La cura dell’anormalità
Nel testo Il punto di svolta il fisico Fritjof Capra si cimenta nella descrizione del paradigma biomedico, descrivendo l’influenza del pensiero cartesiano sullo sviluppo dei modelli delle scienze biologiche e delle scienze mediche dall’età moderna in poi. La netta distinzione tra corpo e anima teorizzata dal filosofo francese e la conseguente visione del corpo umano come una macchina perfetta, in cui la corretta organizzazione degli elementi corrisponde a uno stato di salute, condiziona e articola l’epistemologia della medicina. Descrivendo i rapidi progressi nel campo della fisiologia e della biologia, Capra mostra come la medicina, fedele a un approccio riduzionista, sviluppi gradualmente l’idea per la quale una malattia sia causata da un singolo fattore, in perfetto accordo con la teorizzazione cartesiana degli organismi viventi intesi come macchine, i cui guasti possono essere ricondotti al cattivo funzionamento di un singolo meccanismo. Applicando questa concezione alla scienza psichiatrica, gli psichiatri hanno concentrato il loro sforzo sul ritrovamento di cause organiche per i disturbi psichici. Tale approccio parziale per la cura delle malattie mentali, che elude l’influenza di fattori ambientali ed esperienziali nella costituzione del disagio psichico, fu messo in discussione già alla fine dell’Ottocento, in particolare con il celebre contributo di Freud che sviluppò un approccio dinamico per intendere la psiche, che avrebbe poi portato allo teorizzazione della psicoanalisi.
L’apparizione dei farmaci psicoattivi all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento ha portato allo sviluppo di un’ampia gamma di psicofarmaci, in particolare tranquillanti e antidepressivi. L’utilizzo dei farmaci in luogo delle tecniche coercitive utilizzate negli ospedali neuropsichiatrici rese possibile il trattamento di molte persone come pazienti ambulatoriali. Come fa notare giustamente il fisico:
«L’entusiasmo per questi successi iniziali oscurò per qualche tempo il fatto che gli psicofarmaci, oltre ad avere una vasta gamma di effetti collaterali pericolosi, controllano i sintomi ma non hanno alcun effetto sui disturbi che li provocano».11Capra, F., Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 111.
I disturbi della mente, ridotti a fenomeni molecolari, sono trattati con l’obiettivo di eliminare il sintomo o ridurre il meccanismo che causa il disagio. Riducendo le funzioni biologiche ai meccanismi molecolari, i fenomeni sono analizzati in modo parziale, eludendo gli aspetti che esulano da una concezione meramente meccanicistica, quantitativa e misurabile. In tal senso si opera individuando un disturbo e sviluppando un rimedio corrispondente, che agisce sul sintomo individuato senza tuttavia risolvere o porsi l’obiettivo di risolvere le cause che generano il problema.
Lo scopo della psichiatria è il raggiungimento e il mantenimento della salute mentale da parte del paziente. In tal senso, la disciplina opera per curare e riabilitare le persone affette da malattie e/o disturbi relativi al funzionamento del cervello e, quindi, della mente. Sorge immediatamente un problema di definizione: che cos’è la malattia mentale? La nozione di malattia o patologia mentale porta con sé numerose problematiche politiche, sociali, etiche, e numerosi sono stati gli intellettuali – da Canguilhem a Foucault in filosofia, da Basaglia a Szasz in psichiatria – che hanno tentato di mettere in evidenza le aberrazioni prodotte dall’intricato rapporto tra medicina e potere. In questo frangente si colloca il presente scritto, ed esamina nello specifico le tecniche di cura sperimentate dalla psichiatria tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Novecento. In particolare, si sofferma sullo sviluppo di due pratiche: la lobotomia e la terapia psichedelica. Entrambe sistematizzate tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, registrarono un fugace momento di gloria per poi estinguersi in meno di vent’anni, efficacemente sostituite dalla terapia farmacologica.
L’analisi delle due storie, quella della lobotomia e della terapia psichedelica, mostra diverse sfaccettature del rapporto tra medicina e potere. In primo luogo, fa emergere come esista un peso sbilanciato tra stampa popolare – quotidiani locali e nazionali, televisione, documentari – ed editoria scientifica nell’influenza dell’informazione comune e nel condizionamento della regolamentazione legislativa delle tecniche di cura. Poiché la letteratura scientifica è prodotta da esperti del settore, ci si aspetterebbe che le politiche statali concernenti la sanità prendessero principalmente in considerazione questa tipologia di scritti. Il periodo storico preso in esame mostra, invece, come la stampa popolare abbia avuto un ruolo decisivo nella diffusione di un preciso immaginario nell’opinione pubblica, che ha agito da sfondo per le riforme legislative in materia di salute mentale. In secondo luogo, lobotomia e psichedelia permettono di esaminare nel dettaglio la problematica definizione di malattia mentale, e di vedere come si sia sviluppato il modello secondo il quale quest’ultima corrisponda a uno squilibrio biochimico. L’indagine di quest’epoca pre-farmacologica nel trattamento della mente umana mostra efficacemente come il paradigma biomedico sia stato rinforzato, fortificato e reso effettivo dal progressivo instaurarsi del narcocapitalismo (che approfondirò successivamente).
Dall’altro lato, invece, le sostanze psichedeliche, la loro intrinseca modalità di funzionamento e azione sull’essere umano, sovvertono le dicotomie mente-corpo, dentro-fuori, anormale-normale, equilibrio-squilibrio.22Si veda a tal proposito Petrilli, E., Il risveglio dei sensi e la conoscenza carnale dei clubber. Verso una sociologia del corpo, «KABUL magazine», “Anatomia”, parte II, Dicembre 2020.
Agendo infatti specificamente sulla psiche, generano una situazione di “caos” che può essere assimilabile nel lessico medico a una crisi psicotica o schizofrenica. L’imprevedibilità e il potere generativo che queste sostanze dischiudono mostrano come l’essere umano possa agire manifestando modalità di esistenza, percettive e sensoriali molto più ampie di quelle che l’esperienza comune permette, in contrasto con le regole del vivere sociale. In tal senso, analizzando come sono state approcciate da parte della comunità scientifica ieri e oggi, sarà possibile guardare ai molteplici rapporti di forza in gioco quando si tratta di strutturare una politica efficace per la cura dei disturbi mentali.
