– Io voglio morire e farla finita una volta per tutte. Lei no? – mi ha chiesto.
– Non lo so.
– Che senso ha vivere se alla fine non si muore?
(Don DeLillo, Zero K)
Nell’autunno dello scorso anno è uscito in Italia, edito da Einaudi, Zero K, l’ultimo romanzo di Don DeLillo. In Zero K la penna di DeLillo affronta un tema filosofico antico, assoluto, e da sempre contemporaneo dell’uomo: quello della morte. La trama, in breve: Jeffrey Lockhart, protagonista e voce narrante del romanzo, si reca presso Convergence, un centro sperimentale nel deserto del Kazakistan, dove viene praticata la criogenesi, anche detta ibernazione post mortem. Qui lo attendono suo padre, Ross Lockhart, uomo di finanza e principale sponsor della clinica, e la sua compagna, Artis Martineau, più giovane, affetta da una malattia incurabile. Prima Artis, per via della malattia, e poi Ross, a distanza di due anni, saranno assistiti da Jeffrey nelle ultime ore della loro vita, quando cioè decideranno di sottoporsi volontariamente al trattamento criogenico.
Nello stesso mese dello scorso anno – ottobre 2016 – in Inghilterra l’Alta Corte di Londra ha autorizzato l’ibernazione di JS, una ragazza di quattordici anni malata di cancro. JS aveva espressamente chiesto di essere ibernata nella speranza di risvegliarsi in un futuro lontano e imprecisato, quando progresso scientifico e biomedico avrebbero consentito la sua guarigione. Fantasia letteraria e cronaca si intrecciano, confluiscono l’una nell’altra, con uno scarto temporale minimo, in quasi-tempo-reale, e concorrono ad aprire un dibattito complesso e irrisolto che prende forma nell’iperspazio storico a noi contemporaneo della ‘tecnoscienza’ (Haraway, 1997) e che riguarda l’assoluto indecifrabile: la morte e, in maniera speculare, la vita.
In realtà, il tema del superamento della morte – e dunque del limite biologico – per mezzo della tecnologia è ricorrente e da sempre legato alla tradizione fantascientifica. In Ubik, per esempio, scritto da Philip K. Dick nel 1966 e pubblicato nel ’69, Glen Runciter fa spesso visita alla moglie defunta, tenuta in uno stato di semi-vita all’interno di una capsula crionica. Curiosamente, il primo caso biomedico di ibernazione umana risale proprio a quegli anni e, precisamente, al 1967.11James Bredford, professore di psicologia presso l’Università della California, fu sottoposto al trattamento criogenico il 12 gennaio 1967. Il suo corpo è attualmente conservato presso la Alcor Life Extension Foundation, che ha sede a Scottsdale, in Arizona.
Di nuovo notiamo come lo scarto tra tecnologia letteraria e materiale sia spesso molto sottile: reale e irreale si producono mutualmente.
Zero K differisce dalla fantascienza classica, che ha esplorato l’alterità in termini spazio-temporali sulla base del parallelismo con modelli utopici o distopici distanti e dualisticamente distinti dal mondo materiale di cui sono una proiezione. In Zero K non si ha neppure la sensazione di esperire, in un’estasi allucinatoria, mondi costruiti sul principio di simulazione, come accade per esempio nei romanzi di Dick e Ballard in cui – citando Baudrillard (2010, p. 14) – «non c’è più finzione né realtà, l’iperrealtà le abolisce entrambe». Nel romanzo di DeLillo la distopia post-industriale profetizzata dalla letteratura Cyberpunk degli anni ottanta e novanta si è già irrimediabilmente concretata nel mondo occidentale e occidentalizzato contemporaneo – globalmente interconnesso e tecnologicamente mediato (Braidotti, 2013) – il cui funzionamento e mutamento sono assoggettati agli imperativi del neurocapitalismo transnazionale (cf. Griziotti, 2016). La catastrofe non è più incombente, situata sul piano del virtuale: è già in essere e si materializza sotto forma di disastri naturali, guerriglie cruente in zone periferiche e semidesertiche del mondo, massacri di popolazioni civili per mano di aeromobili controllati da remoto, esodo di massa, cyber-attacchi post Guerra Fredda, pratiche di sorveglianza neuro-pervasiva, terrorismo urbano.
