Nell’aprile del 1982, nella città di Mazara del Vallo in Sicilia, prende forma la seconda edizione degli “Incontri fra i Popoli del Mediterraneo”,11La manifestazione prese forma tra il 1979 e il 1986 e fu organizzata in stretta collaborazione con il Comune di Mazara del Vallo.
un’iniziativa promossa dal poeta Rolando Certa, membro dell’Antigruppo siciliano22L’Antigruppo siciliano fu un movimento poetico nato nel 1968 e attivo fino agli anni Ottanta in Sicilia. Il fulcro tematico del movimento ruotava attorno all’idea della poesia come azione rivoluzionaria e al desiderio degli aderenti al gruppo di coinvolgere la popolazione attraverso un uso sistematico della piazza. Questo gruppo di poeti propose estetiche, politiche e comportamenti alternativi, in linea con le neoavanguardie letterarie contemporanee. I poeti, infatti, lottarono per raggiungere obiettivi comuni: un’editoria alternativa a quella capitalistica, battendosi per una società nuova, libera dal privilegio di classe e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
e fondatore del Centro per la cooperazione fra i popoli del Mediterraneo. Il tema dell’appuntamento di quell’anno fu “Poeti per la pace. Conosciamoci perché il Mediterraneo diventi un mare di pace e di cooperazione”; si trattava del tentativo di raccogliere e condividere le prospettive poetiche eterogenee di una terra d’acqua condivisa. Riunire 18 delegazioni di poeti del Mediterraneo costituiva un gesto di speranza, di conforto e di ricchezza per tutti coloro che si sentivano parte di un tutto, oltre a un segno invitante e provocatorio ad andare contro i facili ripiegamenti e il quieto vivere di molteplici piccoli mondi. Gli incontri erano articolati in modo da costruire, attraverso i vari momenti, un itinerario di ricerca caratterizzato da un ascolto dialettico di ogni diversa cultura in vista di una prospettiva capace di impegnare il Mediterraneo e di animare l’esperienza storico-culturale nella crisi che i partecipanti sentivano di star vivendo, disposti a collaborare per una società migliore fuori dagli arbitri di ideologie astratte e totalizzanti, fuori dai progetti di stampo capitalistico e imperialista, che sentivano ormai in declino e fallimento. Sapevano che una nuova cultura della solidarietà, del dialogo e della pace richiedeva una nuova visione dell’uomo.
Nell’anno della seconda edizione della manifestazione era in corso l’eterna guerra israelo-arabo-palestinese. Considerato l’interesse a supportare le culture minoritarie e i popoli vessati dai poteri forti, in quell’edizione fu espresso un grande sostegno verso il popolo palestinese, tanto che Rolando Certa dedicò la poesia intitolata Un popolo è un popolo ai fratelli palestinesi. Inoltre, gli organizzatori e i convegnisti provarono a far incontrare, coinvolgendo anche le rispettive ambasciate in Italia, un poeta/scrittore palestinese e uno israeliano. Il tentativo fallì e non certo per volontà dei convegnisti. Tra i partecipanti, prese parte all’evento l’intellettuale e attivista palestinese Wasim Damash, che durante il suo intervento lanciò le sue motivate provocazioni sollecitando non tanto delle risposte, ma più che altro dei gesti o azioni che potessero fin da subito limare una condizione di ingiustizia subita e dare forma alla propulsività del fare poetico in qualità di manifesto per la collaborazione e la convivenza.
Ma perché gli Incontri fra i popoli del Mediterraneo tornano a essere urgentemente attuali? Perché quarantadue anni dopo, in un’Europa “democratica”, la poesia di Certa e il discorso tenuto da Damash sono qualcosa da temere o di cui vergognarsi, parole da silenziare.
Così è accaduto questa estate quando l’Archivio Conz di Berlino ci ha imposto l’esclusione della poesia Un Popolo è un Popolo, facendo naufragare l’evento dedicato all’Antigruppo siciliano, parte delle collaborazioni strette a supporto del bando Italian Council di cui siamo risultate vincitrici. La decisione dell’istituzione si allinea con la politica di censura e intimidazione verso chi non si conforma alle politiche di terrore di Israele. Questa politica è perpetuata principalmente dal governo tedesco, ma anche dall’Europa e dall’Occidente in generale.
Abbiamo deciso di intervistare Wasim Damash, non solo come testimone delle attività sviluppate da Rolando Certa e dall’Antigruppo siciliano, ma soprattutto per valorizzare la considerazione che c’era all’epoca della letteratura e della poesia come strumenti per il ricongiungimento delle parti sociali, sperando di poter attualizzare questa prospettiva e renderla fondamentale ancora oggi.
