«Il fungo alla fine del mondo.
La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo».
(Anna Lowenhaupt Tsing)
Chiara Bersani è una performer, coreografa e regista italiana. Nei suoi lavori si focalizza su questioni come quella del corpo politico – a partire dalla sua opera “manifesto” Gentle Unicorn –, della cura tra corpi e della loro interazione con il suono, lo spazio e il tempo. Da Sottobosco a The Whales Song, tutte le sue opere sono caratterizzate da una particolare prossimità con il pubblico, coinvolto nell’andamento delle performance fino a diventarne parte integrante. Questa prossimità è il frutto di un lavoro critico sull’accessibilità dell’opera, presente dal momento della creazione fino ai workshop organizzati sul posto, prima di entrare in scena.
L’idea di questa intervista è nata nell’ambito del corso di “Organizzazione aziendale e comunicazione: media digitali, suono, disabilità”, tenuto da Domenico Napolitano, ricercatore e sound artist afferente all’area di Law and Organizational Studies for People with Disability della Scuola Superiore Meridionale a Napoli. La critica dell’ottica assistenzialista, pietista, ispirazionalista o meramente medico-scientifica in cui si è tradizionalmente concettualizzata la disabilità ci ha portato a imbatterci nel manifesto di Al.di.qua Artists, la prima associazione di categoria italiana di e per le persone con disabilità nello spettacolo e di cui fa parte anche Chiara Bersani. Non esiste la disabilità in quanto tale, ma piuttosto esperienze disabilitanti imposte da una società costruita sul modello di un “essere umano occidentale, maschio, bianco, abile, sano, cis, etero”. Partendo da questo presupposto, il gruppo intende andare oltre la consapevolezza del proprio posizionamento “al di qua” di un muro che divide i corpi abili dai corpi non conformi, per promuovere uno spazio di autonomia in cui la disabilità sia pensata come contro-cultura, forza generativa di altre narrazioni. Narrazioni “strane”, “crip”, che rivendicano la varietà e la differenza delle esperienze marginali in opposizione alla rigidità delle categorie basate sull’eteronormatività e l’abilismo, che riproducono i meccanismi di inclusione ed esclusione delle strutture di potere attuali. Ne derivano l’urgenza di ripensare gli indici di performatività imposti dal nostro sistema produttivo e l’ambizione di realizzare un’accessibilità che sia veramente inclusiva di tutti i corpi non conformi, accogliendo il corto-circuito generato dalla marginalità come desiderabile, perché piena di libertà.
Ringraziamo il musicista Enrico Malatesta per averci messo in contatto con Chiara Bersani, e Dalila D’Amico per averci dato la possibilità di consultare i materiali audio-visivi dell’artista.
Julia Cretella e Pasquale Cesaro
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Pasquale: Ci presentiamo, io sono Pasquale e puoi rivolgerti a me con pronomi maschili.
Julia: Io sono Julia e puoi usare pronomi femminili. Prima di iniziare l’intervista volevamo chiederti quali pronomi possiamo usare per rivolgerci a te.
Chiara: Potete usare i pronomi femminili.
Julia: Spesso parliamo di marginalità come di una condizione da superare o da combattere, ma tu sembri avere un approccio diverso, rivendicando la tua marginalità come parte integrante della tua identità. Che cosa significa per te e come si riflette nel tuo lavoro artistico?
