonda la società occidentale: sto parlando del mito del cyborg.

Il Manifesto cyborg di Donna Haraway del 1984 è il punto di avvio per una trattazione sul cyborg non più relegata all’invenzione fantascientifica, ma impiegata come vera e propria metafora per superare i dualismi e le dicotomie dell’identità (umano/macchina, maschio/femmina, naturale/artificiale ecc.). Se, riprendendo Sivelli, l’ermafrodito si presentava ancora come «accumulo di due sessualità» non in grado tuttavia di produrre alcuna sintesi armonica, il cyborg rappresenta un organismo cibernetico totalmente asessuato, e per questo ontologicamente al di fuori di qualsiasi griglia categoriale prestabilita. Per Haraway,

«il cyborg è una creatura di un mondo post-genere: non ha niente da spartire con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre seduzioni di interezza organica ottenute investendo un’unità suprema di tutti i poteri delle parti. Il cyborg non ha nemmeno una storia delle origini […], salta il gradino dell’unità originaria, dell’identificazione con la natura in senso occidentale».

Proprio la tradizione occidentale, espressa nel modello patriarcale bianco capitalista, ha generato persistenti dualismi che hanno prodotto vere e proprie pratiche di dominio su ciò che è stato costruito culturalmente come altro (le donne, i neri, la natura, i lavoratori, gli animali ecc.). A tali meccanismi di dominio ed esclusione della logica dualistico-oppositiva, il cyborg contrappone la pluralità delle parti, trasgredendo non solo il confine tra uomo e donna (per cui Haraway arriva a parlare di un «genere cyborg»), ma persino quello tra umano e animale. Pertanto, sempre Haraway:

«Lungi dal segnalare una drastica separazione delle persone dalle altre creature viventi, il cyborg indica, in modo inquietante e piacevole, un saldo accoppiamento. In questo ciclo di scambio matrimoniale, la bestialità ha un nuovo status».

La condizione post-identitaria – accentuata rispetto all’ermafrodito – che contraddistingue il cyborg ci spinge dunque a interrogarci su che cosa ci qualifichi come “esseri umani”, indicandoci tra l’altro, come sostiene Haraway in chiusura, «una via di uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti. [Ciò] significa costruire e distruggere allo stesso tempo macchine, identità, categorie, relazioni, storie spaziali. Anche se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg che dea».

Lee Bul, Cyborgs (Red and Blue), photo by Watanabe Osamu, courtesy Mori Art Museum.

 

Iconografia cyborg

I personaggi cyborg costituiscono una presenza notevole all’interno dell’arte contemporanea (per non parlare della letteratura). Gli esempi a seguire non esauriscono dunque la ricca iconografia cyborg, ma possono essere utili ad abbozzare, almeno in parte, il motivo alla luce delle riflessioni espresse da Haraway nel suo manifesto.

Protagonista del Padiglione Corea della Biennale di Venezia del 2011 è l’artista sudcoreano Lee Yong Baek, che espone, tra le altre, una scultura realizzata nel 2008 e intitolata Pietà: Self Death. L’opera riproduce il tradizionale motivo cristiano della pietà, tuttavia con la variante di avere per protagonisti due cyborg, di cui uno è il calco a partire da cui è stato realizzato il secondo. Il tema biblico è affrontato attraverso la costruzione di un immaginario ibrido e post-gender, in cui nulla è rimasto del pathos tragico della scena, se non la mera disposizione delle due figure. “Maria” non ha alcuna caratteristica che la inquadri nel ruolo di “donna” o “madre”. Presentandosi come il negativo dell’altro, il personaggio ne annulla di fatto le relazioni biologiche, veicolando un principio di autoriproduzione e autosufficienza che oltrepassa il confine tra umano e non umano.