Tagliare cervelli. Nascita e diffusione della lobotomia tra Europa e Stati Uniti
Gli anni Trenta sono il periodo storico nel quale la lobotomia fu sistematizzata, diffusa e massivamente adoperata per circa un ventennio. Per comprendere come una tecnica di cura così invasiva, dolorosa e spesso mortale sia stata non soltanto caldeggiata, ma anche ampiamente pubblicizzata e promossa dalla comunità psichiatrica e neurologica, è necessario aver presente il quadro politico-sociale in cui si è strutturata la politica della salute mentale in questo periodo storico.
L’istituzionalizzazione dei manicomi avvenne in Europa e negli Stati Uniti all’inizio dell’Ottocento, quando si decise a livello politico in diversi stati occidentali di prendere dei provvedimenti per la cura delle malattie mentali. Nel corso del secolo il numero di internati negli ospedali crebbe esponenzialmente. Per poter entrare in un ospedale psichiatrico o neuropsichiatrico, il paziente doveva essere definito “insano”. Chi erano questi individui? Normalmente erano ritenuti insani tutti coloro i quali manifestavano dei comportamenti non conformi all’ordine sociale. In tal senso, vi era alla fine dell’Ottocento una minima e quasi inesistente distinzione tra “lunatico” e “pericoloso”, tra chi era ritenuto motivo di imbarazzo per la famiglia – e quindi internato con il benestare di familiari e medici – e chi manifestava disagi psichici. All’interno delle strutture era dunque possibile trovare un eterogeneo gruppo di individui: isteriche, invertiti sessuali, psicotici, melanconici, lunatici, mongoloidi, cretini, dementi, maniaci, furiosi e, naturalmente, folli. Sarebbe interessante rintracciare l’etimologia di tali sostantivi per comprendere come si è evoluta la stigmatizzazione di ciascuna di queste figure, ed è necessario ricordare come gli ospedali fossero altresì popolati da criminali, orfani, poveri, caduti in disgrazia e reduci di guerra. Il crescente numero di comportamenti sociali ritenuti difformi in virtù di una concezione di “normalità” sempre più puntuale elaborata a fine Ottocento; la necessità di inquadrare e differenziare le varie tipologie di malattie mentali grazie alla sistematizzazione di discipline quali la neurologia, la psichiatria, la psicologia e l’antropologia; la messa a punto di un sistema antropometrico stabile per rintracciare le caratteristiche fisiche dei criminali e i relativi protocolli nati in seno all’istituzionalizzazione dei corpi di polizia preposti all’ordine pubblico; e, infine, con l’affacciarsi del nuovo secolo, i milioni di reduci dal fronte, i sempre più numerosi minori orfani, le centinaia di donne sole e senza un’entrata economica; l’insieme di tutti questi diversi fattori fecero sì che all’inizio del Novecento gli ospedali psichiatrici non riuscissero più a contenere il numero spropositato di persone internate. Il problema non era soltanto di ordine sociale ma soprattutto politico, anche perché nella maggior parte dei casi chi entrava in queste strutture ne usciva solo da morto (era molto raro un reale reinserimento all’interno della società), e questo si traduceva in una spesa economica difficile da sostenere a livello governativo.
All’inizio degli anni Trenta il sovraffollamento portò a un peggioramento delle condizioni delle strutture, e il costo di queste istituzioni era divenuto insostenibile per la maggior parte degli stati. Al contempo, all’interno della disciplina psichiatrica si stava consumando un acceso dibattito inerente i due orientamenti più accreditati per la cura delle malattie mentali: l’approccio funzionale nato in seno alle teorie di Freud e di altri teorici concordi, e l’approccio somatico di Kraepelin. Non vi era all’epoca un paradigma stabile secondo cui operare, e prima dell’invenzione della lobotomia le principali cure per quelle che erano considerate patologie mentali erano la terapia del sonno profondo indotta con i barbiturici, e lo shock da insulina, poi “perfezionato” da Ugo Cerletti con l’invenzione della terapia elettroconvulsivante (ECT). In breve, le cure erano poche, dolorose e inefficienti per la maggior parte dei disturbi, la situazione politica e sociale era grave e necessitava di un’urgente riforma del sistema, la comunità scientifica era divisa e le malattie mentali sembravano essere uno stigma senza speranza che colpiva sempre più individui. In questo clima sconfortante apparve una tecnica che prometteva di rimuovere permanentemente i sintomi della psicosi, indurre la calma e permettere ai pazienti di reintegrarsi nella società. Non c’è da stupirsi, dunque, se la controversa tecnica della lobotomia fu proposta, migliorata e applicata su centinaia di persone in meno di cinque anni, e se negli anni quaranta arrivò a essere eseguita su migliaia di pazienti.
Sono tre i protagonisti principali di questa infausta stagione definita “psicochirurgia”: il portoghese Edgar Moniz, l’italiano Amarro Fiamberti e lo statunitense Walter Freeman. La scelta delle tre figure è paradigmatica per comprendere come il successo delle tecniche di cura sia intrinsecamente legato alle biografie delle personalità che la diffusero: i tre neuropsichiatri non furono gli unici a operare questa tipologia di intervento, ma furono i più fervidi sostenitori e diffusori della pratica.