Un simile immaginario è spesso riproposto negli schermi che di tanto in tanto vengono fatti calare dall’alto nei corridoi asettici di Convergence. Su uno di questi schermi Jeffrey, il protagonista del romanzo, osserva catturato le immagini a grandezza naturale che ritraggono l’uccisione di un giovane soldato durante i conflitti in Ucraina.22Iniziati nell’aprile 2014 nell’Ucraina orientale.
In pratica, Zero K ha lo stesso peso specifico e lo stesso coefficiente di realtà delle nostre società contemporanee, di cui riflette il carattere mutevole, complessivamente frammentario, tecno-mediato e spettacolarmente necrotico.
In uno scenario geopolitico di profonda trasformazione antropologica, in cui la sovranità si esercita in termini di controllo della mortalità (Mbembe, 2003) e la catastrofe costituisce l’orizzonte fisso dell’esistenza (Agamben, 2005), la morte rappresenta, per l’uomo-individuo e per l’umana specie, l’ultima chimera da sconfiggere. Ed è all’interno di queste coordinate geopolitiche che l’uomo cerca rassicurazione alle paure più intime in nuovi miti quali la tecnologia o il populismo nell’epoca corrente della post-verità.33Mentre organizzavo la stesura di questo breve saggio, mi sono imbattuto in un articolo di Cathy O’Neill, pubblicato su Bloomberg il 6 febbrario 2017, dal bizzarro titolo Donald Trump Is the Singularity.
All’interno di Zero K, nei dialoghi tra Jeffrey e Ross Lockhart, rispettivamente figlio e padre, si profilano due modi in antitesi di intendere la morte. La visione di Jeffrey è intimamente materialistica ed è rifiutata qualsiasi forma di trascendentalismo o scarto metafisico. La morte si manifesta nella materialità della carne inanime, accade e si racchiude nelle coordinate spazio-temporali del qui e ora:
«Quando mia madre è morta, in casa, io ero seduto accanto al letto e sulla soglia della camera c’era una sua amica, una donna col bastone. È così che racchiuderei quel momento, lo restringerei, ora e per sempre, alla donna nel letto, alla donna sulla soglia, al letto, al bastone di metallo».44D. DeLillo, Zero K, Einaudi, Torino 2016, p. 11.
Ross Lockhart, invece, nel tentativo di spiegare l’impianto metafisico di Convergence, si fa portavoce di una forma di tecno-trascendentalismo fideisticamente secolarizzato, manageriale e antropocentrico, che vuole ‘possedere la fine’ attraverso il superamento dei limiti biologici del corpo. La tecnologia assurge a mito e si sostituisce alla religione. La speranza che, a seguito del trattamento criogenico, si potrà un giorno tornare a vivere rappresenta un atto di fede assoluto (nel progresso scientifico):
– Tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune nostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo, è vero, mantiene le promesse.55DeLillo, ivi, p. 10.
– La vita dopo la morte.
– In ultima istanza, sì.
– Convergence.
– Sì.
Ross e Artis intraprendono un vero e proprio pellegrinaggio laico verso Convergence, dove sperano di trovare «una forma più alta di esistenza, o quantomeno un complesso di procedure scientifiche in grado di impedire la decomposizione dei loro tessuti». La tecnologia offre dunque vie di fuga dalla finitudine dell’esistenza o, per lo meno, della carne. Queste vie di fuga verso Westworld66Il riferimento è al film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton. Nel film è possibile far visita a mondi minuziosamente ricreati e appartenenti a epoche passate, pagando la somma di mille dollari al giorno.
futuri sono tuttavia percorribili soltanto da una ristretta cerchia di persone facoltose. Il prezzo dell’immortalità è estremante alto:
«Non era forse questo che stavate aspettando? Un modo per reclamare il mito. La vita eterna appartiene a coloro che sono straordinariamente ricchi».77Al momento esistono soltanto tre centri in cui è praticata la crioconservazione umana, di cui due si trovano negli Stati Uniti e uno in Russia. Negli Stati Uniti, per esempio, il costo per ibernare l’intero corpo si aggira, in media, sui 180mila dollari. È tuttavia possibile richiedere l’ibernazione della sola testa al costo di 80mila dollari. DeLillo, ivi, p. 66.