Damash non ha mai interrotto la sua militanza; infatti, dal 1999, dirige la casa editrice Edizioni Q, l’unica casa editrice in una lingua diversa dall’arabo interamente dedicata alla Palestina. Inoltre, si dedica al volontariato con Gazzella, fornendo assistenza, cure e riabilitazione ai bambini palestinesi feriti da armi da guerra e ai bambini con disabilità che vivono nella Striscia di Gaza.
WASIM DAHMASH (Damasco, 1948) è stato docente di Lingua e Letteratura araba presso il Dipartimento di Linguistica e Stilistica dell’Università degli Studi di Cagliari. Tra il 1980 e il 2006 ha insegnato Dialettologia araba all’Università di Roma La Sapienza. I suoi ambiti di ricerca si concentrano principalmente sulle questioni attinenti la traduzione letteraria, la dialettologia araba e le letterature migranti, in particolare degli scrittori e poeti arabi e palestinesi. Tra le ultime pubblicazioni: La terra più amata. Voci delle letteratura palestinese (Roma, Il Manifesto Libri, 2024); Esausti in croce (Torino, Hopefullmonster, 2024); Specchi degli angeli (Roma, Edizioni Q, 2019); Alfabeto Arabo-Persiano. Quando le parole raccontano un mondo (Milano, EGEA, 2018).
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Come ha conosciuto l’Antigruppo siciliano e com’è nata l’occasione di questo invito al II Incontro fra i Popoli del Mediterraneo? Ci potrebbe descrivere il contesto del convegno? Quali sono state le sue impressioni nell’incontrare 18 diverse delegazioni di poeti riunite?
Wasim Dahmash: Credo di avere ancora il libro. Il convegno me lo ricordo bene, anche se sono passati più di 40 anni. Non ricordo molto le persone, però ovviamente Rolando Certa sì, lo conoscevo già da prima. Ricordo anche Antonino Contiliano, che credo di aver conosciuto in quell’occasione, e una poetessa egiziana, Ola Mustafa Rahman; con lei ci fu una breve corrispondenza successivamente. Era lì con il padre, il poeta Mustafa Abdel Rahman. Lei mi sembrava più vivace, come spesso sono le ragazze rispetto agli uomini. È stato un bellissimo incontro, c’erano molte persone, anche se non tutte appaiono negli atti del convegno. Ricordo anche il poeta algerino Mokhtar Sakri, con il quale ho avuto vari incontri successivi; ci siamo visti diverse volte a Roma e altrove. Il clima era molto amichevole, anzi, direi fraterno, soprattutto grazie a Rolando Certa, che era bravissimo a tessere relazioni. L’ho conosciuto un paio di anni prima, e lui mi aveva parlato del convegno. Io sono stato invitato al secondo incontro, non al primo, ma non ricordo il motivo.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Forse perché il primo convegno fu interamente dedicato ai poeti e alla letteratura greca.
Wasim Dahmash: Sì, esatto, io fui invitato al secondo. È stata una cosa bellissima. Non conoscevo Mazara del Vallo, è un posto incredibile e meraviglioso. Non conoscevo bene la parte occidentale della Sicilia. Ho incontrato persone molto interessanti con cui ho mantenuto rapporti per diversi anni, come Mokhtar Sakri. Con lui ci siamo frequentati per più di dieci anni; ho visto crescere i suoi figli. Con Antonino Contiliano ci siamo visti diverse volte, soprattutto a Roma, e ovviamente anche con Rolando. Il clima, l’atmosfera… Non capivo bene, e non so se capisco ancora, il modo in cui si scrivevano le poesie, perché era tutto molto variegato. Questo aspetto mi colpì subito. Le poesie erano scritte e recitate in varie lingue. C’era anche una poetessa turca, Sennur Sezer, e molti greci, un bel gruppo di greci… Quindi si sentivano molte lingue, e le poesie venivano tradotte in modo… come dire… estemporaneo, lì per lì. Era difficile cogliere pienamente il livello e il ritmo, ma in realtà questo contava poco. A me piacquero le poesie arabe, ma forse perché io conosco l’arabo ed era quindi naturale apprezzarle. Mi colpì anche una poesia di Rolando dedicata alla Palestina, così come un’altra dedicata ai fratelli tunisini, i fratelli di Mahdia. In quel momento non c’era ancora l’immigrazione dalla Tunisia, ma c’era una comunanza di lavoro tra i pescatori siciliani e quelli tunisini, uno scambio reciproco. Ricordo questa sua poesia, dedicata ai “fratelli”. Mi colpì che sia la poesia di Certa dedicata ai palestinesi, sia quella dedicata ai tunisini, richiamassero la parola “fratelli”, evocando una fratellanza. Rolando, introducendo il convegno, creava questa comunione, questa fratellanza. È stato molto bello. Nella mia vita ho partecipato a tantissimi incontri e convegni, senza esagerare, almeno un centinaio, ma questo mi colpì particolarmente.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Si ricorda come ha conosciuto Rolando Certa?