Il costrutto teorico alla base di questa operazione sul cervello si fondava sull’idea per la quale, in una vasta gamma di disturbi, il problema fosse dovuto a un pensiero che dominava l’attività psichica, radicandosi nelle reti neurali. Recidendo le connessioni neurali interessate dal pensiero morboso, si sarebbe estirpato – letteralmente – il problema alla radice. Gli studi storici evidenziano come Moniz non fu il primo a pensare di recidere i lobi frontali per curare le malattie mentali, ma fu sicuramente il primo a promuovere i propri risultati su riviste scientifiche e a condurre operazioni davanti a un pubblico di specialisti. Gli interventi erano supervisionati da Moniz e condotti dal neurochirurgo Almeida Lima. L’inconveniente della leucotomia – sinonimo di lobotomia –, ideata dal medico portoghese, risiedeva nei lunghi tempi della procedura e nel numero di figure richieste per condurre l’operazione: uno psichiatra, un anestesista e un chirurgo. Nel 1936 Moniz presentava i risultati della lobotomia su 20 pazienti all’Accademie Medicale de Paris, l’anno seguente aveva già pubblicato 13 articoli, una monografia e un libro. I risultati riportati in questi scritti e alle numerose conferenze internazionali cui partecipò non presentavano dati oggettivi né follow-up certi sull’efficacia della procedura. Nonostante questo, si diede a pubblicare di gran lena centinaia di pagine sui possibili vantaggi della lobotomia in ambito psichiatrico, e fu proprio questa insistenza a renderlo nel giro di pochi anni una delle voci più autorevoli in materia. Vi è altresì un altro dato da tenere in considerazione: all’epoca Moniz era già sulla sessantina, e non aveva ancora raggiunto il sogno nel cassetto di vincere un Nobel. Ci aveva provato anni prima, quando aveva messo a punto una tecnica per l’angiografia cerebrale, ma non era riuscito nel suo intento. Alla fine degli anni Trenta, il portoghese era membro del parlamento, delegato portoghese alla conferenza internazionale di Parigi dopo la Prima guerra mondiale e capo del dipartimento di Neurologia dell’Università di Lisbona. Quando nel giro di qualche anno la tecnica della lobotomia si diffuse con incredibile rapidità, stavano già circolando sulle riviste scientifiche diverse proposte per migliorare il grezzo sistema da lui proposto per recidere i nervi del lobo frontale. Proprio per questo, lo psichiatra sollecitò la sua candidatura al nobel presso personalità molto influenti, chiese ai colleghi di diffondere il suo lavoro su riviste specializzate, presentò i propri risultati in centinaia di conferenze internazionali. Grazie a questo insistente e capillare lavoro politico, nel 1949 il comitato del premio assegnò il Nobel per la medicina e la fisiologia a Edgar Moniz, coronando finalmente il recondito sogno di gloria del medico portoghese.
Nel 1937, Amarro Fiamberti diventava direttore dell’ospedale neuropsichiatrico di Varese. A quel tempo, il medico stava conducendo i suoi promettenti studi sulle terapie di shock con alcool. La presentazione della lobotomia alla comunità scientifica incuriosì immediatamente lo psichiatra, che si diede a cercare un modo per migliorare la tecnica proposta da Moniz. Nel corso del 1937, Fiamberti mise a punto una procedura simile ma più semplice e accessibile: ideò uno speciale leucotomo33Strumento chirurgico utilizzato per eseguire leucotomie.
che passava direttamente attraverso il bulbo oculare raggiungendo il lobo frontale, evitando di trapanare il cranio. La facilità di esecuzione della lobotomia transorbitale – così venne nominata – permetteva di praticare l’intervento riducendone l’invasività chirurgica. Nel 1938 lo strumento in lamina d’oro fu presentato alla comunità psichiatrica e ben presto sostituì la leucotomia tradizionale, apparsa in Portogallo soltanto due anni prima.
Fiamberti diresse l’ospedale di Varese dal 1937 al 1963. In questo arco temporale si diede a pubblicizzare la leucotomia transorbitale attraverso diversi canali, inclusi articoli di giornale, realizzazioni di film scientifici, pubblicazioni scientifiche, partecipazioni a conferenze internazionali. Membro autorevole del partito fascista, Fiamberti sognava fama e celebrità, e questo desiderio lo spinse a sperimentare massivamente le due terapie più accreditate al tempo: la terapia con alcool e la lobotomia. Dal 1937 al 1963 presso l’ospedale di Varese più di seicento pazienti furono leucotomizzati, tra questi, più di cento risultano deceduti durante o dopo l’operazione. Lo psichiatra era consapevole della debolezza teorica che stava alla base dell’intervento, tuttavia, come il collega portoghese, riteneva più importante l’esperienza dei risultati positivi. Lo scambio scientifico con Walter Freeman e l’adozione da parte di quest’ultimo del leucotomo modificato garantirono a Fiamberti la celebrità tanto agognata e, alla fine della sua carriera da psichiatra, divenne consigliere provinciale nelle liste del Partito liberale Italiano, occupandosi di temi riguardanti l’assistenza psichiatrica.
Nel 1936, all’indomani dei primi “promettenti” risultati di Moniz, negli Stati Uniti lo psichiatra Walter Freeman e il neurochirurgo James Watt sperimentavano la lobotomia su venti pazienti. I risultati di queste prime operazioni furono, secondo i medici, fallimentari. Era molto difficile eseguire l’operazione all’interno del lobo frontale con precisione senza recidere per errore altri nervi, toccare la materia grigia o provocare emorragie cerebrali che nella maggior parte dei casi portavano alla morte del paziente. Coloro che riuscivano a uscire indenni dall’operazione, dopo un breve periodo di apparente sollievo, manifestavano pesanti ricadute: convulsioni, apatia, confusione, scarsa attenzione – sintomi in seguito identificati come “sindrome del lobo frontale”. Sebbene i primi risultati fossero scoraggianti, Freeman non si diede per vinto e tentò di migliorare la procedura. A tal fine, la tecnica messa a punto da Fiamberti fu risolutiva per lo psichiatra statunitense: il leucotomo modificato dischiudeva la possibilità di interventi più precisi e puntuali, riduceva incredibilmente i tempi dell’operazione – che poteva durare soltanto 20 minuti – e dava la possibilità di eseguire la lobotomia in maniera più celere e – a giudizio del medico statunitense – efficace. Con questa nuova convinzione e senza la necessità di essere supervisionato da un neurochirurgo, Freeman si diede a visitare centinaia di ospedali psichiatrici per testare e mettere a punto la leucotomia transorbitale. Come il collega italiano, pubblicizzò massivamente la tecnica su quotidiani e riviste popolari, e in pochi anni apparvero articoli su «Life», «Newsweek», «Time» e «New York Times». In questi scritti non veniva presentato alcun dato scientifico ma, al contrario, si utilizzava una retorica vincente e speranzosa rispetto alla possibilità di eliminare per sempre la maggior parte delle malattie mentali grazie a una semplice operazione che poteva essere condotta ovunque in tempi rapidissimi, anche da specialisti senza alcuna nozione di neurochirurgia. La tecnica ebbe una diffusione tale da essere praticata in moltissimi contesti anche non ospedalieri, come per esempio i motel.44Valenstein, E. S., Great and Desperate Cures, Basic Books, New York, 1986.