Le due visioni, nettamente contrapposte, di Jeffrey e Ross Lockhart nell’approcciare l’idea della morte e nell’assegnare un significato alla vita sembrano riflettere le profonde divergenze che intercorrono tra Postumanesimo – e, nello specifico, il Postumanesimo critico teorizzato da Rosi Braidotti (2013) – e Transumanesimo.88Si tratta di una mia personale interpretazione. Nel libro di DeLillo non sono mai utilizzate le parole ‘postumano/postumanesimo’ o ‘transumano/transumanesimo’.
Per evitare fraintendimenti terminologici, è bene specificare che esistono diverse correnti di Postumanesimo. Braidotti ne individua due tipologie, da cui prende le distanze proponendo la sua teoria critica. Al primo tipo corrisponde il Postumanesimo ‘negativo’ o ‘reattivo’, che rievoca i valori universali dell’Umanesimo nella convinzione che globalizzazione e libero mercato abbiano rinnovato un senso di interconnessione planetaria. Al secondo tipo corrisponde invece il Postumanesimo ‘analitico’, che ingaggia il dibattito sulla condizione postumana da una prospettiva principalmente tecnico-scientifica, ignorando le implicazioni epistemologiche e politiche.
A scopo di disambiguazione va inoltre sottolineato che il termine ‘postumano’ è stato inizialmente utilizzato dagli stessi fautori del Transumanesimo (cf. Moravec, 1988) per descrivere la nuova specie post-biologica potenzialmente risultante dalla graduale e sempre più pervasiva ibridazione tra organico e inorganico, tra corpo e nanotecnologia. Secondo i transumanisti, l’associazione simbiotica, a livello sia organico sia (neuro)cellulare tra uomo e tecnologia garantirebbe, infatti, la transizione (da qui il termine ‘trans-umanesimo’) verso una nuova specie isomorfa e che si definisce – appunto – postumana. La condizione postumana, da questa prospettiva, consentirebbe all’uomo di aumentare le proprie capacità mentali e fisiche e di superare il deperimento biologico fino al raggiungimento dello scopo ultimo: l’immortalità (Caronia, 2008).
Il movimento transumanista affonda dichiaratamente le proprie radici nella tradizione umanista, di cui rappresenta un’estensione99Come esplicitato nella sezione FAQ nel sito del movimento estropico italiano. Al momento esistono due associazioni internazionali transumaniste: l’Extropy Institute e la World Transhumanist Association.
e con cui condivide una visione antropocentrata e teleologica di progresso lineare guidato dall’uomo. All’interno di questo schema, di cui l’Uomo Vitruviano (maschio, bianco, europeo, normodotato) rappresenta il corrispondente iconografico, all’uomo – misura di tutte le cose – è attribuita una posizione di centralità e dominio sul mondo. Si tratta di un sistema dicotomicamente strutturato, all’interno del quale il soggetto – unitario, razionale e perfettibile – si definisce per riflesso dualistico e scarto gerarchico rispetto agli altri non-umani naturalizzati (piante, animali, ambiente, materia in generale) o de-umanizzati (in funzione delle variabili di genere, orientamento sessuale, razza, classe). Il Transumanesimo, pur restando ben ancorato a questo paradigma, si emancipa dall’Umanesimo esasperando esponenzialmente il carattere virtuale e perfettibile dell’uomo, «ossia l’idea di totale mancanza di limiti, ovvero la possibilità di qualsiasi declinazione» (Marchesini, 2009, p. 8). Nella prospettiva transumanista, il limite è quello biologico, la tecnologia lo strumento per superarlo e la condizione postumana la declinazione ultima auspicabile. In altre parole, il Transumanesimo prefigura la graduale transizione – per catalisi tecnologica – da Uomo Vitruviano a Uomo Post-Vitruviano biotecnologicamente potenziato. Questo pattern progressivo troverebbe esatto compimento nello scatto evolutivo definitivo da Uomo Post-Vitruviano a Post-Uomo, sancendo la piena affermazione della deriva postumana. Il Post-Uomo sarebbe dunque un uomo potenziato e ibridato al punto tale da uscire dall’alveo della specie (Caronia, 2008). In tutte le sue possibili declinazioni (Vitruviano, Post Vitruviano, Post-) l’uomo resta comunque saldamente al centro del mondo, protagonista assoluto di una macro-narrazione di emancipazione universale.