Chiara: È sempre un po’ complessa la postura da assumere. C’è prima una postura collettiva, per cui io mi posiziono all’interno di un crocevia di correnti di pensiero che vanno dalla queerness fino a un movimento di orgoglio disabile che si sta finalmente srotolando in tutta Europa. In questo approccio intersezionale, il margine viene rivendicato come un punto da cui vedere le cose, avere altre prospettive, ricevere, fornire ed elaborare altre visioni e altre analisi della società e dello spazio pubblico in cui ci muoviamo. Questa è la parte che trovate nei libri, che io sposo completamente, ma anche quella meno personale. Per quanto riguarda come tutto questo sia calato nel mio privato, e con privato intendo anche il mio lavoro, io penso di avere una sorta di chiamata ai margini che va aldilà della disabilità. Sono nata in provincia, vengo da un paese molto molto piccolo nella profonda Pianura Padana, e c’è un aspetto molto meno raccontato, trasversale un po’ a tutte le province italiane perché è comune alle realtà piccole, limitrofe, caratterizzate da narrazioni un po’ reali e un po’ fantastiche: sono lontane da tutto, ricevono informazioni un po’ sbagliate, sfasate, confuse. Io vengo da un paese così, perciò una parte di me già è un po’ destinata al margine, e ogni volta che mi sono avvicinata al “centro” – qualsiasi cosa voglia dire – per me si è trattato sempre di un’esperienza eccentrica, ma mai di qualcosa che potesse appartenere al mio quotidiano, alla mia vita reale.
In più, il mio corpo: un po’ il privilegio e un po’ l’esercizio di riuscire ad aderire al mio corpo, nel senso di accettarne tutta la complessità che portava e tutte le informazioni che avrebbe dato alla mia identità. Io sono nata con una disabilità, che è un’esperienza profondamente diversa da chi invece la disabilità la acquisisce. Quella del mio corpo è l’unica realtà che ho sempre conosciuto: ho scoperto lentamente di essere tra gli esemplari un po’ più rari, nel senso che venendo dalla realtà bizzarra di un paese molto piccolo ho messo a fuoco che il mio corpo era strano solo quando da adolescente sono andata a studiare in città. Finché ero in paese con i miei amici e le mie amiche, il mio corpo era molto contestualizzato: certo, ero l’unica così, ma il mio corpo era così amalgamato che avevo una percezione della realtà un po’ favolistica, mi sentivo un po’ come nei film di Alice Rohrwacher. Quando sono andata in città ho capito che la mia esperienza di vita era molto diversa da quella della vera maggioranza delle persone e ho messo a fuoco che c’era una marginalità più radicale. Negli anni ho capito che ogni volta che mi venivano suggerite parole come “superare”, “abbattere”, “lottare”, termini che hanno un respiro un po’ guerrafondaio o eroico, mi stancavo da morire. Con l’ingenuità di chi non aveva ancora fatto esperienza della teoria, non capivo bene che cosa dovesse spingermi a fare chissà quale lotta: alla fine io avevo già le mie strategie, che non mi sembravano tanto diverse da quelle degli altri. Trovare delle strategie è una cosa normale, ed è da lì che è partito tutto il mio lavoro. Dopo essere entrata in contatto con il pensiero teorico, ho iniziato a dare una serie di nomi alle cose e a mettere ordine in quello che prima era un istintivo muoversi pazzo nel mondo.
Ho iniziato i miei lavori avendo visto pochissimo di teatro, perché a San Rocco, vicino Piacenza, passano un po’ di cose, ma selezionate e dallo stile molto preciso, tant’è che per me erano stati una grandissima rivelazione gli spettacoli su YouTube: da lì ho avuto accesso a contenuti e modalità teatrali che non avevo neanche immaginato. I miei primissimi lavori erano veramente alieni, perché mettevano insieme una cultura e un background che mi ero costruita in maniera disorganizzata, a partire da tanti libri, fumetti, e da una relativissima conoscenza delle arti performative della danza. Tutto questo rimane parte del mio lavoro, parla del margine, spiega perché credo di essere una creatura del margine a priori, anche se non fossi con disabilità: è qualcosa che mi appartiene più profondamente e che rivendico perché è l’unico modo che conosco per vivere la realtà. Se continuo a sentire una seduzione per il centro, lo vivo come qualcosa che mi interessa attraversare per poi ritornare nelle parti un po’ più laterali delle cose, le sole che permettano davvero di far respirare lo sguardo.