Nonostante il progressivo dissenso all’interno della comunità scientifica riguardo questa tipologia di intervento, Freeman continuò la sua crociata pro-lobotomia per circa un ventennio, nel corso del quale si stima che in America settentrionale tra gli anni Quaranta e Cinquanta furono lobotomizzate circa 40.000 persone, di cui 5.000 soltanto da Freeman.
Quasi trent’anni dopo, nel 1977, il Congresso degli Stati Uniti creò la Commissione Nazionale per la Protezione dei Soggetti Umani della Ricerca Biomedica e Comportamentale, che aveva il compito di indagare sui rapporti tra la psicochirurgia e la possibilità che fosse utilizzata per controllare il disordine e la pericolosità delle minoranze e per limitare i diritti individuali.
La storia sconosciuta di un archivio privato
Nella remota provincia insubre, precisamente a Ispra, sul Lago Maggiore, si trovano la biblioteca e l’archivio privato del professore ed ex psichiatra dell’ospedale neuropsichiatrico di Varese Giuseppe Armocida. Quando nel 1991, in seguito alla legge Basaglia, la struttura varesina venne chiusa, lo spazio venne impiegato per ospitare le diverse facoltà dell’Università dell’Insubria. La quasi totalità del materiale documentale inerente la storia dell’ospedale è stata smembrata e conservata in piccoli archivi provinciali, sebbene larga parte risulti dispersa. Il professor Armocida salvò dal macero moltissima documentazione, oggi conservata nel suo archivio privato.
Tra i documenti di Ispra, vi sono due faldoni inerenti la figura di Fiamberti, che quell’ospedale diresse per trent’anni. I dossier contengono il materiale più disparato, dalle carte private dello psichiatra alle cartelle cliniche dei pazienti, dalle lettere ricevute da amici e colleghi ai programmi delle conferenze cui aveva partecipato. Uno di essi, però, conserva una storia mai svelata. Il faldone contiene una raccolta di pagine di quotidiani provinciali e nazionali pazientemente ritagliate e incollate su fogli A3. Talvolta ornate da disegni, sottolineature a matita rossa, adesivi che ricordano quelli utilizzati dai bambini. Il minimo comune denominatore di queste pagine è il nome di Amarro Fiamberti (detto Mario). La raccolta di materiali a stampa copre un periodo temporale di vent’anni, e si estende dal 1948 al 1963. Grazie a questo nucleo archivistico, è possibile ricostruire oggi l’impegno profuso dallo psichiatra nel pubblicizzare e diffondere tra l’opinione pubblica l’idea che la lobotomia fosse la cura risolutiva per le malattie mentali.
L’artefice di questo singolare archivio non ha nome, non ha volto, non ha età. Non ha lasciato una firma, né un’iniziale, né un segno di riconoscimento. Da storica quale sono vorrei avere dati più attendibili di quelli che sto per riportare, ma non ho trovato nessun indizio su questa persona tra le carte d’archivio. L’unica notizia che si ha a riguardo è giunta al professor Armocida dal suo mentore, che lavorò nell’ospedale dagli anni Quaranta fino alla sua chiusura. Secondo questa fonte pare che l’’archivista misterioso fosse un paziente dell’ospedale che, a quanto riportato, si “innamorò” di Fiamberti. Non si sa quando arrivò nella struttura, quanto ci rimase, per quale motivo si trovasse lì, se e quando ne uscì. L’unico dato certo è che da un certo momento in poi – o forse appena arrivato – si diede a collezionare tutte le pagine di quotidiani in cui appariva il nome del medico e che – aggiunge il professore raccontandomi l’aneddoto, mentre io guardo esterrefatta questa raccolta di pagine per la prima volta – molto probabilmente era un maniaco ossessivo compulsivo.
