Wave goodbye, Wish me well, You’ve gotta let me go11«And I’m on my knees looking for the answer. Are we human Or are we dancers?». I The Killers nel famosissimo brano Human (2008) si chiedono se siamo umani o “dancers”. Più tardi risponderemo a questa domanda.
Un giro di campo in Jeep, divisa militare ed elmetto da sommossa, il tutto accompagnato a qualche metro di distanza dalla modella e sogno groupie Lorelei Shark. Siamo nel 1979 e il conduttore radiofonico americano Steve Dahl ha riunito, con una promozione pubblicitaria senza precedenti, quasi settantamila americani al Comiskey Park di Chicago per assistere al rogo di migliaia di vinili di musica disco, intervallato da un match tra i White Sox e i Detroit Tigers.
L’evento, tracciato inizialmente dalla critica come una guerra – soprattutto economica – tra etichette e stazioni radiofoniche, svela, in realtà, le estreme conseguenze di quelle associazioni tra musica e politiche identitarie che cominciano ad apparire negli anni Sessanta con i movimenti studenteschi e il classic rock. Il binomio musica radicale e politica radicale si trasforma ben presto in una sessualizzazione dei generi musicali“…Il binomio musica radicale e politica radicale si trasforma ben presto in una sessualizzazione dei generi musicali”, per cui la disco music viene individuata, dal mercato e dal pubblico fallocentrico del rock, come queer, deviante, frivola perché femminizzata, elitista e, pertanto, socialmente pericolosa:
«La Decade Disco è quella del “glitter & gloss”, il decennio privo di sostanza, sfumature e di qualcosa che sia più di un istinto sessuale di superficie. La Decade Disco è l’era in cui intimità e prossimità emotiva sono da evitare, persino quando tale avvicinamento riguarda il proprio io. Negli anni Sessanta, ovviamente, gli Americani avrebbero dato tutto per avere qualcosa di così insensato e impersonale come la musica disco, una via di fuga dalle responsabilità sociali, dalle urla e dagli spintoni per le strade. Adesso abbiamo trovato una risposta a questa necessità. Tutto ciò che dobbiamo fare è asciugare i nostri capelli nutriti da impacchi proteici, ungerci con oli, sniffare un’altra striscia di cocaina e alzare il volume… Dopo le grandi aspettative, le passioni e le delusioni degli anni Sessanta, abbiamo la rassegnazione passiva e i parossismi sfarzosi della disco 1970. Dopo la poesia dei Beatles, arriva il monotono basso bombardante di Donna Summer».22Robert Vare, Discophobia, «New York Times», 10 July 1979, A15, trad. nostra.
Lo stesso slogan “Disco sucks” costituiva un riferimento omofobo alle origini della disco music e alla composizione sociale dellə suə precursorə: queer afro e latino-americanə che ricercavano spazi di ascolto e produzione, seguendo la tradizione delle ballroom, fuori dalle discoteche, in loft e appartamenti privati, come quello di David Mancuso, che diventano il centro di diffusione del genere:
«La musica disco non è nata nelle discoteche. I party di Mancuso erano feste private e si tenevano in genere nel Lower East Side di Manhattan tra una folla di ballerini di etnia e sessualità non definite. […] Nel 1973 il giornalista Vince Aletti scrisse di questa nuova tendenza su “Rolling Stone”: “Bar, club aperti a oltranza, loft privati attivi durante tutto il weekend a cui è possibile accedere soltanto su invito” popolati da “una folla dance hardcore: afroamericani, latinoamericani, gay”».33Tobia D’Onofrio, I precedenti musicali, in Rave new world. L’ultima controcultura, Agenzia X, Milano, 2019.
È nei sugosi bar sotterranei e negli alti loft privati popolati da “outsiders” che negli anni Settanta prende vita questo incrocio mary shelley tra soul, funk e musica latino-americana.
