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Che cosa cantano le balene?
Magazine, CAOS – Part I - Maggio 2022
Tempo di lettura: 22 min
Eleonora Savorelli

Che cosa cantano le balene?

Pratiche di decentramento per superare la dicotomia tra umano e animale.

Claudia Losi, Appunti di viaggio, Appennini, 2004.

 

Nel corso della sua vita, Sunaura Taylor, artista e attivista per i diritti animali e delle persone con disabilità, affetta da artrogriposi, è stata paragonata ai più svariati animali; le è stato detto che cammina come una scimmia, che mangia come un cane, che le sue mani somigliano alle chele di un’aragosta e, in generale, che somiglia a una gallina o a un pinguino. Sebbene Taylor fosse consapevole che questi paragoni le venivano rivolti come insulti, non capiva in che modo dovessero ferirla, dal momento che le scimmie erano da sempre il suo animale preferito.11Sunaura Taylor, Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale, Edizione degli Animali, 2021, p. 169.
Solo più tardi capì che essere paragonata a un animale rappresentava un insulto potente poiché gli animali non umani sono immaginati come privi di vite soggettive ed emotive. Vite dipendenti e mancanti delle più sofisticate capacità umane.

La sua condizione – di attivista, sostenitrice dei diritti degli animali e disabile – le ha permesso di percepire la vicinanza tra liberazione animale e disabilità e di fornire una loro problematizzazione congiunta. Che cosa divide l’umano dall’animale, e cosa distingue le capacità degli appartenenti a questi due regni? Che cosa potrebbe significare rivendicare l’animalità e la vulnerabilità in noi come chiavi di una diversa interpretazione della vita umana? L’analisi intersezionale dell’attivista impone un ripensamento delle esperienze di empatia e comprensione interspecie.22Sebbene gli aspetti di animalità e disabilità siano estremamente legati negli studi di Taylor, per motivi di coerenza, in questo articolo farò solo riferimento agli aspetti delle sue ricerche che riguardano l’animalità in opposizione all’umanità, tralasciando invece quelli più legati alla disabilità.

 

Il privilegio umano come dicotomia: umano vs animale

Ci muoviamo in un mondo di dogmi, regole e assunti antropogenici, stipulati per avvantaggiare l’operato e la vita umana: il cibo che mangiamo, i vestiti che indossiamo, gli spazi che colonizziamo e il rumore che costantemente emettiamo sono tutti aspetti che ricordano la nostra presenza endemica all’interno del sistema Terra; oltre a questo, essi sono spie, più o meno evidenti, del nostro irriducibile privilegio umano, uno dei più invisibili e meno indagati, ma anche quello più radicato e persistente. Uno degli aspetti che rappresenta più fermamente il dominio umano sono le dicotomie umano\animale e umanità\animalità. Queste distinzioni non prendono soltanto in considerazione le differenze strutturali, fisiche e comportamentali dei soggetti in questione, ma anche quelle psicologiche e morali. Infatti, secondo la considerazione più tradizionale e diffusa, se l’umano è legato alla virtù, all’intelligenza e alla razionalità, l’animale non può che essere abbinato alla bestialità, alla stoltezza e all’insensatezza. L’essere umano può considerarsi come pinnacolo dell’evoluzione, mentre l’animale deve accontentarsi di una collocazione umile e subordinata. Tale concezione è supportata congiuntamente dallo specismo, convinzione che comporta l’attribuzione di uno status – morale e fisico – superiore agli esseri umani rispetto a ogni altro essere vivente, e dall’abilismo, convinzione secondo cui tutti gli individui hanno un corpo abile, e le loro abilità sono conformi a quelle umane. Nonostante l’abilismo sia una discriminazione contro gli individui con disabilità, quindi appartenente a un ambito diverso rispetto a quello trattato, questo bias può essere esteso anche al campo della giustizia animale, poiché tutti i corpi sono soggetti al giudizio e al confronto rispetto al modello ritenuto come accettabile, ossia quello umano.33Taylor, cit., p. 95.
Dal momento che l’esempio standard di salute fisica e mentale è l’essere umano normodotato, questo determinerà il modo in cui definiamo quali incarnazioni siano normali, quali preziose e quali invece negative. 