“Un colpo di bisturi che restituisce il buonumore”
La raccolta di materiali a stampa collezionata dall’archivista misterioso colpisce innanzitutto per i titoli sensazionalistici degli articoli di giornale. “La scienza illumina di speranza l’oscuro quadro della follia”, “Qui si riparano cervelli avariati”, “Finalmente prende sonno dopo otto anni di spasmi”. E ancora: “Il bisturi che taglia la follia”, “A Varese rinsavito il 78% dei pazzi”. Su quest’ultimo foglio, l’archivista misterioso ha aggiunto un adesivo di una macchinina anni Trenta. Sull’«Unità» del 17 agosto 1950 campeggia a lettere cubitali: “Oggi, anche gli psichiatri usano il bisturi. Con la cura chirurgica della pazzia gli ossessi ritornano uomini normali”. Sottotitolo: “Il professor Mario Fiamberti e il suo sistema della ‘leucotomia transorbitaria’”. Il minimo comune denominatore di questa massiva comunicazione mediatica è l’idea che la malattia mentale risieda nel cervello, che uno psichiatra abbia il potere di rinsavire i pazzi e farli tornare normali, e che gli interventi avessero un’altissima percentuale di riuscita, addirittura il 78%. Il dato ivi riportato non corrisponde ad alcuna cifra statistica riscontrabile – per quanto il numero 78 possa far credere –, poiché questa casistica è, in realtà, smentita dalla documentazione privata dello psichiatra, in cui si scopre l’alto numero di decessi, il numero di pazienti mai riabilitati dopo la leucotomia e, anzi, peggiorati drasticamente, il numero di persone non soltanto leucotomizzate ma altresì sottoposte alla terapia di shock con alcool. A proposito di quest’ultima tecnica, il professor Armocida mi racconta di come le infermiere mentissero spudoratamente ai medici piuttosto che sottoporre i pazienti a quelle procedure, che provocavano tremendi dolori e convulsioni, e lasciavano il paziente in stato di terrore e confusione per ore dopo l’applicazione. Per essere efficace, la persona doveva essere sottoposta a terapia con alcool quattro volte al giorno. Proprio la terapia con alcool fu uno dei cavalli di battaglia di Fiamberti, che nel 1946 dedicava all’argomento una monografia. In questo libretto vi è un apparato iconografico significativo, in cui si mostrano 20 pazienti “prima” e “dopo” la cura con alcool. Nelle fotografie di sinistra – prima – il paziente è spettinato e posa davanti alla macchina fotografica in abiti ospedalieri, nella foto di destra – dopo – il paziente è pettinato e vestito in abiti civili, talvolta mostra un sorriso forzato, e l’inquadratura a mezzo busto è realizzata all’aperto, non davanti al muro dell’ospedale come le immagini di sinistra. La fotografia si qualifica in questo caso come prova documentaria inconfutabile che avvalora le statistiche e i dati della pubblicazione scientifica in cui sono inserite. In tal senso, l’immagine diventa uno strumento retorico e di persuasione dal grande impatto emotivo, che induce a “credere” più facilmente alla trattazione scritta dallo psichiatra in merito alle rivoluzionarie cure con alcool. Allo stesso modo, la capillare e continua pubblicizzazione della leucotomia su quotidiani provinciali e nazionali diffuse nell’opinione pubblica l’idea per la quale la medicina avesse finalmente trovato una cura risolutiva per le malattie mentali. Tenendo a mente l’altissimo numero di ricoveri che ancora negli anni Cinquanta occupavano le strutture neuropsichiatriche, è consequenziale e logico comprendere come la lobotomia sia stata concepita dalla popolazione come soluzione per risolvere la follia, e come le persone sperassero di poter aiutare i propri familiari affidandoli alle cure degli psichiatri. Gli articoli si succedettero senza sosta sui quotidiani fino all’inizio degli anni Sessanta. Nell’ultimo articolo della raccolta, datato 10 dicembre 1962, si legge:
«La psicochirurgia non si propone di curare la causa dell’una o dell’altra malattia, ma più semplicemente il sintomo, che in alcuni casi è rappresentato da stati di angoscia o di aggressività con tendenza, talvolta, al suicidio; in altri casi è costituito soltanto dal dolore».55Articolo di giornale incollato su foglio A4, “Un colpo di bisturi che restituisce il buonumore”, Settimo Giorno, 10 dicembre 1962, Cartella Fiamberti, Collezione Raccolte d’archivio, Biblioteca Armocida.
L’articolo prosegue illustrando i vari tipi di tecnica leucotomica, e celebra Fiamberti per aver inventato un metodo meno invasivo di quello messo a punto dal collega portoghese, grazie al quale il giornalista autore dello scritto poté titolare il suo articolo con toni vittoriosi: “Un colpo di bisturi che restituisce il buonumore”.
È interessante constatare come questa puntuale raccolta di materiali sia stata concepita da un individuo inquadrato – dalle autorità competenti del tempo – nella vasta categoria dell’anormalità. Tale modalità di esistenza, concepita come disfunzionale e patologica ha dato vita a una ricca e puntuale documentazione archivistica, opportunamente cronologizzata e ordinata. L’esempio dell’archivista misterioso dimostra come ciò che l’auctoritas medico-legale inquadra come individuo manchevole, dimezzato, esautorato dalla possibilità di vivere una vita piena, possa invece qualificarsi come modalità di esistenza produttiva, proattiva, generatrice. L’impossibilità di aderire a uno schema normativo stabile dischiude la possibilità di immaginare e operare dando vita a una creazione ordinata e sistematica. Il caos in questo caso genera ordine, dimostrando come la “normalità” non risieda nella natura umana come tratto costitutivo della personalità, ma sia piuttosto, come suggerisce Foucault, una tecnica utilizzata dalle istituzioni giudiziarie e psichiatriche al fine di neutralizzare gli individui inquadrati come pericolosi. «L’emergere del potere di normalizzazione, il modo in cui si è formato e si è installato […] senza fondarsi mai su di una sola istituzione, ma attraverso l’interazione tra istituzioni diverse ha esteso la sua sovranità nella nostra società».66Foucault, M., Gli anormali, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 50.
Reimpostare cervelli. La furtiva scoperta dell’acido lisergico e l’utilizzo nella ricerca psichiatrica
Nello stesso anno in cui Fiamberti presentava alla comunità scientifica lo strumento per condurre la lobotomia, in Svizzera il chimico Albert Hofmann sintetizzava per la prima volta l’acido lisergico, meglio conosciuto come LSD-25. Come lui stesso spiega nel suo libro LSD. Il mio bambino difficile, la scoperta degli effetti psicoattivi dell’LSD avvenne per caso cinque anni dopo quando, durante la fase di purificazione e cristallizzazione della sostanza, il chimico notò delle “insolite sensazioni” che lo indussero ad auto-sperimentare il composto su sé stesso. Ignaro dei potentissimi effetti psicoattivi, il 19 aprile 1943 Hoffmann ingerì 0,5 cc di soluzione acquosa contenente 0,25 mg di acido lisergico. L’altissima dose cui si sottopose inconsapevolmente il chimico fece sì che la prima esperienza psicoattiva con LSD venisse definita dal suo assistente un “misterioso esaurimento”, oggi conosciuto come “bad trip”. Nonostante questo, il giorno successivo all’assunzione della sostanza, Hoffmann descrisse nei suoi diari privati una sensazione di benessere e rinnovamento. La realtà sembrava avere colori più nitidi, i sensi vibravano in uno stato di estrema percettività, si ricordava perfettamente l’intera esperienza del giorno precedente.
«Questo esperimento dimostrò che l’LSD-25 era una sostanza psicoattiva con proprietà straordinarie. Non esisteva, che io sapessi, un altro farmaco che provocava effetti psichici così profondi a dosaggi così bassi, e in grado di determinare simili drammatici cambiamenti nella coscienza umana e nella nostra percezione della realtà esterna e interna».77Hoffmann, A., LSD. Il mio bambino difficile, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 22.