Wasim Dahmash: Io allora facevo parte della delegazione dell’O.L.P.33Si tratta di un’organizzazione politica palestinese, considerata dalla Lega araba a partire dal 1974 come la legittima rappresentante del popolo palestinese.
in Italia e lui frequentava e partecipava alle attività. L’ho conosciuto in quel contesto, che è un contesto politico.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Si ricorda del suo intervento La cultura nazionale palestinese? Si avverte dalle sue parole una certa criticità, sottolinea come alcune volte parlare di pace sia controproducente e non si traduca automaticamente nella risoluzione dei conflitti. Le leggiamo alcuni passi:
«È possibile trattare assieme opere di pensiero politico e altre di poesia? Oppure mettere assieme scritti culturali di carattere fondamentale e strategico con la storia e altri di carattere tattico come il giornalismo quotidiano? La vastità, la varietà che i diversi livelli rappresentano, sono un solo aspetto delle difficoltà che si incontrano per definire analiticamente il concetto di cultura nazionale. Altre difficoltà si incontrano cercando di dare una risposta a interrogativi attinenti alla questione culturale: qual è il rapporto tra la cultura e i vari aspetti dell’attività economica, sociale, politica ecc.? In altre parole, qual è il rapporto tra cultura e civilizzazione con tutti gli aspetti dell’attività umana, che comprende, dalla costruzione all’agricoltura, dall’industria alla programmazione, all’amministrazione ecc.?
Qual è il rapporto tra cultura e creatività culturale?
Qual è il rapporto tra cultura e alienazione culturale?
Qual è il rapporto tra la cultura ufficiale e quella popolare?
E, inoltre, di quale cultura si intende discutere?
Di cultura nazionale in senso geografico oppure in senso sociale?
In altre parole, vogliamo discutere di tutte le attività culturali, inclusa la cultura del potere e delle classi dominanti, oppure della cultura nazionale nel senso sociale, tutta protesa a dare libertà e giustizia al popolo palestinese? Vogliamo discutere di cultura palestinese specifica, oppure di cultura palestinese facente parte di una più vasta cultura araba? Trattandosi della cultura nazionale palestinese, alle altre difficoltà si aggiungono quelle scaturite dalle circostanze straordinarie e oggettive che il popolo palestinese e i suoi intellettuali vivono nella terra occupata e nell’esilio. Nella terra occupata nel 1948, esiste una realtà culturale distinta da quella esistente nella terra occupata nel 1967, mentre si registra un’altra realtà culturale palestinese nella diaspora varia anche nei diversi paesi ospitanti, arabi e non, paesi diversi sotto molti aspetti. Con questa introduzione, non ho voluto soltanto scusarmi, per le lacune di questa relazione, ma anche esporre i vari aspetti e la problematica del tema, e i limiti imposti dal dover esaminare settori precisi dell’attività culturale palestinese. Quindi questa relazione non pretende di abbracciare tutta la realtà culturale della Palestina, ma aspira a individuare i suoi elementi portanti che potrebbero aiutare a conoscere tendenze generali di percorso e il momento attuale».
Wasim Dahmash: Non mi ricordo assolutamente di aver detto queste cose, però vanno bene, le condivido ancora. Sulla questione della violenza penso che oggi sia un altro il problema. Nelle situazioni coloniali, come nel caso della Palestina, il grado di violenza è esercitato non necessariamente solo attraverso le armi, ma tramite una complessa macchina repressiva. Questa macchina è fatta di parole, di propaganda e del sistema educativo, dove i figli dei coloni imparano a diventare coloni e così via… È una macchina estremamente complessa. La violenza militare, chiamiamola così, viene esercitata quando questa macchina, quando il sistema coloniale entra in crisi. Queste crisi sono ricorrenti nella storia di tutti i colonialismi, come l’Algeria o il Sudafrica. A volte il grado di violenza esercitato dai colonizzati corrisponde e, a volte supera, la violenza esercitata dai colonizzatori; altrimenti i colonizzati sparirebbero. Forse mi sono espresso male…
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): No, si è espresso bene.
