Nel 2013, il Consiglio per i diritti umani nelle Nazioni Unite ha istituito una commissione d’inchiesta con l’intento di far luce sull’attuale emergenza umanitaria in Corea del Nord, accusata di aver commesso, verso la sua popolazione, numerose violazioni dei diritti umani e civili. Le testimonianze dei rifugiati e i documenti raccolti hanno consentito di stilare un rapporto di 372 pagine nel quale la commissione elenca dettagliatamente le azioni di discriminazione e violenza commesse. Oltre alle consuete e tristemente note forme repressive dei regimi totalitari (politiche di esclusione sociale, rapimenti, torture, esecuzioni sommarie ecc.), nel rapporto sono fornite indicazioni su un aspetto che sino a qualche anno fa era ancora sconosciuto alla popolazione mondiale: la struttura e organizzazione della società nordcoreana.
Songbun
Nonostante la sua costituzione sancisca princìpi di uguaglianza e di non discriminazione, di fatto la società nordcoreana è organizzata su un sistema di 5 caste sociali (suddivise a loro volta in 51 sottocategorie) di cui ciascuna gode di specifici privilegi o limitazioni sulla base di ragioni politiche, sociali ed economiche. Tale sistema, determinante per la vita del cittadino, è chiamato Songbun ed è funzionale a creare una piccola classe dominante che assicuri stabilità alla dinastia Kim, al potere dalla fondazione dello Stato (1948). Una persona nata in una famiglia con un elevato grado di songbun avrà assicurata, sin dalla nascita, una migliore qualità della vita: abiterà quasi sicuramente a Pyongyang (dove vive l’élite del Paese), frequenterà le migliori scuole e università, avrà diritto a una migliore assistenza sanitaria e con ogni probabilità otterrà una posizione di prestigio all’interno della società.
Per certi versi, il grado di songbun è strettamente correlato a quello di mobilità. In Corea del nord è illegale viaggiare dentro e fuori dal Paese senza autorizzazione, e questa di solito è concessa alla sola classe dominante e, temporaneamente, ad alcuni lavoratori usati come manodopera nei Paesi stranieri. I rifugiati sono considerati disertori e nemici di Stato e, se catturati, sono spediti nei campi di lavoro, torturati e, in molti casi, uccisi. Nel rapporto stilato dalla commissione, quella nordcoreana è definita come una società «fisicamente e socio-economicamente isolata, in cui le persone considerate politicamente fedeli alla leadership vivono e lavorano in luoghi favorevoli, mentre le famiglie delle persone giudicate sospette sono relegate in aree marginalizzate».11Human Rights Council, Report of the commission of inquiry on human rights in the Democratic People’s Republic of Korea, 7 February 2014 (online download), p. 9, par. 39 (trad. italiana del sottoscritto della versione originale in inglese).
Con la mobilità di informazioni non va certo meglio. Nella classifica mondiale della libertà di stampa di Reporters Without Borders, la Corea del nord è posizionata infatti al 179° posto su un totale di 180 Paesi censiti (ultima l’Eritrea). I mezzi di comunicazione, dalla televisione, alla radio, a Internet (che permette l’accesso a soli 28 siti e a una limitatissima parte di popolazione), sono gestiti e controllati dallo Stato. Il risultato è una società del tutto chiusa, la cui immobilità è percepibile nella sua cultura così come nella sua estetica, che a uno sguardo occidentale non può non apparire anacronistica e reazionaria, e anche piuttosto kitsch. Tuttavia, tale visione, come cercherò di dimostrare in questa analisi, non cogliendo i caratteri peculiari della cultura e società nordcoreane, rischia di essere ingiusta oltre che superficialmente incompleta. Prima di parlare di arte contemporanea (e quindi di Norko Realism), è necessario però inquadrare anzitutto il discorso artistico all’interno delle più ampie riflessioni che coinvolgono la cultura e soprattutto la teoria estetica del Paese.