Pasquale: Tra le prospettive critiche sulla disabilità, la teoria crip stabilisce un rapporto privilegiato tra corpi queer e corpi disabili nella rimessa in discussione dell’eteronormatività. C’è un’integrazione della teoria crip nei tuoi lavori? E si può parlare di una certa difficoltà di tenere tutto a mente in un approccio che sia davvero intersezionale?
Chiara: Mettere insieme tutte le cose è difficilissimo. Proviamo semplicemente a parlare delle disabilità e facciamo finta per ora che l’intersezionalità sia solo tra quelle, rimanendo concreti prima di arrivare alla riflessione: se voglio fare un’opera che sia accessibile a un pubblico cieco, a un pubblico sordo e a un pubblico neurodivergente, e se voglio rimanere molto aderente alle richieste di questi tre pubblici, rischio la paralisi. Perché? Un’opera totalmente accessibile è un’utopia: si possono creare delle linee guida generali, però poi le disabilità hanno questa cosa che io trovo molto affascinante (e che può risultare spaventosa quando la si scopre) per cui ogni individuo ha dei bisogni e delle specificità molto diversi. Lo so che sembra banale, ma non lo è per niente: anche in un pubblico di trenta persone sorde ci sarà una parte che è segnante, un’altra che preferisce il labiale e non conosce la lingua dei segni, una che vuole leggere i sottotitoli perché così si trova più a suo agio, un’altra ancora che magari non legge… Questi esempi concreti e anche un po’ esagerati si moltiplicano in un immaginario intersezionale molto più ampio e che va oltre le mere disabilità, che va a toccare le identità dei corpi, le questioni queer, le questioni razziali e, alla base di tutto, la questione di classe; e l’arte deve stare molto attenta perché è davvero un secondo che diventa classista. Con i mezzi che abbiamo adesso e per il punto in cui il pensiero critico è in questo momento, forse la cosa migliore che si possa fare è avere una rete di persone che ti mantenga dentro ai dialoghi mentre lavori, e apparecchiare tutto all’inizio di una creazione, ma senza perdere il focus di ciò che stai facendo. Alla fine, fare un check, dichiarare per chi è accessibile la performance e per chi no, o anche da cosa è composta, di modo che ciascuno possa valutare per se stesso. È forse più semplice gestire tematiche diverse da quelle dell’accessibilità, che si muovono su un piano di termini che si sceglie di utilizzare. Se pensiamo a persone razzializzate, i miei lavori si collocano da tutt’altra parte, non sfiorano proprio la questione. Per esempio, in due delle mie performance, Gentle Unicorn e Sottobosco, lavoro con delle comunità in cui c’è una tale eterogeneità di umanità che alcune questioni non si pongono nemmeno: il lavoro con la collettività, in effetti, già riflette ciò che la società è in quel momento, nel posto in cui ti muovi.