Wasim Dahmash: Nel caso del colonialismo di insediamento, le popolazioni che non hanno esercitato una forza simile, in termini di violenza, come per esempio le popolazioni del Nord America, sono sparite. Sono state cancellate, così come anche quelli che vengono chiamati aborigeni dell’Australia. Già il termine stesso indica quanta violenza sia stata esercitata dal colonizzatore, se perfino ne cancella i nomi, la memoria, la storia. Il caso palestinese è più complesso perché è un territorio carico di storia, anzi è probabilmente il pezzo di mondo con più storia. Laddove c’è molta storia, è chiaro che le interpretazioni sono numerose. Allora, che cosa tende a fare il colonizzatore, chiunque egli sia? Cerca di cancellare la storia dell’altro, altrimenti non può diventare lui stesso indigeno. È necessario cancellare l’indigeno, cancellarne le tracce e la storia. Nel caso palestinese, ciò è molto difficile. Oggi parlerei di violenza nel senso inteso da Frantz Fanon, per cui la violenza del colonizzato è una risposta alla violenza del colonizzatore.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Si tratta di effetti non di cause. A tal proposito, citiamo qui una riflessione di Fanon tratta da I dannati della terra:
«La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa.
È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce.La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù. È una città di sporchi negri, di luridi arabi. Lo sguardo che il colonizzato getta sulla città del colono è uno sguardo di lussuria, uno sguardo di bramosia. Sogni di possesso. Tutte le forme del possesso: sedersi alla tavola del colono, dormire nel letto del colono, possibilmente assieme a sua moglie. Il colonizzato è un invidioso, il colono non lo ignora quando, cogliendone lo sguardo alla deriva, constata amaramente ma sempre all’erta: “Vogliono prendere il nostro posto”. È vero, non c’è colonizzato che non sogni almeno una volta al giorno di impiantarsi al posto del colono. […]
Per il colonizzato, questa violenza rappresenta la prassi assoluta. […] Il gruppo esige che ogni individuo realizzi un atto irreversibile. […] La violenza assunta permette al tempo stesso ai traviati e ai proscritti del gruppo di tornare, di ritrovare il loro posto, di reintegrarsi. La violenza è intesa così come la mediazione principe. L’uomo colonizzato si libera nella e per la violenza».44F. Fanon, I dannati della terra, trad. it. di Carlo Cignetti, Einaudi, Torino, 1962 [1961], pp. 6-7, 46-47.
Un’altra riflessione che negli ultimi anni ci torna spesso in mente è come l’Europa e l’Occidente in generale abbiano sempre due pesi e due misure nel giudicare, condannare o apprezzare Stati e politici. Ci riferiamo, in questo caso, alla condanna quasi generale rivolta a Putin e alla guerra in Ucraina, in contrasto con il sostegno o il silenzio verso la politica di Netanyahu e del governo di Israele. Com’è possibile non vedere la contraddizione nell’esibire, contemporaneamente, come forma di solidarietà e supporto, la bandiera israeliana e quella ucraina nelle ambasciate e nei consolati?
Wasim Dahmash: Sono due cose differenti, ma legate l’una all’altra. Putin, o chi per lui, non importa, può essere il nemico, ma è un nemico interno al sistema ideologico, al sistema di pensiero, mentre Netanyahu è un amico all’interno dello stesso sistema ideologico. Non so se è chiaro… non so come dirlo altrimenti. Il sistema ideologico è quel complesso di idee e percezioni che si ha di sé stessi. Oggi si tende a definirsi in base a concetti fondamentali, ma anche a storie fondamentali, certi episodi, certi libri, per dire. Ciò che si impara a scuola forma la personalità. L’Europa è nata in opposizione al mondo islamico, o meglio, in opposizione al mondo arabo, direttamente. La democrazia in Europa è nata insieme al colonialismo, per cui più all’interno si acquisivano diritti, più all’esterno si esercitava una maggiore violenza. O meglio: meno diritti hanno gli altri, più diritti ho io. Questo ha formato, anche se in minima parte, una componente del sistema ideologico. Netanyahu o Israele come realtà rappresentano l’ultima colonia dell’Europa, la difesa ultima del sistema ideologico, per cui anche grandi pensatori dicono: «Israele non si tocca, a prescindere». Non è una questione di Netanyahu, ma riguarda l’Europa.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Crede che questo atteggiamento sia anche influenzato da quanto accaduto alla comunità ebraica durante il nazismo?
Wasim Dahmash: No. La maggior parte delle persone lo pensa, ma io non vedo il nesso. È perché Israele è l’ultima colonia: se la nego, nego tutta la storia europea, o meglio, la metto in discussione.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Non pensa che l’Europa, anche attraverso gli studi postcoloniali, abbia cominciato a mettere in discussione tutto questo? Non crede che, in qualche modo, ci stia facendo i conti?