La teoria estetica del Juche
La cultura contemporanea nordcoreana si fonda su un immaginario ancora fortemente radicato al rispetto dei valori rivoluzionari promossi con l’ascesa al potere di Kim Il-sung, Supremo Leader dello Stato dal ’48 al ’94. L’estetica diffusa nel Paese nasce da una commistione tra neoconfucianesimo (1392-1910), colonialismo giapponese (1910-’45) e nazionalismo filosovietico. Proprio l’influsso di quest’ultimo dato ha fortemente inciso nella riflessione generale sul ruolo dell’arte e nella formulazione di una teoria estetica fondata sul principio filosofico e antropologico del Juche. Il termine, che possiamo tradurre con «autosufficienza», a partire da un discorso del ’55 di Kim Il-sung assume i connotati di una vera e propria ideologia di Stato, fondata su antropocentrismo e nazionalismo, e ispirata al comunismo.
Per il Juche, i cittadini non costituiscono una comunità di individui scissi tra loro, ma una massa compatta che lavora insieme per rendere grande e indipendente la nazione sotto la guida di un Leader Supremo. Ogni azione è rivolta pertanto al bene comune e dev’essere guidata dalla morale. All’interno di tale discorso rientra anche l’arte che, in Corea del Nord, ha scopo eminentemente didattico e la cui produzione è sotto il pieno controllo del governo e del Partito dei Lavoratori. Dalle arti visive a quelle performative e alla letteratura, ogni manifestazione culturale ha infatti il preciso scopo di veicolare e infondere i princìpi del Juche.
Con una prospettiva che noi occidentali definiremmo anticrociana, il popolo nordcoreano considera il bello nell’arte non come un valore autonomo, ma ispirato a precisi valori politici e a nobili idee morali. In altre parole, la teoria estetica del Juche nazionalizza e politicizza l’esperienza estetica.
I fondamenti di tale teoria sono stati espressi da Kim Il-sung e parallelamente dal figlio, Kim Jong-il, attraverso una nutrita serie di opere letterarie e testi precettistici a essi attribuiti. Ad esempio, The flower girl (1972), tra i film nordcoreani più famosi (modello per quelli a venire) e che meglio esprimono l’ideologia del Juche, è un adattamento cinematografico di un’opera di Kim Il-sung. La storia è ambientata nel periodo coloniale e racconta di una famiglia ridotta in povertà assoluta e del tutto dipendente, come altri compaesani, da due spietati coniugi giapponesi. Protagonista è una giovane ragazza che si prende cura della sorellina cieca e della madre inferma vendendo mazzi di fiori al mercato. Dopo la morte della madre a seguito di crudeli vessazioni, la ragazza deciderà di partire alla ricerca del fratello, arrestato qualche anno prima per aver tentato di ribellarsi ai tenutari. La ricerca non produrrà risultati e nel frattempo le cose si metteranno sempre peggio, fino al colpo di scena finale in cui il fratello, nel frattempo arruolatosi nell’Armata Rivoluzionaria, farà la sua ricomparsa convincendo la gente assoggettata a ribellarsi e a riconquistare la libertà perduta.
Un motivo che contraddistingue i personaggi oppressi in The flower girl è la ricorrente esaltazione delle loro virtù e dignità, nonostante le umiliazioni subìte. In una scena del film, ad esempio, la sorella cieca, dopo essere stata umiliata in piazza da una folla che le lancia addosso delle monete per incitarla a cantare, viene severamente rimproverata dalla protagonista. Non importa che lei sia lì per raccogliere i soldi che servono a comprare le medicine per la madre malata, umiliarsi di fronte al nemico non è ammissibile: «Siamo poveri, non mendicanti!». Quella narrata, insomma, non è solo la storia di una giovane fioraia e della sua sfortunata famiglia, ma è la parabola di un popolo intero che si è ribellato al suo nemico spietato mantenendo intatti il proprio onore e la dignità: «Questa è la tragedia di una nazione senza Stato, la tragedia di una nazione caduta in rovina» dirà il fratello alla protagonista. E alla fine gli ultimi versi di una canzone risuoneranno come un vero e proprio inno alla libertà: «Fioriscono i fiori rossi della rivoluzione!».
Tuttavia, il testo che ci fornisce maggiori indicazioni sulla teoria estetica nordcoreana è senza dubbio il Trattato sull’arte (1991) di Kim Jong-il, «the mastermind of the propaganda machinery».22T. Jeppesen, Norko Realism, «Art in America», 29 May 2014.