Alla fine del decennio, la disco guadagna popolarità anche nel mainstream e comincia ad attirare le fantasie della cultura dominante. Viene così meno lo statuto clandestino e subculturale dei free party in America. Il Sessantotto insegna che tra gli spazi da rivendicare c’è anche quello della danza – o meglio, l’accesso agli spazi “preposti” da un sistema eteronormato per la danza –, e l’assimilazione nella costellazione dei club alla luce del sole diventa un punto fondante delle rivendicazioni dei movimenti di liberazione sessuale. Con la pellicola musicale Saturday Night Fever (1977), Bee Gees e John Travolta permettono finalmente al giovane americano bianco ed eterosessuale di percepire la disco music come sicura per la propria sessualità,44Sull’appropriazione del dancefloor da parte della cultura dominante, machista ed eteronormata Tim Lawrence scrive: «In order to sell disco to the perceived mass market the suburban market, or the Middle American market entrepreneurs reframed disco as the popular site for patriarchal masculinity and heterosexual courtship. The most notable example of this involved the filming of Saturday Night Fever, […] the film enacted the reappropriation of the dance floor by straight male culture inasmuch as it became a space for straight men to display their prowess and hunt for a partner of the opposite sex. The film also popularized the hustle (a Latin social dance) within disco culture, and in so doing reinstituted the straight dancing couple at the center of the dance exchange. […] established an easily reproducible template for disco that was thoroughly de-queered in its outlook» (Tim Lawrence, Disco and the queering of the dance floor, «Cultural Studies», 25(2), March 2011, p. 241). Luis-Manuel Garcia ritorna sul film sottolineandone le sue esclusioni razzializzanti: «Starring John Travolta and directed by John Badham, the film repackaged the disco scene for a mainstream American audience, largely underplaying the participation of queers of color while presenting a more palatable personification of disco for mainstream audiences by displacing the genre’s queer Black and Latino/a associations with a heterosexual, Italian-American, and fair-skinned protagonist» (Luis-Manuel Garcia, Richard Dyer, “In Defence of Disco”, History of Emotions. Insights into Research, Nov. 2014).
e tra il 1974 e il 1977 i club disco cominciano a spuntare nelle metropoli statunitensi come funghi non più velenosi.
L’anti-disco backlash di fine anni Settanta – con il quale abbiamo aperto questo articolo – sembra aver condensato, pertanto, l’allora già diffusa idea di ri-mascolinizzazione dell’America, le fantasie di pulizia etnica del rock e gli ideali borghesi di salvazione dalle influenze “giovanili”. Il tutto sfocerà in una violenza programmata di stampo militarista, perfettamente incarnata dall’abbigliamento di Dahl durante la Disco Demolition Night:
«La scossa causata dal movimento anti-disco culminò in atti di intimidazione e violenza contro i fan della disco-music e la distruzione violenta di dischi associati alla corrente musicale. Quell’anno a Seattle centinaia di fan del rock si riunirono alle fiere e attaccarono una pista da ballo itinerante. A Portland, Oregon, migliaia di persone esultarono quando un presentatore radiofonico distrusse una pila di dischi tagliandoli a metà con una motosega. A Detroit e Chicago i club anti-disco attrassero migliaia di membri. Magliette che riportavano frasi come “Disco Sucks” o “Death to the Bee Gees” vennero indossate in tutti gli Stati Uniti. A Los Angeles una stazione radiofonica pubblicò un disco promozionale “anti-disco” contenente canzoni come “Disco’s What I Hate”, “Disco Defecation” e “Death to Disco”. A New York, gli ascoltatori di una radio inveirono contro un deejay rock perché trasmise “Hot Stuff”, disco di Donna Summer allora considerato estremamente provocativo».55Gillian Frank, Discophobia: Antigay Prejudice and the 1979 Backlash against Disco, «Journal of the History of Sexuality», 16(2), The University of Texas Press, May 2007, p. 278, trad. nostra.