Wasim Dahmash: No, assolutamente. Di recente Macron è andato in Algeria in visita e, ancora una volta, ha insistito a non chiedere scusa a nome della Francia, per un milione e mezzo di morti ammazzati con una violenza incredibile. Non parliamo dell’Inghilterra: certi personaggi, grandi criminali della storia, non si possono toccare, come Winston Churchill, e così via. A Roma hanno piantato un albero palestinese portato dalla Palestina in ricordo di Sharon. A Parigi c’è una piazza dedicata a Ben Gurion. Sapete che cosa significa? Dedicata all’autore di uno dei più grandi genocidi della storia…
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Quindi sta dicendo che la questione palestinese non si può risolvere perché noi europei, occidentali, non vogliamo fare i conti con la nostra storia?
Wasim Dahmash: No, questo è solo uno degli elementi che spiega e che ci fa capire perché l’Europa si comporti in questo modo. Ma non è questo che impedisce la risoluzione del conflitto. Le questioni coloniali, soprattutto quelle di insediamento, si risolvono principalmente in due modi: o attraverso l’eliminazione degli indigeni, come già è successo in varie parti del mondo, oppure attraverso l’eliminazione e la sconfitta del sistema coloniale. Anche questo è accaduto in varie parti del mondo. In modalità diverse, ma le due soluzioni principali sono queste. Non c’entra che cosa fa o meno l’Europa. L’Europa, oggi, nella politica internazionale, non conta nulla, è solo un’appendice degli Stati Uniti.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Rispetto alla sua militanza, vuole raccontarci qualcosa della sua casa editrice? Qual è la sua prospettiva e che cosa sta cercando di diffondere attraverso i suoi libri?
Wasim Dahmash: La casa editrice è nata nel 1999, da un gruppo di ricercatori dell’Università di Roma. In quel periodo, si parlava molto di immigrazione: era cominciata l’immigrazione albanese ed era in atto una campagna xenofoba contro gli stranieri. Tra di noi si discuteva di come far capire che lo straniero sia una persona, con una propria cultura e una propria storia, e così è nata l’idea di creare una casa editrice che trasferisse al pubblico competenze e conoscenze di tipo universitario, ovviamente in maniera accessibile a un pubblico più ampio. Io, occupandomi di letteratura – all’epoca insegnavo dialettologia araba – pensavo che la cosa migliore, per quanto riguarda il mondo arabo-palestinese, fosse far conoscere alcune opere della letteratura palestinese. È nata così. In realtà, c’erano anche altre motivazioni. Posso raccontarvi alcune cose… Una mia traduzione di poeti marocchini, richiesta ma poi bloccata per 12 anni da una casa editrice, perché all’epoca facevo parte dell’O.L.P. Ci sono state altre situazioni in cui i libri venivano corretti dall’editore, con la scusa che io non fossi madrelingua… cose di questo genere che trovo ridicole. Anzi, a uno di questi editori che ha corretto un mio scritto ho mandato in omaggio un libro scritto dai due più grandi italianisti viventi dell’epoca, che erano inglesi… non italiani. Non so se abbia colto la mia provocazione. Purtroppo, successivamente ci siamo dispersi: io andai all’Università di Cagliari, un altro all’Università di Catania, e così via. Ma, siccome sono un palestinese testardo, ho continuato, trasformando questa casa editrice in una casa editrice palestinese. Pubblico quasi esclusivamente opere palestinesi: diciamo che, su 72 titoli pubblicati finora, almeno una cinquantina sono palestinesi.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Ci vuole suggerire qualche titolo pubblicato dalla sua casa editrice? Un consiglio di lettura?
Wasim Dahmash: L’ultimo libro pubblicato, che adesso deve in qualche modo essere lanciato, è il libro di Ibrahim Nasrallah, Onde di terra in Palestina. Fu scritto all’incirca nel 1987, ultimato solo dopo lo scoppio dell’Intifada. È interessante perché prevede che cosa sarebbe successo, e il titolo stesso suggerisce l’idea che questa storia non inizia e finisce, ma va a ondate, e così è stato.
Il penultimo libro, che invece ha avuto un discreto successo, è Il racconto di Suaad. Prigioniera palestinese. Si tratta del racconto di una mia amica che per tre volte si è trovata nelle carceri israeliane. La prima volta aveva 19 anni, la seconda 23 e l’ultima circa 30. Nel libro racconta del suo secondo periodo di prigionia. Parla della violenza, ma anche della solidarietà, dell’amore e di tutto quello che ha vissuto in quel periodo. Certo, il grado di violenza si capisce leggendo tra le righe. Non c’è una descrizione delle torture, ma di altro.
Infine, vi consiglio anche le opere di Mahmoud Darwish.
Simona Squadrito, Lisa Andreani (REPLICA): Si tratta dello stesso poeta invitato agli Incontri fra i Popoli del Mediterraneo?