Ⓒ Sunaura Taylor.

Le tradizionali differenze che ci separerebbero dalle altre specie vengono spesso naturalizzate, e in questo modo le perplessità che potrebbero emergere sullo status quo vengono scongiurate. Nonostante questi tentativi, ormai è difficile nascondere che il dualismo tra umano e animale non sia che una costruzione strumentale volta a sfruttare, opprimere e dominare.44Ivi, p. 27-28.
La giustificazione del dominio e dello sfruttamento umano sugli animali non umani e della sua presunta superiorità si basa quasi sempre sul confronto tra le capacità intellettuali e le caratteristiche dei due gruppi. Quella umana è la specie dotata di linguaggio, razionalità ed emozioni complesse; dal momento che, quantomeno nell’opinione pubblica, gli animali sembrano essere sprovvisti di queste caratteristiche, essi esistono al di fuori della nostra responsabilità morale. Nel caso degli esseri umani, la ragione e l’intelligenza – veicolate dalla capacità di comunicare attraverso il linguaggio, con modalità prettamente umane – divengono qualità quasi associate alla morale. Questa specifica considerazione delle capacità cognitive umane distingue ed eleva l’uomo rispetto agli animali non umani; allo stesso tempo, mette in discussione la rilevanza morale di soggetti ai quali sembrano mancare queste abilità, e ne giustifica l’essere sacrificabili per interessi umani.55Ivi, p. 126.
Tale approccio deriva da una storia fatta di antropocentrismo, razzismo, abilismo e specismo, che ha da sempre elevato la superiorità della ragione sopprimendo la validità delle altre forme di esistenza e conoscenza, come la vulnerabilità, il supporto e l’interdipendenza. I parametri che gli esseri umani hanno utilizzato per giudicare le capacità cognitive sono certamente segni di una cognizione complessa, ma si tratta comunque di parametri antropocentrici.66Ivi, p. 131.
Oltretutto, esaminando gli standard umani neurotipici si nota che molte abilità che affermiamo essere distintamente umane appartengono effettivamente a molte specie diverse. Per esempio, nel 1960 Jane Goodall, etologa e antropologa inglese, riferì che gli scimpanzé selvatici fabbricavano e utilizzavano utensili; l’antropologo Louis Leakey commentò in proposito: «Ora dovremo ridefinire il significato di strumento, ridefinire l’uomo o considerare lo scimpanzé come un uomo».77Ivi, p. 136. La capacità di usare strumenti è stata riscontrata in numerose specie, dai pesci agli uccelli.

Una serie di studi, ricerche e la rinnovata attenzione verso le esperienze non umane rendono evidente quanto la categorica divisione umano/animale sia oggi obsoleta: ciò dimostra la necessità di rielaborare le nostre categorizzazioni alla luce di nuove realtà che stanno emergendo. È necessario interrogare questa opposizione e riconoscerne la strumentalità all’interno della costruzione delle relazioni di potere, disimparando specismo e abilismo, e smantellando l’ottica gerarchica che ci vede alla sommità della piramide della specie – tenendo presente che l’umanità è un dato più politico che biologico.88Ivi, p. 28.

 

Cosa può un animale?