La disco music si pone, da subito, in posizione antitetica rispetto alla natura individualista della fruizione e della produzione del rock. Le masse di rockettari agglutinati degli anni Sessanta si erano infatti sempre più divise. Non più incoraggiati a ballare insieme, i fan del rock venivano, invece, invitati, durante i concerti, a essere degli attenti ascoltatori, a riconoscere la virtuosità, la tecnica e l’eccezionale individualità dei musicisti: «Nei concerti rock i corpi in mostra sul palco erano quelli dei performer. Al contrario, la disco metteva al centro i corpi del pubblico, allontanando l’immagine del cantante frontman e l’idea di riunirsi tutti attorno a Lui».66Ivi, p. 291, trad. nostra.
I movimenti orizzontali senza stage e senza frontman della disco contraddicevano la natura fallica e individualista del rapporto musicista-strumento, dove entrambi appaiono eretti sopra il pubblico. Nella disco la folla rispondeva agli effetti sonori della musica piuttosto che all’immagine dell’artista performante, assecondando e replicando il ritmo con reazioni muscolari e nervose. Secondo Riccardo Balli, dj e produttore musicale nonché prolifico scrittore e teorico, «la musica dance è essenzialmente funzionale, in un modo in cui nessun’altra musica può esserlo. Essa deve interagire con l’ascoltatore in maniera tanto diretta quanto un allarme antincendio […], la tecnologia è dirottata al fine di causare una reazione specificamente primitiva, al limite del fisiologico».77Riccardo Balli, Apocalypso Disco. La rave-o-luzione della post techno, Agenzia X, Milano, 2013, p. 30.
E ancora, tornando in ambiente anglosassone:
«Questo circuito non convenzionale sfidava i fondamenti gerarchici dell’industria musicale, in cui il cantante, il musicista e il produttore occupavano una posizione elevata sopra l’ascoltatore […], anche il ballerino poteva iniziare a pensare di star attivamente contribuendo a questo assemblage musicale generato collettivamente, potendo persino rispondere all’idea di musica al di fuori di relazioni gerarchizzate aventi come attori artisti e fan».88Lawrence, cit., p. 236, trad. nostra.
Brian Eno, musicista e produttore, conierà a questo proposito il termine “scenius”, il genio della scena, da contrapporre al “genius”, il mito modernista dell’artista che, come singolo, nella solitudine del suo studio, è in grado di determinare le sorti della produzione culturale, essendo attraversato, Lui e Lui solo, dalle eclissi totali dell’ispirazione avanguardistica:
«Ero uno studente d’arte e, come tutti gli studenti d’arte, sono stato incoraggiato a credere che ci fossero alcune grandi figure come Picasso e Kandinsky, Rembrandt e Giotto e così via, che in un certo senso sono apparse dal nulla e hanno prodotto una rivoluzione artistica. Osservando sempre di più l’arte, ho scoperto che questa non era un’immagine veritiera. Ciò che è realmente accaduto è che a volte ci sono state scene molto fertili che hanno coinvolto molte e molte persone – alcuni artisti, alcuni collezionisti, alcuni curatori, pensatori, teorici, persone che erano al passo con i tempi e sapevano quali erano le cose alla moda –, tutti i tipi di persone che hanno creato una sorta di ecologia di talenti (ecology of talent). E da quell’ecologia sono emerse opere meravigliose […]. Così mi è venuta in mente la parola “scenius” – e scenius è l’intelligenza di un’intera operazione o di un gruppo di persone. E credo che questo sia un modo più utile di pensare alla cultura. Penso che, dimenticando per un po’ l’idea di “genio”, si possa pensare all’intera ecologia delle idee che danno origine a nuovi pensieri e a nuovi progetti».99Alex Gentry, What Is The “Scenius”?, «Medium», 3 Feb. 2017, trad. nostra.