Wasim Dahmash: Lui non venne all’incontro, ma fu letta una sua poesia, Un innamorato della Palestina. Ho cominciato a tradurre le sue poesie nel 1969, ma non lo conoscevo personalmente. Lo conobbi solo nel 1973.
Quando finirà il massacro? Esiste una coscienza civile che dica basta allo scempio?
Rolando Certa
UN POPOLO È UN POPOLO
Ai fratelli palestinesi
Ho sentito le vostre parole
che brulicavano di dolore.
Ho ascoltato dalla vostra voce
il pianto e l’angoscia delle madri
per i bambini uccisi e storpiati
e per tutte le sofferenze patite
dal vostro popolo martire.
Un popolo senza patria
chiede le sue case e i suoi campi
le sue culle e il suo cielo
i suoi giardini fioriti
il suo pane e la sua libertà.
Voi invece siete soltanto profughi
nei campi libanesi,
uccisi in Libano come a Roma,
solo e soltanto perché palestinesi.
È questa la giustizia degli uomini?
È questo il frutto di una secolare civiltà?
Ho sentito, ascoltando le vostre parole,
leggendo nel vostro sguardo,
ansioso e travagliato,
che voi siete le vittime di questa «civiltà» di assassini,
i fratelli derelitti
che non possono e non debbono perire.
Io mi vergogno che ancora
si uccidano donne, bambini, vecchi
e uomini innocenti
colpevoli di che cosa?
di essere palestinesi?
Quando finirà il massacro?
Esiste una coscienza civile
che dica basta allo scempio?
In questa situazione
non basta piangere sulla vostra tragedia.
Io maledico gli assassini.
Io dico che la vostra lotta è santa.
Si dice: un uomo è un uomo.
A maggior ragione oggi diciamo:
un popolo è un popolo
E non si condanna a morte
o all’esilio un popolo.
Solo i nazisti consumavano il genocidio.
E quelli che son venuti dopo?
Io vorrei che la pietà cristiana,
la pietà occidentale
mostrasse qui e ora il suo vero volto.
Inondasse questo mondo crudele.
svegliasse la bontà,
fosse un fiume di giustizia,
un mare di amore
mutasse questa notte interminabile
in un giorno solatio, luminoso e profondo.
Ché se questo non fosse possibile
dovremmo pensare amaramente
che sulla terra non c’è pace,
non c’è pace tra gli uomini
e che Caino sotto spoglie diverse
uccide, ancora e sempre.
Ed Erode strazia l’innocenza.
La vittoria sarà il giorno della pace.
La vendetta chiama altri morti.
Ma voi che negate la vita alla vita non sapete nemmeno stare al mondo…
in questo mondo dove c’è posto per tutti
dove ognuno ha il diritto di lavorare in pace
baciare sereno la sua sposa
e veder crescere e sorridere i figli.
Per questo io mando ai fratelli palestinesi
un saluto dall’antica Trinacria
un abbraccio fraterno e solidale.
Sapranno gli uomini giusti
porre fine ad una delle più grandi tragedie
della storia presente?
Io credo che la giustizia spesso tarda
ma viene il giorno che trionfa,
viene il giorno che si apre il baratro
della condanna per chi ha tradito
le leggi sacre della vita,
e il giorno anche del risarcimento
per chi ha sofferto e ha sempre perduto.
Il popolo palestinese avrà la sua patria
avrà le sue case e i suoi campi
e i suoi giardini
e lavorerà e canterà e amerà
come gli altri popoli del mondo.
Il popolo palestinese è nostro fratello,
il nostro fratello più infelice, oggi,
ma anche il più eroico,
quello che attende la sua più grande giustizia:
la sua patria e la sua libertà.
palestinese per il nome, palestinese per i sogni e le preoccupazioni
Mahmud Darwish
Palestina (O.L.P.)
UN INNAMORATO DELLA PALESTINA
I tuoi occhi sono una spina nel cuore.
Mi fanno soffrire… ma li adoro
e li proteggo dal vento.
Li riparo al di là della notte e delle sofferenze..
La loro ferita accende la luce delle lampade
e il loro domani rende il mio presente
più caro a me dell’anima mia.
Dimentico, in un attimo, nell’incontrarsi dei nostri occhi,
che una volta eravamo, dietro la porta, in due!
Le tue parole erano una melodia.
Cercavo di cantarla
ma la pena aveva chiuso il labbro primaverile.
Le tue parole erano come la rondine che volò via dalla mia casa,
abbandonò la porta della nostra dimora, e la soglia autunnale,
dietro di te… per andare dove volle il desiderio…
Si spezzarono le nostre immagini.
La tristezza si moltiplicò mille volte.
Raccogliemmo i frammenti della voce…
Non conoscevamo che l’elegia per la Patria!