Faccio un altro esempio: in questo momento le artiste e gli artisti italiani sono chiamati a prendere parola su due versanti, su ciò che sta accadendo in Palestina e poi nei teatri di Roma, che è una questione più politico-istituzionale. In occasione di un sit-in, organizzato e dichiarato, i miei colleghi e colleghe si sono ritrovati con gli agenti in tenuta antisommossa davanti al teatro per impedire loro di entrare. Ho sposato entrambe le questioni e mi sono esposta molto pubblicamente ma, e qui arriviamo al problema dell’intersezione, per me e per il tipo di dialogo che instauro con il pubblico, l’idea di leggere alla fine di uno spettacolo uno o due manifesti molto complessi e tecnici mi fa sentire a disagio, perché penso che molte di quelle parole non sono comprensibili alle persone di cui mi voglio prendere cura. Io ho dei lavori con pochissimo testo, che hanno la finalità di creare delle immagini molto evocative affinché siano comprensibili per il maggior numero di persone che abbiano o diverse strutture neurologiche, o diversi background di classe sociale, o diverse possibilità. Ha senso aggiungere alla fine di un lavoro pensato e calibrato per avere un tempo morbido quattro minuti di testo dritto, scritto con un linguaggio giustamente da manifesto politico, perché di quello si tratta? Mi domando quale debba essere la mia priorità: forse la mia azione politica in un momento in cui tutto si sta sfasciando in questo fascismo in casa deve essere la cura di queste persone, più che la dicitura del manifesto? Non ho una risposta, volevo darvi degli esempi molto complessi di cosa significa stare in mezzo alle cause, all’intersezionalità, in un momento come questo in cui effettivamente le contraddizioni ti balzano addosso con una enorme violenza. E quando mi chiedevate come entra la teoria crip nel mio lavoro, ecco, per me è attraverso queste domande. Inoltre, creo il mio lavoro pensandolo come uno spazio per il pubblico, in cui devo prendermi cura non solo della messa in scena, ma anche di com’è il teatro quando la gente entra. Da un lato non posso e non voglio creare il lavoro in modo che debba piacere per forza, dall’altro non voglio in nessun modo schiaffare una competenza o un’autorevolezza che non ho, perché io e il pubblico siamo semplicemente in due posizioni diverse, ci occupiamo di cose diverse, è un gioco di ruoli sociali e niente di più. Voglio però fare tutto ciò che è in mio potere affinché quello sia un luogo ospitale per il maggior numero di persone. Insomma, la teoria crip si manifesta nella questione della cura del pubblico e nel cercare di avere il più possibile presente l’eterogeneità dei corpi, assumendosene collettivamente la responsabilità.
Julia: In Sottobosco, insieme ad Elena Sgarbossa, avete declinato il tema della cura anche nel rapporto tra corpo abile e corpo non conforme. Come si costruisce un’alleanza tra corpi diversi e come la si porta in scena?
Chiara: Il rapporto tra corpo abile e corpo disabile è stato un elemento complicatissimo da gestire in questo lavoro, proprio perché non avevo nessuna intenzione né desiderio – e nemmeno il resto dell’équipe – di scivolare nella retorica del corpo forte che aiuta il corpo più vulnerabile, né tantomeno in quella dei due corpi che sono uguali, perché non lo sono. Al tempo stesso c’era ovviamente una questione di non “umiliare”, passatemi il termine, il corpo abile, perché anche quello era un rischio. Io sono molto piccola, lei è una ragazza molto alta, e anche rimanendo su cose basiche, a livello visivo io ed Elena eravamo già due elementi profondamente diversi. La soluzione è arrivata dal nostro rapporto. Elena è una danzatrice più giovane di me e ci siamo conosciute in una scuola di Bassano del Grappa, in Veneto, una bolla di danza contemporanea con un accesso all’Europa pazzesco. Con tutta una parte importante di coreografi e coreografe italiani tra gli anni zero e gli anni dieci, adesso venti, ci siamo formati lì, un po’ al di fuori delle istituzioni accademiche ufficiali. Elena ha fatto parte della generazione dopo la mia, ma in alcuni momenti ha condiviso parte dei suoi studi con me. La nostra idea era che un corpo formato convenzionalmente, perché poi Elena ha fatto anche l’Accademia, poteva apprendere nuove tecniche partendo da quelle di un corpo formato in maniera totalmente