Applicando l’idea di “scenius” alla dance suonata in questi interstizi antisociali – e poi ai suoi successivi sviluppi quali rave e free party – capiamo come la costruzione della scena e della musica non provenisse magicamente dal genio creativo dei singoli artisti, come volevano altri generi musicali, ma dalla scena stessa, dalla gente e non dal dj, per cui «i cambiamenti nella musica rispecchiavano il modo in cui la scena si evolveva», e ancora «i ballerini in pista diventano le vere star della serata, non il dj che sparisce dietro la consolle o dietro un muro di casse, “schiavo” della folla danzante, la vera protagonista».1010Tobia D’Onofrio, L’epifania, in Rave new world. L’ultima controcultura, cit.
Nella musica disco, infatti, i dj avevano a tratti nessun riconoscimento e/o legame con il proprio prodotto, che, ripetitivo e martellante, sembrava muoversi orizzontalmente sul dancefloor, provenendo da una realtà tutto fuorché umana. Per capire questo punto, è utile attingere alle parole di Lory D, dj e raver italiano che nulla aveva a che fare con la disco americana, ma che nella Roma degli anni Novanta, con la sua musica acida, divenne una sorta di sacerdote per la periferia romana avendole aperto le porte al “centro”, ai rave e alle feste organizzate dai figli dei parioli e della Dolce Vita:
«La realtà non è più sola. Esistono tanti livelli di realtà […], è la vita tecnologica che ha creato uno scollamento con la realtà tradizionale, ed è infatti dalla nuova musica che nasce questa ricerca di spostamento percettivo, per agire su livelli diversi da quelli che ci hanno insegnato. Loro hanno creato un linguaggio che fosse a noi incomprensibile. Noi, con la tecnologia, riusciamo ad agire fuori dal loro controllo».1111Valerio Mattioli, Remoria. La città invertita, Minimum Fax, Roma, 2019, p. 163.
In effetti, critici e testate del settore leggevano la disco music come frivola, spoglia di ogni narrazione sociale e politica, proprio perché costituita da un nuovo linguaggio a loro incomprensibile. La disco è, però, un genere che ha spianato la strada ai movimenti dei diritti civili, non solo perché, da uno stadio di riserva sovraimposta, la comunità queer americana si è trovata – anche grazie a essa – nella condizione di potersi muovere verso il centro, ma perché lo stesso dancefloor si è rivelato uno spazio di enunciazione, dove soggetti subalterni sessualizzati, razzializzati e marginalizzati hanno potuto godere di prominenza sociale, autorità culturale e possibilità di produzione del discorso.
«Coloro che appartengono ai gruppi sociali dominanti e che tendenzialmente stabilivano le dinamiche di forza riguardanti la cultura sono adesso esclusi dalla loro posizione di vantaggio. I “dupes” (i “gonzi”), coloro che ora non sanno, rappresentano adesso l’Altro. I raggiratori e gli insiders perpetuano dinamiche escludenti rispetto alle conoscenze che condividono, assumendo quindi le funzioni tipiche dei gruppi di maggioranza e dominanti. […] In questo processo, quindi, non solo le posizioni di “conoscitore” e “oggetto della conoscenza” vengono invertite […] ma persino le categorie, i metodi di produzione culturale e la “lettura” dei corpi vengono contestati. Questo, ovviamente, è un processo che sfila un certo tipo di “conoscenza” da sotto i piedi di questi “gonzi”».1212Renate Lorenz, 7 Methods of a Freak Theory of Contemporary Art in Kiss My Genders, Hayward Gallery Publishing, 2019, trad. nostra.
Per Renate Lorenz esiste un tracciato che lega il dancefloor americano e le ballroom ai freak show ed è quello dello “staging” e dell’imbroglio. Questi spazi, secondo l’artista, si giocano sulla creazione di un linguaggio esclusivo ed escludente nei confronti dei gruppi tradizionalmente dominanti (un esempio sono le formule ricorrenti delle reading challenge, diventate popolari con RuPaul Drag Race), sulla possibilità che il corpo e il posizionamento sociale dei “dupes” – la classe prevaricatrice ora imbrogliata – siano costretti in una posizione destabilizzante. E, così, le fotografie autografate dei “freak” vendute fuori dagli show già a metà del XIX secolo, dove non era certo se i “talenti” che venivano presentati fossero veri o frutto di protesi, make up e costumi diventano emblema della forza ricostitutiva dell’imbroglio.