La prima ricerca svolta in una clinica psichiatrica con LSD fu coordinata da Werner A. Stoll. L’articolo scientifico che ne descrive i risultati fu pubblicato nel 1947, e il titolo presenta la sostanza come “fantastica”: Lysergsäure-diathylamid, ein Phantastikum aus der Mutterkorn-gruppe. Lo scritto metteva in relazione l’attività di sostanze presenti in dosi minime nell’organismo, considerate responsabili di alcuni disordini mentali, e l’attività dell’LSD. In seguito a questa prima fase di sperimentazione, la Sandoz, ossia la casa farmaceutica per cui lavorava Hoffmann, produsse un farmaco sperimentale denominato Delysid, realizzato in compresse da 0,025 mg o in fiale da 0,1 mg di acido lisergico. Come fa notare Hoffmann nel suo scritto, i benefici del Delysid erano diametralmente opposti a quelli degli psicofarmaci. Se questi miravano a coprire problemi e conflitti del paziente, l’LSD li faceva vivere in maniera più intensa. Grazie a questo vissuto, il paziente aveva la possibilità di verificare e discernere le proprie esperienze, lavorando su eventuali problematiche.
«I successi e l’opportunità della terapia psicoanalitica con l’impiego di LSD sono tuttora argomento di controversia all’interno della comunità scientifica. La stessa cosa potrebbe dirsi però delle altre procedure impiegate in psichiatria, quali l’elettroshock, la terapia insulinica o la psicochirurgia; questi metodi comportano un rischio maggiore rispetto all’uso dell’LSD, che date opportune condizioni, è praticamente privo di pericoli».88Ivi, p. 45.
Gli allucinogeni, ossia l’acido lisergico e la psilocibina (il principio attivo dei funghetti allucinogeni), furono utilizzati nella ricerca psichiatrica sperimentale per circa un ventennio, dall’inizio degli anni Quaranta alla fine degli anni Sessanta, quando gradualmente gli stati occidentali, a partire dall’America settentrionale, vietarono il possesso, la produzione e la circolazione della sostanza, interrompendo altresì i finanziamenti alla ricerca.
Nel corso degli anni Cinquanta, la prolifica sperimentazione clinica degli psicofarmaci stava gradualmente contribuendo a formare una nuova visione della psichiatria, disciplina la cui storia – da questo momento in poi – si legherà sempre più alla terapia farmacologica. Come fa notare lo psichiatra Thomas Szasz, il trionfo delle terapie farmacologiche è emerso come simbolo del progresso della tecnologia e della conoscenza medica, ponendo tuttavia le basi per un torbido e intricato rapporto tra psichiatria e interessi commerciali di un’industria farmaceutica che nel giro di vent’anni è diventata multimiliardaria, ostacolando di fatto le professioni psichiatrica e psicologica nella capacità di offrire alternative cliniche efficaci alla psicofarmacologia.
Sebbene l’LSD non riuscì ad affermarsi come prodotto farmacologico, l’utilizzo dello stesso per la cura dei disturbi mentali dimostra l’entusiasmo per la farmacologia nel periodo preso in esame. Proprio in virtù della natura della sostanza, che permette di vivere intense esperienze non programmabili e inaspettate, gli psichiatri che si sono occupati di mettere a punto terapie psichedeliche hanno sviluppato dei protocolli incentrati sulla capacità dei pazienti di svolgere un ruolo attivo nel processo di guarigione, anziché accettare passivamente le terapie somministrate dagli psichiatri. In tal senso, lungi dall’essere un concorrente degli psicofarmaci, l’LSD rappresentava una seria minaccia per la terapia farmacologica.
Le reazioni fisiche, mentali ed emotive all’assunzione dell’acido lisergico e della psilocibina erano motivo di grande interesse per gli psichiatri, che riscontrarono diverse similitudini tra il viaggio allucinogeno e le crisi psicotiche o schizofreniche. In virtù di questo, i medici credettero di aver trovato un nuovo modo per comprendere la patogenesi della schizofrenia. Si apriva così una prolifica prospettiva di ricerca per identificare la disfunzione chimica organica che causa le malattie mentali. Questo ambito, insieme a quello per la cura della dipendenza da alcool – inquadrata al tempo come patologia mentale – fu il terreno di ricerca più battuto e sperimentato nel ventennio preso in esame.
Centinaia di protocolli e terapie sperimentali si succedettero senza sosta e con incredibile rapidità in tutto il mondo occidentale. Nel volume Psychedelic Psychiatry. LSD from Clinic to Campus, la studiosa Erika Dyck ha ricostruito minuziosamente la storia della terapia psichedelica psichiatrica oltreoceano, focalizzandosi sugli studi condotti da Humphry Osmond a Saskatchewan, in Canada. Lo studio evidenzia come, in concomitanza al prolifico periodo di sperimentazione scientifica, l’LSD divenne nel giro di pochi anni una droga di consumo, e come proprio quest’ultimo utilizzo, malamente pubblicizzato nella stampa popolare, portò a una coatta demonizzazione della sostanza.
l’LSD passò dall’essere concepito da sostanza per uso medico a sostanza per uso ricreativo.