Là pianteremo assieme in mezzo a una chitarra
e sopra i tetti della nostra disgrazia: là suoneremo
per lune deformi… e per pietre!
Ma ho dimenticato… Ho cercato, o voce sconosciuta:
Fu la tua partenza a far arrugginire la chitarra… o il mio silenzio?
Ti ho vista ieri al porto
che partivi senza parenti… senza provviste per il viaggio.
Corsi da te come corrono gli orfani…
Chiedo alla sapienza degli avi:
Come può la verde piantagione esser trascinata
in prigione, in esilio, in un porto
e rimanere malgrado il suo viaggio,
malgrado i venti salati e le passioni,
rimanere sempre verde?
Scrivo nel mio diario:
mi piacciono le arance… Il porto mi disgusta.
E aggiungo:
mi fermai al porto. La terra aveva l’aspetto dell’inverno.
Avevamo solo bucce d’arancia. Dietro di noi c’era il deserto!
Ti ho vista nei monti delle spine
pastorella senza gregge
cacciata via, e fra i ruderi…
Eri il mio giardino, mentre ora sono straniero nella mia stessa
casa!
Busso alla porta, o cuore mio!
Sul mio cuore… si elevano la porta, la finestra, il cemento e le
pietre!
Ti ho vista nelle giare d’acqua e nel frumento
stritolata. Ti ho vista nei caffè della notte che servivi,
ti ho vista nello spandersi delle lacrime e nella ferita…
Tu sei l’altro polmone nel mio petto…
Tu, tu sei la voce sulle mie labbra…
Sei l’acqua, il fuoco!
Ti ho vista all’ingresso della caverna, presso la grotta
mentre appendevi sul filo del bucato le vesti dei tuoi orfani.
Ti ho vista nei focolari, nelle strade,
nelle stalle, nel sangue del sole …
Ti ho vista nei canti degli orfani e dei miseri.
Ti ho vista piena di sale marino e di sabbia,
ed eri bella come la terra, come i fanciulli, come il gelsomino.
Giuro:
con le ciglia dell’occhio cucirò un velo
e sopra ricamerò una poesia dedicata ai tuoi occhi
e un nome che, quando abbevererò con esso un cuore dissolto
in una melodia,
si estenderà come le frasche della macchia…
Scriverò una frase più preziosa dei martiri e dei baci:
Sei palestinese… e lo rimarrai!
Ho aperto la porta e la finestra nella notte dell’uragano
Ho detto alla mia notte: scorri!
Al di là della notte e del muro
ho un patto con le parole e la luce.
Tu sei il mio giardino vergine
finché i nostri canti continuano
a esser spade quando le sguainiamo.
Tu sei fedele come il grano
finché i nostri canti continuano
a esser concime quando li seminiamo.
Sei salda nella mente come una palma
che non si spezzò per una tempesta e un taglialegna.
Non riuscirono a recidere le sue radici
le fiere dei deserti e delle selve…
Ma io sono esiliato dietro il muro e la porta.
Prendimi sotto il tuo sguardo,
prendimi, dovunque tu sia.
prendimi, comunque tu sia.
Mi sia restituito il colore del viso e il corpo,
la luce del cuore e degli occhi,
il sole del pane e la melodia,
il cibo della terra… e la Patria!
Prendimi sotto il tuo sguardo…
Prendimi qual tavola di mandorlo nella capanna delle afflizioni.
Prendimi qual segno del corso della mia tragedia.
Prendimi come un gioco… come una pietra della casa,
affinché la nostra futura generazione ricordi
il cammino che porta alla dimora!
Palestinese per gli occhi e il tatuaggio,
palestinese per il nome,
palestinese per i sogni e le preoccupazioni,
palestinese per il velo, i piedi e il corpo,
palestinese per le parole e il silenzio,
palestinese per la voce,
palestinese per la nascita e la morte.
Ti ho portata nei miei vecchi quaderni
qual fuoco delle mie poesie.
Ti ho portata come provvista nei miei viaggi.
Nel tuo nome ho gridato alle valli:
i cavalli dei bizantini… li conosco
anche se è cambiato il campo di battaglia!
State in guardia
dal fulmine che il mio canto ha scagliato sulle pietre!
Io sono l’ornamento della giovinezza, il cavaliere dei cavalieri!
Io sono lo sfracellatore degli idoli!
Ho seminato i confini della Siria
di poesie che mettono in libertà le aquile!
Nel tuo nome ho gridato ai nemici:
Mangiate la mia carne quando dormo, vermi?
Le uova delle formiche non generano aquile…
e l’uovo delle serpi,
il suo guscio nasconde il serpente!
I cavalli dei bizantini… Li conosco!