Seppur necessarie, interpretazioni come quella di Lorenz spingono verso un’ulteriore binarizzazione e riduzionismo degli spazi musicali e delle composizioni sociali a loro assegnate, che si dimostrano essere lontane dalle intenzioni dellə stessə ideatorə del dancefloor: «“There was no one checking your sexuality or racial identity at the door”, says Mancuso. “I just knew different people”. […] “It wasn’t a black party or a gay party”, he adds. “People came from all cultural backgrounds, from all walks of life, and it was the mixture of people that made the place happen”».1313Lawrence, cit., p. 232.
Anche Vince Aletti, tra i primi giornalisti a parlare di disco music su una testata popolare come «Rolling Stone», nel suo resoconto di una visita in un club disco, scrive di spazi «completely mixed, racially and sexually, where there wasn’t any sense of someone being more important than someone else».1414 Vince Aletti, Discotheque Rock ’72: Paaaaarty!, «Rolling Stone», 13 Sept. 1973.
Un’analisi più approfondita può, quindi, portarci oltre un’interpretazione della disco music come la costituzione di un nuovo spazio organizzato intorno all’identità e, come in Dyer (1979), Lawrence (2011), Gossett (2016) e Segade (2019), avvicinarci, invece, a una riflessione sulla mancata intelligibilità sociale e identitaria dei corpi sul dancefloor.
Sul giornale marxista «Gay Left», negli stessi anni della Disco Demolition, Richard Dyer si assumeva l’arduo compito di difendere la disco music non solo dagli attacchi di un mercato saturato ma, soprattutto, dalle detrazioni di una sinistra che vedeva il nuovo genere musicale e gli spazi a esso associati come un prodotto del consumismo e del neoliberalismo sfrenato, una capitalizzazione apolitica dell’identità sessuale. Tra le qualità trasformative che Dyer associa alla disco music, colpisce la prima: un erotismo particolare che, non solo assale ogni interstizio del corpo, ma lo penetra, lo supera e lo sfalda, tramite gli sviluppi tecnologici di consolle e mixer che rendevano il volume sempre più forte e martellante, e tramite l’assunzione di nuovi tipi di droghe.
Prosegue Dyer sottolineando come il “whole-body eroticism” della disco abbia fatto da contraltare sia alla desessualizzazione della musica pop, sia alla sessualità fallocentrica del rock:
«L’erotismo delle canzoni popolari è “incorporeo”: riesce a esprimere un erotismo che nega la sua stessa fisicità. […] Le melodie della canzone popolare sono rotondeggianti, chiuse, autosufficienti. […] Questo dà loro […] un senso di sicurezza e di contenimento. La canzone non trova lo spazio per invadere completamente il corpo dell’ascoltatore».1515Richard Dyer, In Defence of Disco, «Gay Left», 8, 1979, p. 21, trad. nostra.
«L’erotismo del rock non è inclusivo, non riguarda tutto il corpo ma è fallico. […] È evidente come la comparsa del rock sia potuta inizialmente apparire come un’intensa liberazione dall’“erotismo senza corpo” delle canzoni popolari – il rock si presentava, infatti, come una musica molto “fisica”, non solo per le bocche spalancate e urlanti dei fan, ma per un chiaro riferimento a un elemento della sessualità: il pene. Il rock confina la sessualità all’immagine del pene (e questo è il motivo per cui, a prescindere dai testi delle canzoni, per quanto progressisti o interpretati da donne, il rock resta un genere indelebilmente fallocentrico)».1616Ivi, p. 22, trad. nostra.
Si tratta, per Dyer, di un erotismo diverso da quello funzionale e riproduttivo della danza di coppia.