Negli anni Sessanta, il guru del movimento psichedelico Ken Kesey incoraggiava l’utilizzo di acido lisergico nei campus universitari statunitensi. Il rifiuto dell’autorità, del patriottismo e della morale borghese ben si sposava con la filosofia propugnata da Kesey, il quale vedeva nella psichedelia una nuova utopica possibilità del vivere sociale. Dopo aver scritto Qualcuno volò sul nido del cuculo, Kesey entrò volontariamente a far parte di un programma psichiatrico finanziato dalla CIA con utilizzo di LSD. Le posizioni anti-psichiatriche emerse in seguito al clamoroso successo del libro e l’arresto di Kesey da parte dell’FBI diffusero nell’opinione pubblica l’idea che l’utilizzo di psichedelici fosse sbagliato dal punto di vista medico e pericoloso dal punto di vista ricreativo. All’incirca nello stesso periodo, sempre negli Stati Uniti, divenne celebre un altro guru del movimento psichedelico: Timothy Leary, altresì conosciuto come iniziatore del movimento hippy. Leary non era una persona qualunque, bensì un ex professore di psicologia dell’Università di Harvard. Le sue posizioni anti-establishment e anti-borghesi ben si sposavano con la promozione degli allucinogeni e la diffusione di un nuovo movimento spirituale: la League of Spiritual Discovery, il cui acronimo era LSD. Tra gli anni Sessanta e Settanta, grazie a una capillare campagna mediatica su quotidiani regionali e provinciali condotta dallo stesso Leary, in California si formò un vastissimo mercato nero di allucinogeni – acido lisergico e psilocibina – utilizzati non soltanto dai ricchi universitari di Stanford e Harvard, bensì diffusi in tutti gli strati della società. La massiva sponsorizzazione della sostanza come portale di accesso per un nuovo stato di coscienza mancava tuttavia di menzionare gli effetti collaterali e le istruzioni per un corretto utilizzo.
Al contempo, l’attivismo politico sotto forma di movimenti per i diritti civili, il femminismo, i movimenti degli Indiani d’America, la Rivoluzione silenziosa del Quebec e, più tardi, le proteste contro la guerra in Vietnam, dimostravano come un’intera generazione di giovani americani auspicasse a un radicale cambiamento della società. Il consumo di marijuana e di LSD divenne un importante segno distintivo della loro identità collettiva. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, dunque, l’LSD passò dall’essere concepito da sostanza per uso medico a sostanza per uso ricreativo di una particolare categoria di persone, poco inclini ad accettare le norme del sistema vigente.
Sempre dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti e in Canada in ambito militare furono condotti diversi esperimenti con allucinogeni per mettere a punto “sieri della verità” o per definire le tecniche di interrogatorio per le spie. Alla fine degli anni Ottanta fu reso noto il risarcimento riconosciuto a degli ex pazienti psichiatrici dell’Allen Memorial Hospital di Montréal, sottoposti involontariamente a esperimenti con LSD dallo psichiatra Ewen Cameron, il quale eseguiva ricerche per il programma MKUltra finanziato dalla CIA. L’evento divenne un caso nazionale in Nord America. Massivamente pubblicizzato sulla stampa e in tv, divenne il soggetto di un libro e di un film – The Sleep Room –, rafforzando nell’opinione pubblica la correlazione tra LSD e cospirazionismo, LSD e perdita della consapevolezza, LSD e ricerca psichiatrica condotta senza il consenso informato.
Questi episodi contribuirono a formare una precisa idea tra i cittadini degli stati occidentali delle sostanze psicoattive. Se alla fine degli anni Quaranta l’acido lisergico e la psilocibina erano sconosciuti ai più, alla fine degli anni Settanta, in seguito all’arresto di Leary, alla massiva campagna mediatica di stampa e televisione, ai numerosissimi incidenti avvenuti a causa di un uso smodato e sconsiderato delle sostanze, alla pubblicazione degli esperimenti della CIA; l’LSD era universalmente riconosciuto nei paesi occidentali come sostanza pericolosa, utilizzata da persone poco raccomandabili o dai militari con fini cospirazionisti e illeciti.
Il 30 maggio 1966 i governatori di Nevada e California firmano le leggi per il controllo dell’LSD, rendendo i due stati i primi a rendere illegale la produzione, la vendita e il possesso del farmaco. La legge divenne operativa nell’ottobre dello stesso anno. Dall’inizio degli anni Settanta una serie di leggi rese illegale la produzione e il consumo di allucinogeni negli Stati Uniti, in Australia e in Europa. Al contempo, furono organizzate vaste e capillari operazioni da parte dei corpi di polizia, durante le quali furono individuati e arrestati i principali produttori di sostanze psichedeliche.
Uno sguardo al presente
La lobotomia è stata progressivamente abbandonata come tecnica di cura a partire dalla fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quando la terapia farmacologica si impose come sostituto più efficace e meno invasivo. Oggi questa tecnica è praticata di rado e soltanto per curare i disturbi epilettici quando gli altri tipi di trattamento si rivelano inefficaci. Dall’inizio degli anni Duemila, invece, si è assistito a un ampio e rinnovato interesse da parte della comunità psichiatrica per le sostanze psicoattive. I centri di ricerca si sono moltiplicati, i finanziamenti sono sempre più consistenti, in molti paesi europei e statunitensi si sta diffondendo con incredibile rapidità la terapia psichedelica attraverso microdosi di LSD e psilocibina.
Dagli anni Settanta in poi la produzione di allucinogeni è calata drasticamente, anche nel mercato nero. Tuttavia, tali sostanze hanno continuato a circolare, sebbene in misura molto ridotta, negli ambienti dei free party, dei rave e dei festival. In questi contesti si è venuto a creare un codice di utilizzo non scritto, che permette ai consumatori di vivere l’esperienza psichedelica al meglio. Ci si è presto resi conto di come l’influenza delle percezioni ambientali – sonore, visive, cinestetiche – abbia un ruolo determinante nell’esperienza psichedelica. Fattori come luce e buio, spazio all’aperto o spazio al chiuso, cambiano radicalmente la percezione del vissuto e le possibili immagini scaturite dall’incontro tra sostanza e realtà. Allo stesso tempo, lo stato psicofisico delle persone con le quali si vive l’esperienza modula e modifica la percezione della sostanza. Poiché l’LSD ha la capacità di far vivere esperienze di dissociazione dal proprio corpo, è importante avere accanto persone di cui ci si fida, che possono all’occorrenza far sentire la propria vicinanza. Il contatto fisico aiuta infatti a sentire la persona al sicuro, e a diminuire eventuali emozioni quali paura o incertezza dettate dall’insorgenza di sensazioni insolite.