Sebbene oggi la definizione di cosa sia un animale possa sembrarci chiara, essa in realtà possiede dei contorni alquanto sfumati, seppure il suo significato si sia da sempre relazionato in maniera antitetica alla categoria dell’essere umano. L’ordine gerarchico che ne è scaturito non ha coinvolto solamente la sfera animale, tradizionalmente inferiore, ma si è esteso persino ad alcune categorie di essere umani, intrecciandosi con aspetti legati alla sessualità, al colore della pelle e alla disabilità.99Questa “antropologia razzista” nacque nel 1700 con la tassonomia di Linneo: nonostante questa fu utile per posizionare l’umano all’interno della natura, essa incorporò i dibattiti razzializzati e di genere sulla categorizzazione degli esseri umani: queste gerarchie obsolete rimasero uno standard per lungo tempo.
È noto come diverse popolazioni umane siano state considerate bestiali e soggiogate, per poi essere “rieducate”.1010Un accenno alla conquista europea ai danni delle popolazioni di nativi americani e alla loro “correzione” è contenuto nel saggio Verso un femminismo queer di Greta Gaard, all’interno del volume Earthbound. Superare l’Antropocene. Nonostante i temi siano diversi, la matrice è la stessa: culture e umanità differenti da quella “normativa” ed europea sono state catturate e corrette, fino a diventare accettabili agli occhi europei.
L’abilismo è tra i pregiudizi da imputare per la considerazione errata dell’animalità: i preconcetti che abbiamo sui corpi umani e sulle loro possibilità sono talmente radicati che proiettiamo l’abilismo umano anche in quelli non umani.1111Taylor, cit., pp. 66-67.

Molte delle nostre idee sugli animali si formano a partire dal presupposto che sopravvivono solo i soggetti “più adatti”, il che nega il valore e la naturalezza delle esperienze di vulnerabilità, debolezza e interdipendenza. Al sorgere di episodi di disabilità diamo per scontato che la natura farà il suo corso. Ciononostante, recenti ricerche offrono numerosi esempi di animali disabili che sopravvivono grazie alla cooperazione del gruppo di appartenenza.1212Ivi, p. 72. Questi comportamenti sono stati riscontrati in primati, elefanti, cani, maiali, balene, anatre, oche e galline.
Sebbene non sia chiaro se gli animali percepiscano o meno la disabilità dei loro simili, è evidente da questi comportamenti che la nostra non sia l’unica specie in grado di provare empatia cognitiva.

L’oceano non è più inviolato

Le scoperte nell’ambito delle emozioni animali sono sicuramente fonte di grandi sorprese che ci svelano un’esuberanza di similitudini tra comportamenti umani e animali. I dati che continuiamo ad accumulare stanno demolendo il confine tradizionale tra capacità e peculiarità umane e animali: che cos’è o non è un animale e cosa quest’ultimo sia in grado di provare sono definizioni non più così scontate. Di seguito alcuni esempi della vicinanza tra emotività umana e animale: le gazze sperimentano il lutto; molti animali – dai ratti ai lupi, ai galli domestici – manifestano segnali di empatia e di quello che secondo alcuni può essere considerato un senso di giustizia. Altri sono in grado di instaurare legami profondi e piangono i propri morti. I galli, animali spesso poco apprezzati, sono creature emotivamente complesse: fortemente legati alle loro famiglie, possono portare a termine compiti mentali complessi, progettano il futuro e trasmettono conoscenze alla prole. Alcuni pesci, invece, oltre ad avere ricordi duraturi e vite sociali, reagiscono al dolore (e agli antidolorifici) in modo simile al nostro.1313Ivi, pp. 137-138.
Infine, sappiamo oggi che ciò che affermava Aristotele rispetto alla capacità, a suo dire esclusivamente umana, di ridere non corrisponde a verità, considerando il fatto che condividiamo la risata con diverse specie di primati, così come con i cani e persino i topi.1414Ibid.
L’essere senzienti consente agli animali di provare emozioni, dal dolore al piacere; ciò ha rilevanti implicazioni etiche: se una creatura può sentire, è dotata di “interessi”: questa condizione è tanto animale quanto umana. La senzienza e la vasta gamma di vite ed esperienze animali e umane su questo pianeta mostrano che ciò che serve è una comprensione sfumata delle diverse abilità umane e animali.1515Ivi, p. 144.
Vale la pena ricordare come la maggior parte di coloro che studiano gli animali sia convinta che questi si trovino all’interno della medesima categoria che ospita gli esseri umani. Sia gli scienziati che studiano gli animali non umani dal punto di vista genetico, che quelli che si concentrano sugli aspetti emotivi, intellettuali e culturali nell’ambito delle scienze umane considerano certo il fatto che gli esseri umani siano animali.1616Ivi, p. 137.
Nonostante queste nuove consapevolezze scientificamente provate, sembra essere molto difficile distaccarsi dal tradizionale e consueto uso quasi spregiativo della parola “animale”.1717Ivi, p. 147.