Lo scopo del dancefloor non era più quello di un rapporto successivo fuori dalla discoteca, ma quello di uno scambio contingente e temporaneo con tutti gli altri corpi presenti, dove la danza è vettore che permette di traslare una coreografia individuale verso una coreografia sociale:
«Agli eventi disco, così come agli eventi “house”, “techno” e “rave” che sarebbero seguiti negli anni Ottanta e Novanta, la musica e il ballo fornivano un collegamento sensoriale-affettivo tra la pratica di fare festa insieme e il senso di appartenenza a qualcosa di più grande di sé, per quanto incoerente o vago possa quel “qualcosa” essere».1717Garcia, cit., trad. nostra.
Ancora, per Segade, quello che la disco si è portata dietro della cultura delle ballroom è l’idea di posa in contrapposizione al gesto. Seppur recentemente pose come quelle del voguing siano state legate a corpi socialmente e politicamente connotati (a tratti feticizzati e stereotipati dai media), la posa – sembra dirci Segade – non nasce come segno di appartenenza a un’identità cristallizzata e fissa nel tempo, ma volge a frammentare la stessa:
«I gesti sono appresi, legittimati e codificati, […] sono attribuiti a un genere, a una razza, a una classe, e sono naturalizzati all’interno di un contesto storicamente definito. […] Posare, invece, […] vuol dire appropriarsi del gesto di un altro – un gesto antecedente appartenente a un momento passato – per mimare in modo asincrono un altro corpo, per un istante. […] Una drag queen entra in scena interpretando Madonna e cinque minuti dopo torna come Dalida o Aretha Franklin».1818Manuel Segade, To Strike a Pose is to Pose a Threat in Kiss My Genders, Hayward Gallery Publishing, 2019, p. 56, trad. nostra.
Se i gesti, quindi, determinano l’appartenenza a un gruppo sociale, istituzionale e storico ben precisato, le pose sembrano collocare i corpi in una posizione antisociale, astorica e atemporale. Un corpo in posa è, per Segade, un corpo che prende coscienza della possibilità di autorappresentarsi non identitariamente ma nella sua multivalenza (di essere Dalida e poi Aretha Franklin), per raggiungere un anonimato costitutivo, l’assenza del corpo socialmente connotato. Parlando dei rapporti tra musica e fenomeni di possessione, Gilbert Rouget scrive:
«La musica è il solo linguaggio capace di parlare a un tempo alla testa e alle gambe, perché è attraverso di essa che il gruppo tende all’individuo lo specchio in cui legge l’immagine della sua identità provvisoria, permettendogli inoltre di rimandargliela sotto forma di danza».1919Gilbert Rouget, Musica e trance: i rapporti fra la musica e i fenomeni di possessione, Einaudi, Torino, 1986.
In Gilbert Rouget il dancefloor – se fuori dalle logiche del mercato dell’intrattenimento e dalla discoteca mainstream – produce uno sbalzo di coscienza fuori da quella ordinaria, un salto verso un’identità provvisoria, ritualizzata dalla danza.
Questa analisi non suonerà nuova a chi si è avvicinato alle teorie sull’anonimato e la disidentificazione del soggetto del pensiero queer antisociale. Leo Bersani vede nel cruising “una jouissance” in cui il soggetto sociale viene temporaneamente disfatto e frammentato, Mieli teorizza una “transessualità originaria” o “pansessualità”, e Parinetto parla del raggiungimento di una “liberazione del polimorfismo libidico”. Secondo gli autori, il tutto avviene seguendo una spinta erotica, che è «un desiderio sessuale privo di freni e privo di identità che precede la differenza tra maschile e femminile e quindi tra eterosessuale, omosessuale, bisessuale, transgenere e cisgenere, capace di scoprire in ogni parte del corpo una zona erogena, rivolto indifferentemente al sé e all’altro da sé»,2020Lorenzo Bernini, Il sessuale politico. Freud con Marx, Fanon, Foucault, ETS, Pisa, 2019, p. 188.
quello che Dyer ha chiamato nel ’79 “full-body eroticism”, un erotismo che riguarda tutto il corpo.