È qui che si palesa la prima profonda crepa tra Transumanesimo e Postumanesimo critico. Quest’ultimo, infatti, è essenzialmente anti-umanista e porta a compimento l’opera di decostruzione del soggetto-unitario-universale-razionale-bianco-maschio-eterosessuale avviata da Foucault e a cui hanno contributo gli studi postcoloniali e i vari movimenti femministi, accogliendo, rispettivamente, le istanze di divenire-soggetto di neri, per esempio, e donne. In risposta al narcisismo (tecno-)teleologico (trans)umanista, Braidotti propone una filosofia nomade post-antropocentrica e materialistica che prospetta il passaggio da una soggettività unitaria a una soggettività nomade, rizomatica, internamente differenziata e multi-locata. Il Postumanesimo critico, in pratica, offre una cornice di pensiero radicalmente nuova, ridisegnata attraverso un duplice sforzo egualitario. Da un lato, infatti, vengono eliminate le differenze gerarchiche interne alla stessa categoria di uomo; dall’altro, viene appianato il primato ontologico dell’uomo attraverso un’operazione di decentramento che, sulla base dei principii di autopoiesi (Maturana, 1980; Guattari, 1995) e auto-determinazione, estende lo status di soggetto all’altro non-umano (piante, animali, materia in generale) e tecnologico. Ciò che accomuna Postumanesimo critico e Transumanesimo è certamente l’attitudine tecnofila e una certa affinità di interesse nell’indagare il mutamento socio-antropologico che sta avvenendo in maniera sempre più accelerata per via dei recenti sviluppi tecnologici. Al netto di queste analogie, mentre il Transumanesimo prevede una visione strumentale della tecnologia e resta saldamente legato al paradigma umanista finalistico e antropocentrato, il Postumanesimo critico rifiuta qualsiasi pretesa di progetto universalistico e tecno-emancipativo,1010Da questo punto di vista, il Postumanesimo critico prende le distanze anche dal Marxismo per il suo carattere antropocentrico e per la sua concezione finalistica della storia che tenderebbe, in ultima istanza, alla creazione di una società ugualitaria.
sia esso guidato dall’uomo o dalla sua progenie post-biologica e postumana. Nella cornice postumanista teorizzata da Braidotti (2013; cfr. Marchesini, 2009) la tecnologia cessa di essere intesa come mero mediatore o potenziatore, a livello sia protesico/ergonomico sia infiltrativo, dell’attività umana. Il Postumanesimo critico, infatti, prefigura l’esistenza di un eco-sistema dialogico, paritario e che è, nel suo complesso, in costante divenire. Questo sistema relazionale è fondato sulla trasversale e mutale interdipendenza tra uomo-ambiente-tecnologia. Braidotti, in altre parole, eredita da Spinoza una visione monistica dell’universo che si traduce in un’ontologia materialistica e vitalista: la distinzione binaria tra umano e non-umano, tra organico e inorganico, viene eliminata sulla base del principio secondo il quale la materia è unica, in sé intelligente e capace di auto-organizzazione.
Postumanesimo critico e Transumanesimo differiscono anche per quanto riguarda pratiche e discorsi che hanno a oggetto il corpo umano. Nella prospettiva critica postumanista e femminista di Braidotti, la materialità del corpo acquisisce vitale importanza, definendo i confini material-semiotici su cui avvengono i processi di soggettivazione (politica) e appropriazione identitaria dei sessualizzati e razzializzati altri (es. donne, neri, gay, queer). Corpo e mente, inoltre, sono intesi come due entità inseparabili, essendo il corpo «la matrice concreta, originale e originaria delle funzioni mentali», e considerando il legame indissolubile tra funzioni somatiche e «sviluppo del simbolo e della rappresentazione» (Margherita, 2015, 146).