diversa, come nel mio caso, e con delle peculiarità motorie per cui ogni cosa era stata tradotta e rivista. Elena sperimentava quella che per me era diventata una tecnica come un altro linguaggio della danza con cui lavorare. Così, da parte di entrambe, è arrivata l’intuizione di cercare una sorta di grado zero del movimento e della danza, che partisse da qualcosa utopicamente affrontabile dal maggior numero di corpi possibili, anche da quelli di persone che non hanno competenze di danza, o da quelli di persone di settantasei anni che non hanno più l’elasticità dei trenta: il grado minimo è coricato a terra, tenendo il maggior numero di punti di contatto tra il corpo e il pavimento, creando i più piccoli impulsi motori che permettono al corpo di muoversi senza affaticarsi. Attraverso workshop con persone disabili, abbiamo chiarito quello che era il movimento di base: noi lo chiamiamo “la stellina”, che è quella sorta di ameba che facciamo entrambe inizialmente sdraiate a terra. Lo abbiamo elaborato e da lì ci siamo prese la libertà di arricchirlo personalmente, ognuna con le sue peculiarità e con i suoi vocabolari privati. A un certo punto è arrivata la domanda: ma quand’è che questo movimento chiama la verticalità? E quando la chiama, qual è la verticalità per Chiara? Qual è la verticalità per Elena? Così abbiamo iniziato a distinguere le due strade: la verticalità per Elena è in piedi, la verticalità per Chiara è in ginocchio. Se quando eravamo a terra avevamo trovato un modo per dialogare, ci siamo chieste come dialogassero i nostri due corpi nella verticalità. Da lì quello che nel lavoro vedete come un abbraccio, che nel mio caso mi solleva e mi propone una nuova prospettiva, così come a lei viene proposta una nuova prospettiva quando si abbassa per prendermi e nel rialzarsi fa la scoperta di un peso diverso. È stato tutto un capire come, partendo da uno stesso alfabeto, si separassero le due strade, senza tuttavia emettere un giudizio di valore. Sono due strade che si separano, ma che poi costantemente cercano di mantenere un dialogo di apprendimento reciproco, come fanno gli esseri viventi tutti, dalle piante agli animali. Questo è stato il percorso con lei nel rapporto tra i due corpi.
Il lavoro con le persone con disabilità che entrano nel finale di Sottobosco ci riporta alla teoria crip. Infatti, nei giorni precedenti alla presentazione dello spettacolo organizziamo un workshop per persone con disabilità motoria, ed è molto importante che sia questo tipo di disabilità, per la questione di chiarezza che abbiamo posto all’inizio. Io in due giorni sono in grado di fare un lavoro con persone con disabilità motoria che non sono in grado di fare con persone con disabilità cognitiva, perché mi servirebbe una settimana; io in due giorni posso lavorare con persone con disabilità motoria ma non posso riscrivere uno spettacolo per avere in scena persone sorde. Lavorare con persone con disabilità motoria, anche se è per costruire un pezzo molto breve, che sta in scena più o meno per una decina di minuti, significa anche chiedersi quanto tutte le persone coinvolte si comprometteranno, perché magari alcune avranno bisogno di aiuto. Ci sarà chi arriverà con il proprio assistente che deciderà di far parte del workshop, così come ci sarà chi arriverà senza assistente e desidererà lavorare al pavimento, ed ecco allora la parte di compromesso della comunità che mi porto dietro. Prendiamo per esempio il caso di Lemmo, un musicista che fa parte della mia équipe: lui sa che, se serve, verrà chiamato ad abbandonare un attimo la consolle e ad aiutare una persona a scendere dalla carrozzina, cosa che tra l’altro è appena successa a Perugia. Dà un’immagine strana, è qualcosa che rompe l’estetica creata fino a quel momento, ma lì, tornando al discorso sui compromessi, per me vince la teoria crip sull’estetica. Tanto stiamo tutti collaborando per creare un unico finale, e si fa tutto quello che serve affinché sia un momento bello per ogni persona coinvolta.
Pasquale: Passiamo adesso alla tua opera “manifesto”, Gentle Unicorn. In questo lavoro, utilizzando tecniche di comunicazione non verbale, hai voluto far emergere l’idea di corpo politico in quanto entità contestuale piuttosto che individuale. Come bisogna interpretare questo concetto? E da dove ti è venuta l’idea?