In questa sua massima cogliamo l’inclinazione specificamente antropocentrica del Juche e della sua teoria estetica: «La bellezza è negli esseri umani autonomi e indipendenti»;33Kim Jong-il, On Fine Art, Foreign Languages Publishing House, Pyongyang 1991, p. 2. La traduzione in italiano di questo e dei successivi passi della medesima opera sono state realizzate dal sottoscritto a partire dalla versione in lingua inglese ufficiale.
ciò significa, come ha notato David-West44Cf. A. David-West, North Korean Aesthetic Theory: Aesthetics, Beauty, and “Man”, «The Journal of Aesthetic Education», Vol. 47, No. 1, University of Illinois Press (Spring 2013), pp. 104-110.
, che non c’è bellezza senza l’essere umano. L’estetica nordcoreana, infatti, definisce il bello come «quei fenomeni e oggetti, colti emotivamente dall’uomo, che soddisfano il desiderio umano di indipendenza» e come «definizione qualitativa di oggetti e fenomeni che si esprimono nelle loro relazioni con l’uomo». Del resto, stando alle parole dell’ormai defunto leader, «l’uomo è l’essere più potente e bello del mondo»55Kim Jong-il, cit., p. 9.
, in grado di generare bellezza nella società e nella natura.
Spostandoci dalla teoria estetica alla sua messa in pratica, la bellezza dell’uomo, nelle arti, si ottiene quando ‘bellezza ideologica’ e ‘bellezza plastica’ (ottenuta, quest’ultima, seguendo criteri di equilibrio, simmetria, ritmo, proporzione ecc.66Cf. Ibid., p. 17.
) coincidono in armonia.
Ed è proprio sulla base di questa armonia che si fonda lo stile artistico ufficiale della Corea del Nord: il Norko Realism.
Norko Realism
Quando si parla di stile ufficiale nordcoreano si è soliti usare l’espressione generica di Realismo Socialista, stile sviluppato a partire dagli anni ’20 del XX secolo nei Paesi dell’ex URSS e definito da una serie di caratteri specifici tra cui (in breve):
a) rappresentazione realistica e figurativa della realtà (media principali: pittura, scultura e video nel cinema);
b) esaltazione del proletariato, del partito e degli ideali promossi dalla Rivoluzione;
c) visione ottimistica della società comunista con attenzione a scene di vita quotidiana.
Tale espressione, tuttavia, come notato da T. Jeppesen, applicata in toto all’arte nordcoreana rischia di dirci poco o nulla rispetto a ciò che essa, agli atti, rappresenta. Infatti: «This is a socialist, yet also ultranationalist, ‘realism’ that belongs strictly to the Korean people north of the 38th parallel, and cannot be understood apart from their ideology-infused quotidian life, which has existed for a relatively brief span of time».77Jeppesen, ci
È per questo motivo che prenderò qui in prestito l’espressione, coniata da Jeppesen, di «Norko Realism» (North Korean Realism), per definire quel complesso pattern di elementi e aspetti che contraddistinguono l’arte contemporanea del Paese.
Innanzitutto, parlare di «arte nordcoreana» significa riferirsi soprattutto ad architettura, pittura, scultura, letteratura (in specie il genere del graphic novel) e altre espressioni artistiche performative (opera, canto, danza). Fotografia, videoarte e installazioni, come le conosciamo, non sono diffuse. Mentre cinema e altre forme di intrattenimento (ad esempio questa) hanno largo seguito nel Paese.
Il Norko Realism è fortemente connotato, codificato e riconoscibile. Vi si distingue, a una prima osservazione, una forte spinta propagandistica e ultranazionalistica, accompagnata a una ricerca di equilibrio e armonia formali. In linea con i princìpi espressi nella teoria estetica ufficiale ispirata al Juche, il Norko Realism, in tutte le sue espressioni, celebra la grandezza della Nazione, della sua leadership e del popolo nordcoreano, in contrapposizione alla meschinità e ai cattivi costumi delle nazioni nemiche. Insomma, «In Norko Realism, the dream of purity and greatness never die»88Jeppesen, cit.
.