Non a caso, Che Gossett, nel descrivere la club culture, utilizza l’espressione “ontological cruising” (cruising ontologico),2121Che Gossett, Pulse, Beat, Rhythm, Cry: Orlando and the Queer and Trans Necropolitics of Loss and mourning, Verso blog, 5 July 2016.
e ancora Lawrence scrive: «La lunga pratica del cruising ha reso gli uomini gay più propensi [rispetto al pubblico eteronormato delle sale da ballo] all’idea di muoversi sulla pista da ballo in modo autonomo».2222Lawrence, cit., p. 233, trad. nostra.
È dalla disidentificazione e frammentazione identitaria che avviene nel cruising tra uomini che, secondo questi autori, viene ripresa l’idea di movimento autonomo e di spogliamento del sé sul dancefloor. E ancora, prosegue Lawrence: «La discoteca offriva ai ballerini la possibilità di sperimentare il corpo come un’entità polimorfa, che poteva essere costantemente reingegnerizzata in termini altri rispetto ai modelli conservatori di mascolinità e femminilità».2323Ivi, p. 237.
Insomma, quello che sembra chiaro è che sul dancefloor non si acquista né si rivendica un’identità, anzi, nell’assenza di identità socialmente e istituzionalmente costituite, il soggetto sembra frammentarsi in un polimorfismo costitutivo, nella possibilità di attingere a una multivalenza di soggetti, di rendere il proprio corpo inintelligibile. Se nella discoteca commerciale, infatti, «è importante che l’allargamento della coscienza non raggiunga il proprio culmine e che quindi il soggetto rimanga il più possibile in uno stato di eccitamento»,2424 D’Onofrio, cit.
il fascino e il potere dei primi dancefloor autogestiti come dei primi free party sta proprio nel culmine di questo allargamento, nell’annullamento del sé sociale nell’esperienza del godimento.
Ma se una concezione normativa e statica delle identità che potevano avere accesso al dancefloor non era nelle intenzioni costitutive dellə suə ideatorə, viene da domandarsi perché tra le tante obiezioni rivolte all’ambiente disco ci sia stata proprio quella di essere elitario.
Nel 1979, «Punk Magazine», uno dei veicoli per esaminare la scena underground newyorkese, pubblica un numero intitolato “Disco Maniac”, dove, tra le vignette provocatorie, spicca quella di un ragazzo con le orecchie a sventola e i capelli gelatinati che viene rimbalzato ripetutamente dal door selector dello “Studio 666”, che chiaramente sta per Studio 54. L’elitarismo di cui viene accusata la disco music sembra contrastare tutto quello che si è detto sopra. Tuttavia, tra le critiche mosse all’ambiente disco dalla scena rock e punk underground, questa appare come la più fondata. Le venues come “The Gallery” e “Studio 54”, pur manifestando l’intenzione di creare un mix democratico e “inclusivo”, portavano avanti una cultura di crudele esclusione per tutti coloro che non appartenevano alla frangia artistico-borghese (bianca e di classe media) della comunità queer newyorkese, che se non fermati dai prezzi proibitivi del biglietto, lo erano dai buttafuori disegnati da «Punk Magazine»:
«Sotto forma di policy per i soli membri, [le norme all’ingresso dei club] sono state inizialmente giustificate come protettive, legali, necessarie, in particolare nei locali privi di licenza – ma in seguito si sono trasformate in una forma di “curatela sociale” elitaria, selezionando ed escludendo le persone in base a bellezza, celebrità, fascino e legami sociali. Questo ci ricorda che, sebbene le utopie possano sembrare inclusive ed egualitarie, spesso vengono create, mantenute e modellate attraverso macchine escludenti e meccanismi gerarchici basati sulla fama del singolo individuo».2525Garcia, cit.