Chiara: Sono arrivata a scrivere Gentle Unicorn con tutto il mio malloppone di filosofi europei che dibattono sul corpo politico, con qualche deviazione su quelli americani e latino-americani. Per la prima volta nella mia vita sto per portare Gentle Unicorn molto lontano, a Hong Kong. Non ho la minima idea di come in Asia venga vissuto il corpo nello spazio pubblico, né di cosa significhi politico lì. Penso alla storia di Hong Kong e mi domando che significati abbia per loro, dopo i grandi moti di indipendenza. La vostra domanda capita quindi in un momento in cui mi sto chiedendo se tutto quello che ho costruito funzionerà o meno anche lì. Certo, in Gentle Unicorn ci sono immagini molto semplici, e quelle dovrebbero funzionare, però mi chiedo se l’apparato resterà in piedi quando lo porterò dall’altra parte del mondo.
Ho iniziato a interessarmi alla questione del corpo politico nel 2012, durante la Primavera araba, perché una delle mie più care amiche si trovava in Egitto, ad Alessandria, e mi aveva messo in contatto con artiste e artisti che stavano partecipando attivamente ai movimenti. In particolare, mi ricordo il racconto di un artista che aveva detto: «Qui è bellissimo, anche mia mamma, che è una donna molto anziana, si è sentita sicura di scendere a manifestare. Vedere le persone anziane che manifestano mi commuove». Effettivamente anch’io, tra tutte le narrazioni che mi sono arrivate, sono rimasta colpita soprattutto dal racconto di queste anziane signore di Alessandria che scendevano a manifestare. Perché? Quei corpi solitamente non fanno quello, non scendono, e per tanti motivi. Così ho iniziato a provare interesse verso i significati che i corpi portano, volenti o nolenti, semplicemente per la loro forma, e quindi mi sono chiesta: si può avere, se non il controllo, almeno una possibilità di presa di parola sul proprio corpo, oppure si è completamente assoggettati alla lettura delle altre persone? Voglio dire, io non mi sento di giudicare la primissima immagine di me che le persone si fanno quando mi incontrano per strada, in quanto deriva da un background culturale tanto profondo e stratificato che è una lotta impari volerla sradicare. Il punto è: ho la possibilità di agire sul loro secondo pensiero, oppure devo accontentarmi che se il primo si sradicherà sarà solo dopo sei anni di conoscenza? Che cosa si può fare in quei tre metri che si continuano a percorrere in direzioni opposte nella stessa strada? Dopo queste domande, ripensando alla signora di Alessandria, ho capito che in realtà non potevo sapere se si trattava di qualcuno che aveva fatto le rivolte fino al giorno prima, e mi sono sentita un po’ in colpa. Gentle Unicorn si chiede proprio questo: quanto l’oggetto della visione e della lettura può modificare lo sguardo che riceve?
In quest’opera il non verbale è molto importante, perché credo molto più nei corpi che nelle parole. Pensiamo alla narrazione diffusa secondo cui le persone con disabilità motoria dovrebbero essere tutte intelligenti: è terrificante che si cerchi sempre una consolazione compensatoria, come se il corpo fosse spacciato, annullato, e non ci fosse altra scelta che trovare qualcosa altrove. Ecco, tra l’altro, uno dei motivi per cui mi piace molto lavorare nel mondo della danza, ed è nella stessa elaborazione dei movimenti nella performance che ho voluto evitare un’intellettualizzazione della mia immagine che non coinvolge mai il corpo. Se lo sguardo doveva muoversi e modificarsi, ciò doveva accadere andando a toccare le parti un po’ più animali di quello che siamo, attraverso la prossimità e l’interazione dei volti. Da un lato una prossimità che va riducendosi tra me e i miei spettatori, dall’altro i loro volti che vanno sempre più svelandosi e che sono chiamati in causa. Infatti, il lavoro ha uno scheletro, ma io cambio le sfumature in base a come le persone si comportano con me, e questo loro lo capiscono abbastanza rapidamente. A volte, Gentle Unicorn prende dei tratti estremamente teneri, altre sembra un film horror e dark, altre ancora è completamente ondivago e passa da momenti molto cupi a momenti luminosissimi. Così, diventiamo tutti corpi politici. Certo, il mio corpo al centro della scena è quello in cui sicuramente l’azione politica è più evidente, ma anche i corpi del pubblico vengono liberati rapidamente dall’illusione di essere corpi neutri, influenzando ciò che accade. Non sono neutri minimamente, nessuno in quella stanza è neutro.