E so che prima di essi io,
io sono l’ornamento della giovinezza, il cavaliere dei cavalieri!
(Trad. it. dall’arabo di Giovanni Canova)
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Magazine & Editions
Magazine , AUTOCOSCIENZA – Parte II
Il margine che fa respirare lo sguardo: intervista a Chiara Bersani
Spunti di riflessione sul movimento e la cura dei corpi nelle arti performative.
Magazine , CAOS – Part I
Pratiche per una decolonizzazione museale
Selvaggi e feticci da collezione: le prime esposizioni coloniali, la mostra problematica “Magiciens de la terre” e la museologia di rottura del Musée d’Ethnographie de Neuchâtel.
Editions
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Forme di alterizzazione degli individui: quando l'othering si traduce in marginalizzazione ed esclusione sociale.
Editions
Printed edition
Assedio e mobilità come modi per stare al mondo: le prime ricerche di KABUL in edizione limitata.
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Digital Library & Projects
Digital Library
Imitazione di un Sogno
Esplorazioni filosofiche e sensoriali tra sogno e realtà.
Digital Library
Geopolitica e Arte Contemporanea: dalla rovina della rappresentazione al recupero del reale
Partendo dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta, Irmgard Emmelhainz propone un excursus sul ruolo dell'arte nella geopolitica e i rapporti tra la politica militante e l'arte contemporanea: dai movimenti antimperialisti a quelli antiglobalizzazione, alla messa in discussione del neoliberismo.
Projects
KABUL ft. Fruit Exhibition e Inside Porn
Un incontro online sulla rappresentazione dei corpi nell'editoria.
Projects
Abbandonare i fantasmi colonialisti sulla rotta della Carte du pays de Tendre
In occasione di LIVE WORKS_Performance Act Award Vol. 6 (Centrale Fies), proponiamo una bibliografia di approfondimento che accompagna le ricerche e le performance dei 12 artisti selezionati.
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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
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Lisa AndreaniCuratrice e storica dell'arte. Attualmente è PhD in Visual Arts presso l’Università IUAV di Venezia in collaborazione con Palazzo Grassi-Punta della Dogana. Nel 2023 si è occupata del coordinamento curatoriale e della produzione di Panorama L'Aquila, mostra diffusa organizzata da ITALICS, ed è stata co-curatrice di :After. Festival diffuso di Architettura in Sicilia. Dal 2020 al 2022 è stata coordinatrice curatoriale ed editoriale del MACRO (Roma). Nel 2019 è stata selezionata per il programma di ricerca Global Modernism Studies presso la Bauhaus Dessau Foundation (Dessau) in collaborazione con il Victoria & Albert Museum (Londra). Ha coordinato la produzione di Romanistan (2019), un film di Luca Vitone. Nel 2019 ha co-fondato REPLICA, un progetto curatoriale e di ricerca che indaga i libri d'artista. Ha collaborato con diverse istituzioni ed case editrici tra cui: Fondazione Arnaldo Pomodoro (Milano), Fondation Carmignac (Paris-Porquerolles), Humboldt Books (Milano), MAXXI (Roma-L'Aquila), Mousse Magazine & Publishing (Milano), NERO Editions (Roma), Quodlibet (Roma), Spector Books (Lipsia), Viaindustriae (Foligno). Dal 2018 lavora come archivista e ricercatrice per l'Archivio Salvo di cui è entrata a far parte del Comitato Scientifico.
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REPLICAREPLICA è un archivio, una collezione e un luogo per l’esposizione e lo scambio di libri d’artista e di edizioni indipendenti. Progetto curatoriale e di ricerca fondato nel 2019 da Lisa Andreani e Simona Squadrito.
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Simona SquadritoDocente, critica, editor e curatrice indipendente. Insegna Scrittura creativa, Fenomenologia delle arti contemporanee ed Estetica all’Accademia di Belle Arti “Rosario Gagliardi” - MADE Program di Siracusa. Inoltre, tiene corsi di Metodologie e tecniche del contemporaneo e Ultime tendenze delle arti visive presso lo IED di Milano. È project leader del progetto "Osservatorio Creatività" della Fondazione Francesco Morelli. È cofondatrice di REPLICA, archivio italiano di libri d'artista, e di KABUL magazine, associazione culturale, casa editrice indipendente e rivista di arte e cultura contemporanea. Ha pubblicato saggi per Postmediabooks, Skira, AgenziaX e Nomos Edizioni, e collabora con varie riviste specializzate.Con il progetto curatoriale e di ricerca REPLICA è stata vincitrice della borsa di studio Italian Council XII Edizione promossa dal Ministero dei Beni Culturali. Dal 2015 al 2020 è stata direttrice di Villa Vertua Masolo, il museo civico di Nova Milanese.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.