Questo porta Lawrence a guardare allo Studio 54 come socialmente regressivo rispetto alle prime forme di dancefloor sviluppatesi all’inizio dei Settanta e, soprattutto, un’apriporte alla cooptazione, edulcorazione, sanificazione e commercializzazione della cultura disco, tanto quanto lo è stato Saturday Night Fever. Il contesto di provenienza della disco – tutto fuorché borghesemente edulcorato e facilmente classificabile – è diventato così progressivamente invisibile, facile da ignorare e da eliminare dalla storia del genere. La sottrazione della disco alle proprie premesse generative comincia, pertanto, come spesso accade, con l’ingresso alla luce del sole e la nascita di spazi istituzionalmente legittimati, quando lo status quo medita un’integrazione di pratiche marginalizzate in strutture, come le discoteche, dove «la sessualità viene liberata (o meglio liberalizzata) in forme socialmente costruttive»,2626Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p. 91.
dove l’immaginario della controcultura di strada possa partecipare facilmente alla creazione capitalista di plusvalore. Lo stesso accadrà qualche decennio più tardi con i rave, termine che ora viene spesso utilizzato anche per indicare feste dove si suona progressive e techno all’interno di discoteche: delle strutture ben diverse dai primi free party anglosassoni che si configuravano come «una vera e propria congiura nei confronti del sistema economico e sociale inglese» in cui si erano sviluppati, offrendo un tipo di esperienza comunitaria – poi traslata nel resto d’Europa – che il neoliberismo alla Thatcher aveva rinnegato. Lamberto Cantoni e altri individuano proprio nei free party e nei rave la progenie contemporanea del “whole body eroticism” della disco: un godimento che non è e non sarà mai «facilmente aziendabile».2727 D’Onofrio, cit.
Questo testo è stato presentato in occasione della personale di Katia Mosconi (Siena, 1998) Well, We Good (novembre 2022) al Sonar di Colle di Val D’Elsa (SI).
L’opera video multicanale, realizzata con l’ausilio di telecamere a infrarossi per la visione notturna, documenta i “riti del sabato sera” di una nuova generazione di clubber all’interno di alcune discoteche italiane, con la volontà di indagare quei processi di “domesticazione” e “normalizzazione” neoliberale dei desideri collettivi che hanno reso le discoteche potenti apparati di cattura contemporanea.
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Alessia Baranello scrive di arte contemporanea, cultural e memory studies. Ha lavorato come mediatrice culturale per diverse istituzioni, tra cui la Triennale di Milano. Si laurea in Economia per Arte, Cultura e Comunicazione alla Bocconi e prosegue i suoi studi in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, Milano.
Vince Aletti, Discotheque Rock ’72: Paaaaarty!, «Rolling Stone», 13 Sept. 1973.
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Richard Dyer, In Defence of Disco, «Gay Left», 8, 1979.
Tobia D’Onofrio, Rave new world. L’ultima controcultura, Agenzia X, Milano, 2019.
Pablito el Ditro, Rave in Italy. Gli anni Novanta raccontati dai protagonisti, Agenzia X, Milano, 2019.
Gillian Frank, Discophobia: Antigay Prejudice and the 1979 Backlash against Disco, «Journal of the History of Sexuality», 16(2), The University of Texas Press, May 2007.
Luis-Manuel Garcia, An alternate history of sexuality in club culture, Resident Advisor, 28 Jan. 2014.
Luis-Manuel Garcia, Richard Dyer, “In Defence of Disco”, History of Emotions. Insights into Research, Nov. 2014.
Che Gossett, Pulse, Beat, Rhythm, Cry: Orlando and the Queer and Trans Necropolitics of Loss and mourning, Verso blog, 5 July 2016.
Tim Lawrence, Disco and the queering of the dance floor, «Cultural Studies», 25(2), March 2011.
Renate Lorenz, 7 Methods of a Freak Theory of Contemporary Art in Kiss My Genders, Hayward Gallery Publishing, 2019.
Gilbert Rouget, Musica e trance: i rapporti fra la musica e i fenomeni di possessione, Einaudi, Torino, 1986.
Manuel Segade, To Strike a Pose is to Pose a Threat in Kiss My Genders, Hayward Gallery Publishing, 2019.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.