Pasquale: Nel finale di Gentle Unicorn suoni una tromba, e con te anche alcune persone dal pubblico. Ci è venuto da pensare che quello fosse il momento in cui ci si assume la responsabilità di dare un significato autonomo al corpo, stavolta con un suono, forse una voce.
Chiara: È assolutamente così e c’è una certa simmetria tra l’inizio e la fine del mio lavoro. Incomincia con me sdraiata in scena mentre le persone entrano, poi cammino e mi allontano per dare loro il modo e il tempo di abituarsi a questo andamento che probabilmente non è molto familiare. Si tratta del mio modo di camminare senza carrozzina, a quattro zampe, come i bambini e le persone molto piccole. Concedo così al pubblico un momento in cui può farsi dei pensieri su di me, che io non voglio neanche sapere, perché potrebbero ferirmi o infastidirmi. Quasi come se dicessi: «Tranquilli, va bene, siamo lontani e anch’io vi guardo un po’ di sottecchi, mi faccio i miei pensieri su di voi». Poi, piano piano ci si avvicina, ci si incontra e nel riallontanarmi, dando loro la schiena, si crea una specularità rispetto al momento iniziale, con un rilancio del dialogo: «Adesso che abbiamo uno storico insieme, che abbiamo un passato, che abbiamo una relazione, proviamo a riprendere le distanze. Come ci vediamo adesso? Cosa succede se io mi allontano? Mi segui? Resti dove sei? Sei triste che mi allontano?».
La tromba è arrivata perché durante la creazione di questo lavoro Fra (F. De Isabella), un musicista della mia équipe, ha sollevato la domanda: «Ma l’unicorno quindi è senza voce?». Effettivamente non vocalizzare mai avrebbe implicato che l’unicorno, una creatura che tutto il tempo chiama e seduce, rinunciasse a quello che è uno dei mezzi degli animali e dei mammiferi più forti, l’apparato vocale-uditivo. Non trovavamo una soluzione, e la tromba è arrivata casualmente. Un giorno, in una sala prove a Centrale Fies, mi sono ritrovata improvvisamente degli ottoni, e siccome sono molto curiosa ho voluto vedere se sapevo suonarli. Sono usciti dei suoni sconclusionati, che sono stati registrati da Fra e che poi avrebbero composto il paesaggio sonoro dello spettacolo. Il suono che esce dalla tromba, quando non la si sa suonare, assomiglia davvero tanto a un richiamo animale, non conosciuto ma verosimile. Quindi sì, quello è davvero il momento in cui ci si assume la responsabilità di dire una “parola”, di fare uscire la voce, di dichiarare un livello di identità più articolato e più complesso. È un richiamo, e lì c’è di nuovo la relazione con la comunità che arriva con delle risposte: ogni volta lavoriamo con persone del luogo alle quali chiediamo semplicemente la disponibilità a soffiare dentro a un ottone. Non ci interessa che siano capaci di farlo e facciamo un laboratorio il pomeriggio, così la sera durante lo spettacolo loro, in una sorta di piccola improvvisazione, rispondono ai miei richiami.
Julia: Per finire, uno dei commenti al tuo lavoro The Whale Song dice: «Quando mi dimentico del suono, perché diventa una parte del corpo, so che sono dentro, quando il suono diventa il clima e non il racconto sento che c’è spazio per viverci dentro». Qual è il rapporto nelle tue opere tra suono, corpo e spazio? Come mai il suono ha un posto così privilegiato nella tua espressione artistica?