Tra le artiste sudcoreane più affermate della sua generazione, Lee Bul fonda la sua ricerca sui ruoli di genere nelle società maschiliste e i fallimenti delle utopie, attraverso performance, sculture e installazioni. Ispirandosi agli anime giapponesi, alla mitologia classica e al manifesto di Haraway, nella sua serie di Cyborg (1997-2011) l’artista indaga il rapporto uomo-macchina mettendo in luce la peculiarità di quest’ultima di trascendere i limiti del corpo umano. Superando le nozioni di stato, genere, razza e classe, i suoi corpi imperfetti e mutilati, realizzati in silicone, si presentano – come suggerisce C. A. Xuan Mai Ardia su «Culture Trip» – come «an allegory of mankind’s search for the perfect body, as well as a commentary on the twisted perception of women’s role in society».

Stelarc, Handswriting, Maki Gallery, Tokyo, 1982, photo by Keisuke Oki, courtesy of Stelarc.

Attraverso la performance, l’artista australiano Stelarc si rifà alle teorie di Haraway per proporre una visione del corpo come entità non biologica, ibrida e, grazie alla tecnologia, interconnessa. Esplorando il concetto di “identità cyborg”, Stelarc utilizza il proprio corpo come luogo di sperimentazione attraverso l’impianto di protesi artificiali in grado di modificare, estendendolo e «ricolonizzandolo», il corpo umano: «Technologically continuing what Haraway began in A Cyborg Manifesto, Stelarc creates new openings in human subjectivity and actualizes Haraway’s poetic self that can be partial, fragmented, ironic, or contradictory. By enacting hybridity through performance art, Stelarc captures the cyborg that we have become yet have always been».99C. Hunt, Envisioning cyborg hybridity through performance art: a case study of Stelarc and his exploration of humanity in the digital age, «Senior Capstone Project», 400, 2015, pp. 73-74.

Johannes Paul Raether, Protekto.x.x. Absurd Alloy (5.5.5.4), 2016, photo by Hörður Sveinsson, courtesy of Cycle Music and Art Festival, Kópavogur, Iceland.

In ultimo, la ricerca del performer berlinese Johannes Paul Raether si fonda sulla messa in scena di 3 identità fittizie e genderfluid (definite anche come «Avataras», «AlterIdentities» o «SelfSisters»), concepite come veicoli in grado di rimettere in questione la centralità del legame tra arte e politica attraverso una serie di rituali, processioni, azioni e conferenze in pubblico. Transformella, Protektorama e Schwarmwesen sono i nomi delle 3 identità potenziali (o «identitecture») dotate ognuna di una specifica personalità e costruite secondo un immaginario hi-tech e cyborg. Possiamo incontrare una di queste (post-)identità al Fridericianum di Amsterdam, come partecipante a un simposio sull’inumano, accanto a Rosi Braidotti e François Laruelle; oppure, in un Apple Store di Berlino, trasformato in sede in cui compiere rituali scatenando una vera e propria isteria di massa; o, ancora, alla Künstlerhaus di Stoccarda, a parlare di eugenetica, transumanesimo, maternità surrogata ed emancipazione dal paradigma capitalista. Giocando con l’ambiguità di genere e i palesi riferimenti all’immaginario cyborg, i personaggi di Raether sfuggono alla tradizionale categorizzazione binaria, mettendo inoltre in discussione la politica della visibilità e le strategie di comunicazione impiegate dall’arte stessa.

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di Dario Alì
  • Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
Bibliography

H. Barbin, Una strana confessione, Einaudi, Torino 2007.
K. Biesenbach, Henry Darger, Prestel, New York 2009.
J. Butler, Questione di genere, Laterza, Bari 2013 [1999].
S. Ferrari, Herculine Barbin e l’ermafroditismo. Una critica foucaultiana all’identità di genere, academia.edu.
D. Haraway, Manifesto Cyborg, Feltrinelli, Milano 1995 [1984], vers. online.
C. Hunt, Envisioning cyborg hybridity through performance art: a case study of Stelarc and his exploration of humanity in the digital age, «Senior Capstone Project», 400, 2015.
J. Nechvatal, The Radical Ambiguity of Henry Darger, «Hyperallergic», 2 Oct. 2015.
S. Sivelli, L’androgino e il simbolo, «Itinera», 1, 2011.
C. A. Xuan Mai, The Art of Lee Bul: of Cyborgs, Monsters and Utopian Landscapes, «Culture Trip».