La principale fucina che plasma e veicola questi codici estetici e morali è il Mansudae Art Studio. Fondato a Pyongyang nel ’59, il Mansudae è un gigantesco laboratorio artistico di circa 120.000 m² che ospita più di 1000 artisti – scelti nelle migliori accademie del Paese – 3000 assistenti e operatori vari. Al suo interno si trovano dipartimenti di pittura, scultura, xilografia e ricamo. Tra le varie opere monumentali realizzate troviamo il Monumento al Partito del Lavoro e le Statue di Kim Il-sung e Kim Jong-il, a Pyongyang, e il Monumento al Rinascimento africano, a Dakar (il Mansudae infatti invia i propri artisti, soprattutto in Africa, come manodopera a basso costo per realizzare opere imponenti). Tra la produzione più comune troviamo invece soprattutto tele e sculture di varie dimensioni, con una propensione per i grandi formati. Un posto a sé lo ricoprono i manifesti politici, che non rientrano tra le ‘belle arti’, ma la cui produzione e diffusione (soprattutto tra i compratori occidentali) sono così intense da farne una delle forme espressive più popolari e interessanti della Corea.
Come riporta il sito dell’organizzazione, la pittura a olio, fiore all’occhiello dell’arte contemporanea nordcoreana, è arrivata nel Paese soltanto nel XIX secolo, e praticata dal Mansudae alcuni anni dopo la sua fondazione, previa approvazione da parte di Kim Il-sung. Come accadeva nel Realismo Socialista, anche qui siamo di fronte a una rappresentazione realistica e figurativa della realtà, che mostra: scene di vita sociale e quotidiana, ritratti celebrativi di figure prototipiche (es. La sposa, Le aviatrici, I marinai ecc.) e autorità (si pensi che in ogni edificio pubblico si trovano i ritratti dei due ex dittatori, che al solo Mansudae è concesso di realizzare), scene del mondo naturale (paesaggi e nature morte).
Ma è proprio nella pittura di paesaggio che si registra lo scarto più ampio tra Realismo Socialista e Norko Realism. Nel primo, i paesaggi, che nell’arte nordcoreana sono largamente attestati, hanno un’incidenza minima. Per di più, secondo Jeppesen, i paesaggi del Norko Realism condividerebbero, con i manifesti politici e i ritratti delle autorità, il fine propagandistico. Osservando ad esempio Hae Keum River, un dipinto di Kim Song-gun, tra i più famosi pittori di paesaggi del Paese, vediamo delle onde violentissime rifrangersi contro gli scogli. A proposito del dipinto scrive Jeppesen: «Kim’s dramatic waves may pound relentlessly – just like the DPRK’s enemies, be they the United States or the natural disasters […] – but the land, the One True Korea, will always remain solid and strong, even in the face of the greatest adversity».99Ibid.
Ora, se pensiamo che questo stesso dipinto ha fatto da sfondo a una celebre fotografia che ritrae Bill Clinton – in visita in Corea del Nord per chiedere il riscatto di due giornaliste statunitensi accusate di spionaggio – insieme a Kim Jong-il e ad alcuni delegati, l’ipotesi di Jeppesen non è poi così azzardata. In una nazione che in tutte le arti e attraverso i propri mezzi di comunicazione continua a celebrare se stessa, la sua rinascita, persino un semplice paesaggio può diventare una non troppo contorta allegoria della propria grandezza. E per tentare di comprendere ulteriormente quanto incida, nella cultura nordcoreana, questo sentimento ultranazionalista, sarà utile infine soffermarsi su un altro fenomeno, questa volta letterario, in grado di ampliare il quadro a disposizione.
Graphic novel
In Corea del nord, ogni opera letteraria, prima di venire pubblicata, dev’essere approvata da un’apposita commissione che ne stabilisca l’idoneità. Come per le altre forme artistiche, naturalmente anche la letteratura ha una funzione specificamente didattica, così come leggiamo in un trattato sull’argomento di Kim Jong-il:
«La letteratura è un ottimo strumento per fornire al popolo un’educazione culturale ed emotiva, così come una potente arma per la loro educazione politica e ideologica e per la loro conoscenza della vita».1010Kim Jong-il, On Juche Literature, Pyongyang, Foreign Languages Publishing House, 1991, p. 17. Anche qui, la traduzione in italiano è realizzata dal sottoscritto a partire dalla versione inglese ufficiale.