La natura stessa degli allucinogeni mostra come un composto chimico atto ad agire preminentemente sulla psiche sia altamente influenzato da fattori ambientali ed esperienziali: si può dunque affermare che le sostanze psicoattive non agiscono soltanto sul cervello, ma sull’individuo nella sua interezza. Le testimonianze di persone che hanno assunto sostanze psichedeliche riportano un alto numero di casi in cui i soggetti hanno esperito una dissoluzione dei confini della propria corporeità in favore di una percezione di continuità tra sé stessi e il mondo. Come ha ben spiegato Hoffman nei suoi scritti, in seguito all’assunzione di acido lisergico il soggetto non soltanto è in grado di ricordare perfettamente l’esperienza del giorno precedente, ma percepisce altresì la realtà con una qualità differente. Le percezioni – suoni, odori, colori, forme – sembrano essere più reali, vivide, e lo spazio del pensiero meccanico-associativo diminuisce in favore di una rinnovata sensibilità.
L’odierna ricerca sulle sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico e psicologico sta sperimentando questi composti su una vasta gamma di modalità di esistenza oggi intese come problematiche, quali: la depressione, i disturbi alimentari, il disturbo ossessivo compulsivo, le dipendenze. Questo spettro di patologie, eterogenee tra loro, ha un minimo comune denominatore: l’overthinking. Poiché gli psichedelici hanno il potere di interrompere i sistemi e i circuiti cerebrali che codificano i pensieri e i comportamenti ripetitivi, sono stati valutati come sostanze potenzialmente utili nella cura delle disfunzioni sopramenzionate. Il setting di assunzione delle sostanze segue un iter standard, riassumibile come segue. Il soggetto è seguito da un trainer, che assume la funzione di “sciamano” e ha il compito di guidare la persona durante il viaggio psichedelico. Prima dell’esperienza, al paziente viene presentata una panoramica delle sostanze psichedeliche e dei possibili effetti collaterali. La fase di assunzione della sostanza è condotta in una stanza, dove il paziente è sdraiato su un lettino, indossa una mascherina da notte, ascolta una playlist di musica preparata in precedenza e può, all’occorrenza, stringere la mano del terapeuta-sciamano qualora ne sentisse la necessità. Un viaggio psichedelico dura dalle 8 alle 10 ore, nel corso delle quali la persona non ha alcun contatto con il mondo esterno, ma soltanto con le proprie percezioni e immagini mentali interne. I soggetti non hanno alcun accesso alle impressioni del mondo, e tutto ciò che si produce nell’arco dell’esperienza psichedelica resta confinato nella corporeità e nell’immaginazione del paziente.
È possibile vedere come, utilizzando gli allucinogeni alla stregua di composti chimici atti a modificare l’equilibrio biochimico del cervello, sono stati sviluppati dei protocolli capaci di contenere le reazioni imprevedibili delle sostanze, circoscrivendo il più possibile gli effetti inaspettati e tentando controllare il più possibile le variabili per studiarne meglio gli effetti. È significativo notare come il setting terapeutico ricalchi le modalità di assunzione degli allucinogeni in contesti ricreativi: si è ritenuto opportuno individuare un trainer che agisce in veste di guida, si è compreso il potente effetto della musica per la generazione di determinate emozioni e sensazioni, si è inteso come la percezione del contatto fisico sia determinante per tranquillizzare il paziente e aiutarlo nei momenti di difficoltà.
La modalità attraverso la quale gli psichedelici vengono utilizzati dalla ricerca psichiatrica odierna rischia di diventare, seguendo questo procedimento, un modo per sussumere tali composti all’interno dell’industria farmaceutica, direzionando le esperienze dei pazienti e modellandole all’interno di trial clinici standard che sacrificano parte del valore potenziale di tale esperienza. Oggigiorno, moltissime persone che utilizzano tranquillanti o psicofarmaci si sentono più tranquille sapendo di aver ricevuto una diagnosi, di aver individuato e aver dato un nome al proprio disturbo, e di avere una cura corrispondente. In tal senso, Laurent de Sutter afferma come nell’odierna società capitalista l’esistenza degli individui sia sempre più confinata in una biopolitica medico-chimica alla quale releghiamo la gestione della nostra affettività e vita emozionale. A questa biopolitica medica De Sutter ha dato il nome di narcocapitalismo, e come soluzione a una vita anestetizzata, così come proposta dall’attuale sistema vigente, propone una “politica dell’eccitazione”. In tal senso, le sostanze psichedeliche hanno il potere di generare un caos produttivo e inaspettato, capace di incidere profondamente sulla coscienza del soggetto che ne fa esperienza. La dicotomia tra farmaco e droga che articola l’epistemologia della medicina occidentale è l’ultimo baluardo dei tanti dualismi fondativi dell’odierna concezione di chi viene definito “sano e normale” e chi viene definito “anormale e patologico”. Il possibile slittamento semantico da droga a farmaco che potrebbe verificarsi nei prossimi anni per ciò che concerne gli psichedelici non è dunque una vittoria, ma l’ennesima sconfitta di una società incapace di eludere le dicotomie fondative del pensiero occidentale.
Lungi dal pensare che l’acido lisergico possa in qualche modo essere utilizzato alla stregua dell’ibuprofene o dell’acido acetilsalicilico, sarebbe utile tenere a mente l’ammonimento di Hoffmann99Ivi, p. 2.
a riguardo:
«La scoperta aveva un grande significato perché dimostrava che l’LSD, sia chimicamente che per i suoi effetti psichici, appartiene al gruppo delle sostanze sacre messicane. […] Come tutto ciò che proviene dal regno vegetale, sono doni del creato alla sua creatura dotata di coscienza, l’essere umano. È di ciò che dovremmo essere consapevoli, facendo di questo dono assai speciale un uso rispettoso e sensato».
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Jessica Murano è laureata in Storia dell’arte (2012) ed è dottoressa di ricerca in Medical Humanities (2017). Dopo aver lavorato come insegnante in un liceo artistico, è attualmente ricercatrice indipendente. La sua prima monografia, L’attimo del gesto. Fotografia e studi sull’espressione nell’opera di Charles Darwin e Paolo Mantegazza, è attualmente in corso di pubblicazione. I suoi interessi di ricerca includono la storia della medicina di fine XIX secolo, la storia delle emozioni, la storia del corpo e la cultura visuale e materiale della scienza.
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KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.