Chiara: Il suono e la sua importanza sono arrivati quando ho avuto paura di stare diventando sorda, che è una possibilità del disturbo genetico dell’osteogenesi imperfetta. Ero sempre stata convinta di essere più legata all’immagine e alla vista, ma in un periodo in cui non sentivo bene mi sono invece resa conto di come l’udito sia fondamentale per il mio modo di stare al mondo e orientarmi. Prima che nella mia vita arrivasse la carrozzina, a circa otto anni, ricordo una grande stazionalità: venivo messa in un punto e la mia curiosità mi spingeva a essere ricettiva su tutto, a diventare un po’ un’antenna parabolica. Io il mondo, non potendolo attraversare con la stessa agilità di altre persone, lo conoscevo molto grazie ai suoni, vicini e lontani, che mi davano una grande idea dello spazio. Poi ho capito che il problema all’udito arrivava da altro, ma questa paura di perdere tutto ciò che il mondo sonoro mi comunica mi ha spinto a lavorare tantissimo col suono e ad attaccarmici. Questa è la parte più autobiografica. Quella più professionale è che ho iniziato a sentirmi autorizzata come danzatrice il giorno in cui ho messo a fuoco che la danza non è altro che una struttura di movimento che si compie in relazione al suono, allo spazio e al tempo, punto. La cura di questi tre elementi mi permette di creare una sorta di materia densa, dentro la quale è possibile poi fare accadere, far arrivare, fare apparire la danza, anche in quei corpi o in quelle motricità o in quei lessici che in altri contesti non verrebbero definiti danza. Infatti, i tre elementi suono-spazio-tempo sono talmente densi che anche quei piccoli micro-movimenti sono già rivoluzionari. Avete preso questa citazione dal Canto delle Balene (The Whales Song), un lavoro in cui il corpo del performer Matteo Lamponi appariva, sì, ma come le increspature sulle onde. E tutto il resto della danza in quel lavoro era lo spazio che si muoveva: la coreografia di luci, i paesaggi sonori che si intrecciavano, le possibilità del pubblico di spostarsi, di cambiare postura, di sdraiarsi a terra, di mettere e togliere le cuffie che avevano a disposizione, e infine quei piccoli movimenti nel corpo del performer che si perdeva costantemente tra il pubblico. Ecco, per me il suono insieme agli altri due elementi crea l’acquario, il contesto in cui io mi sento salva, tutelata, e sento di avere un’autorevolezza come danzatrice-performer. Ovviamente anche l’assenza del suono, là dove sto, è sempre suono.
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Chiara BersaniChiara Bersani è una performer e autrice italiana attiva nell’ambito delle Performing Arts, del teatro di ricerca e della danza contemporanea. Sia come interprete che come regista/coreografa, si muove attraverso linguaggi e visioni differenti. I suoi lavori, presentati in circuiti internazionali, nascono come creazioni in dialogo con spazi di diversa natura e sono rivolte prevalentemente a un pubblico “prossimo” alla scena. La sua ricerca come interprete e autrice si basa sul concetto di Corpo Politico e sulla creazione di pratiche volte ad allenarne la presenza e l’azione. L’opera “manifesto” di questa ricerca è Gentle Unicorn, performance inserita nel circuito Aerowaves. Per il rigore nell’incarnare questo studio le viene attribuito il Premio UBU come miglior nuova attrice/performer under 35 del 2018. Nell’agosto 2019, durante l’Edinburgh Fringe Festival, Gentle Unicorn e Chiara Bersani vincono il primo premio per la categoria danza del Total Theatre Awards. Chiara Bersani è artista sostenuta dal circuito apap – Advancing Performing arts project – Feminist Future, un progetto cofinanziato dal Programma Europa Creativa dell’Unione Europea, fino al 2024.
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Julia Cretella & Pasquale CesaroJulia Cretella e Pasquale Cesaro sono due studenti del corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali e Analisi di Scenario dell’Università Federico II di Napoli e allievi della Scuola Superiore Meridionale.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.