Lo scopo rimane quello di veicolare i princìpi espressi dal Juche.
Un genere molto amato nel Paese è quello del graphic novel, egualmente popolare tra lettori giovani e adulti. All’interno di questa fitta produzione troviamo un limitato numero di argomenti trattati, tra cui il più attestato è quello sulla Guerra di Corea. Di particolare interesse sono le storie, pensate per un pubblico giovane, nelle quali si svolge allegoricamente un conflitto tra due opposte fazioni: animali buoni da un lato (conigli, scoiattoli, cani, gatti ecc., che rappresentano sempre il popolo nordcoreano) e bestie feroci dall’altro (volpi, sciacalli, non a caso aquile, se pensiamo al simbolo USA ecc.). I protagonisti sono antropomorfi, parlano e si comportano come esseri umani, imbracciano fucili e combattono guerre. La polarizzazione tra buoni e cattivi è netta e a tratti caricaturale, ottenuta per iperbole: ai buoni sono associati tratti grafici ed espressioni comportamentali attinenti all’orizzonte della cuteness. Sono dolci e amichevoli, piacevoli alla vista. I cattivi, invece, mantengono sempre sembianze sgradevoli. Un personaggio che appartenga a una delle due categorie vi rimarrà dall’inizio alla fine, senza alcuno sviluppo psicologico: una donnola (cattiva) potrà anche camuffarsi da riccio (buono), ma non saprà mai comportarsi onestamente, perché la sua malvagità è innata, è una questione ereditaria. E a tal proposito, in un’ottica più ampia, J. Zwetsloot ha giustamente notato: «Juche literature has but one purpose: to reinforce that message that the Korean people are innocent and virtuous».1111J. Zwetsloot, Visual Metaphors in North Korean Graphic Novels for Children, «Global Politics Review», vol. 2, no. 1, April 2016, p. 73.
E ancora: «These graphic novels, which might appear to outsiders to have little to do with real life, work to reinforce the Juche worldview of a pure Korean race always under attack by bestial foreigners».1212Ivi, p. 76.
Ancora una volta è la tendenza ultranazionalistica del Juche, insita nella tradizione nordcoreana e nel programma politico della dinastia Kim, a modellare l’espressione culturale e i codici linguistici del Paese.
Certamente, a un occhio occidentale – come si diceva all’inizio – la cultura e l’arte nordcoreane appariranno più conformi a uno spirito novecentesco che non a un’epoca mobile e iperconnessa come quella che stiamo vivendo. Tuttavia, sarebbe un errore liquidare una simile produzione artistica e culturale come semplicemente reazionaria e propagandistica, perché ciò presupporrebbe una visione progressista della storia e, conseguentemente, un declassamento delle culture altre come rozze e arretrate. Il fenomeno va invece inserito e studiato nel suo contesto. L’arte contemporanea nordcoreana è la fedele rappresentazione della cultura e società in cui si sviluppa: incredibilmente chiusa, immobile e contraddittoria, ma non per questo meno grandiosa.
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Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
R. Collins, Marked for Life: Songbun. North Korea’s Social Classification System, «The Committee for Human Rights in North Korea, Washington DC 2012.
A. David-West, North Korean Aesthetic Theory: Aesthetics, Beauty, and “Man”, «The Journal of Aesthetic Education», Vol. 47, No. 1, University of Illinois Press (Spring 2013), pp. 104-110.
Human Rights Council, Report of the commission of inquiry on human rights in the Democratic People’s Republic of Korea, 7 February 2014 (online download).
T. Jeppesen, Norko Realism, «Art in America», 29 May 2014.
N. Sayej, L’arte nordcoreana del Mansudae, «Vice», 31 Oct. 2013.
H. Tanaka, North Korea: Understanding Migration to and from a Closed Country, «Migration Policy Institute», 7 Jan. 2008.
J. Zwetsloot, Visual Metaphors in North Korean Graphic Novels for Children, «Global Politics Review», vol. 2, no. 1, April 2016, pp. 65-82.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.