Il Transumanesimo sembra invece portare all’estremo quel modo di intendere il corpo che Braidotti, criticando il bio-potere transnazionale e biogenetico, ha definito utilizzando l’espressione «organi senza corpo». Il corpo transumano è de-sessualizzato, degradato ad amorfa materia vivente, somma di parti organiche scomponibili/sostituibili che si possono eventualmente innestare su supporti tecnologici. Alla frammentazione della forma consegue quella della temporalità specifica del corpo, di cui la criogenesi rappresenta l’esempio ovvio. Sulla scia del dualismo cartesiano, il corpo è ridotto a supporto fisico – e sostituibile – dei processi mentali. Questi ultimi, a loro volta, sono intesi come mera capacità di calcolo e immagazzinamento dati. L’intelligenza umana è dunque ridisegnata tramite mappatura algoritmica, puro codice trasferibile dal suo supporto fisico – il cervello – alle macchine artificiali. Se – e solo se – intesa in tali termini (riduzionistici), l’intelligenza umana potrebbe allora davvero essere presto superata da quelle artificiali, come ipotizzato da Kurzweil con la sua teoria della Singolarità. Per quanto riguarda la morte, la posizione transumanista è esplicitata chiaramente sul sito italiano del movimento estropico:
«La ricerca dell’immortalità è una delle caratteristiche umane più antiche e profondamente radicate […] presente in tutte le religioni nella forma di immortalità dell’anima e (della) speranza nella vita eterna. […] Ma immagina per un momento che fosse possibile offrire a una persona anziana in questa situazione l’alternativa di un ripristino delle proprie facoltà mentali e fisiche, il vigore della gioventù mantenendo la saggezza degli anni… Aggiungi la possibilità di riportare in vita amici e parenti morti da tempo. […] La morte dovrebbe essere una scelta volontaria. In altre parole, chiunque dovrebbe avere il diritto di estendere la durata della propria vita se così desidera, o di organizzare la propria sospensione crionica».
Questo discorso fa eco alle parole messianiche proferite, in Zero K, dai fratelli Stenmark, fondatori e portavoce del ‘nucleo filosofico’ di Convergence:
– Quando verrà il momento, noi finalmente abbandoneremo la sicurezza delle nostre dimore del Nord e partiremo alla volta di questo deserto. Vecchi e fragili, zoppicando e con passo strascicato, verso la resa dei conti finale.
– Cosa troveremo qui? Una promessa che gode di maggiori garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni organizzate di questo mondo.
– Ci serve davvero una promessa? Perché non morire e basta? Perché siamo umani e abbiamo bisogno di aggrapparci a qualcosa. In questo caso non alla tradizione religiosa, ma alla scienza del presente e del futuro.1111DeLillo, ivi, pp. 64-65.
I fratelli Stenmark condividono con i transumanisti la convinzione che la scienza possa fornire gli strumenti attraverso i quali l’uomo potrà gradualmente redimersi dalla finitudine biologica, fino a ottenere l’immortalità terrena. La morte, in pratica, è intesa come orizzonte teleologico dell’esistenza, ossia come limite ultimo da oltrepassare per accedere a una dimensione futura che è immaginativamente concepita come più alta, autentica e caratterizzata da una più profonda ‘intensità lirica’. In altre parole, il desiderio di piena affermazione del soggetto viene spostato dalla sfera del contingente – del qui e ora – alla sfera del trascendente. Poco prima di sottoporsi al trattamento criogenico, Artis ingaggia un monologo allucinato che sembra un vero e proprio inno alla vita eterna, confessando a Jeffrey Lockhart le sue intime speranze:
«Sono straconvinta che mi risveglierò con una nuova percezione del mondo. […] In un tempo non necessariamente così lontano. Ed è a questo che penso quando cerco di immaginare il futuro. Rinascerò in una realtà più profonda e più vera. Linee di luce brillante, la pienezza di tutte le cose materiali, un oggetto sacro».1212DeLillo, ivi, p. 42.
Nella prospettiva postumanista di Braidotti la morte è invece concepita come evento che è virtualmente sempre già accaduto, e dalla cui consapevolezza scaturisce, per l’individuo, il desiderio di vivere ancor più intensamente quella porzione di tempo da lui ‘inabitata’ come soggetto-incarnato. A livello individuale, dunque, la morte cessa di essere concepita come orizzonte ultimo dell’esistenza da oltrepassare per raggiungere la dimensione qualitativamente più alta del trascendente. Al contrario, la morte viene intesa come origine prima del desiderio di esprimere pienamente se stessi – in quanto soggetti in divenire – nell’immanenza radicale del qui e adesso.
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Fabio Iapaolo è dottorando in Urban and Regional Development al Politecnico di Torino e visiting member del gruppo di ricerca Artificial Intelligence and Mediatheory (KIM), HfG-Karlsruhe. Il suo lavoro verte sulle implicazioni spaziali e culturali dell'Intelligenza Artificiale. È cofondatore del collettivo artistico multimediale Realia.
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KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.