Dare spazio al mondo sociale degli esseri non umani ci permette di riconsiderare le nostre idee su come i corpi si muovono, pensano e fanno esperienza delle cose: tutto ciò impone di mettere in discussione ciò che un animale può provare e valorizza la sua esperienza. 

Claudia Losi, Restauro della Balena, Fiorenzuola d’Arda (PC), 2007.

 

La balena intersezionale: una forma che contiene altre forme

La scoperta di BalenaProject, progetto dell’artista italiana Claudia Losi1818Il progetto è consistito nella creazione di una balena di stoffa a grandezza naturale (prendendo come esempio una balenottera comune, 24 mt), che ha in seguito attraversato città, piazze, scuole e teatri. Nell’idea originale del progetto, il viaggio di questa creatura e gli incontri che sarebbero poi avvenuti erano tanto importanti quanto la realizzazione della stessa balena. La forma che ha acquisito BalenaProject deriva insomma dalla moltitudine di storie e rappresentazioni delle balene, animali culturali capaci di inserirsi in epoche e mitologie diverse. Il percorso di Losi ha trasformato una figura da immensa e irraggiungibile a un’idea gestibile.
incentrato sulla figura della balena come ecosistema culturale e simbolico, mi ha permesso di trovare l’esempio più calzante di una creatura che, grazie alle sue capacità, che per molti aspetti affiancano e superano quelle umane, non può essere confinata all’interno della tradizionale definizione di “animale”. I contributi dell’ampia rosa di collaboratori che hanno preso parte al progetto consentono di entrare nella storia e nel mondo di questi animali, e di far luce sulle loro peculiarità e sulla violenza che è stata loro storicamente inflitta. I contributi tracciano un ampio excursus che attraversa le nostre modalità di relazionarci a questi animali – relazioni che sfociano nella maggior parte dei casi nella morte1919Claudia Losi, The Whale Theory. Un Immaginario Animale, Johan & Levi, 2021, p. 98. Le balene sono note per essere materia prima: sulle loro ossa, il loro grasso, e addirittura sui loro fanoni è stata costruita la modernità. L’Occidente non si arricchì solamente con lo sfruttamento del vapore e del carbone, ma anche con quello della carne e dell’olio di migliaia di balene. Il capitalismo si è nutrito di animali.
–, il loro significato storico e culturale,2020Ivi, p. 83. La loro connessione con la mitologia e la letteratura è salda: dalla balena come divinità, al pesce gigantesco delle storie Bibliche; dal mostro nei bestiari medievali, fino al “pescecane” in Pinocchio. La parola “cetaceo” (dal greco “kètos”) significa “mostro marino”, un’idea che evoca terribili mostri come il Leviatano e le strane creature miniate nei manoscritti medievali; tuttavia, oggi è difficile immaginare la balena come personificazione del male. Nonostante questo durante i secoli è stata rappresentata come una feroce bestia del mare. L’elusività di queste creature assieme all’impossibilità per gli umani di osservarle in modo chiaro e completo le hanno trasformate in mostri. Sia che le balene siano state considerate come demoni o emanazioni del divino, non sono mai state risparmiate dalla ferocia umana: l’occhio dell’enorme animale non è tanto quello di un mostro, quanto quello di una vittima.
nonché le minacce che noi esseri umani rappresentiamo per loro. BalenaProject ci ricorda come le emergenze ambientali del nostro presente stiano mettendo in pericolo la vita di queste creature: in un mondo in cui gli animali selvatici vengono da noi concepiti sempre più esclusivamente come fonte di cibo o di divertimento, la balena di stoffa creata da Losi non rappresenta affatto un gioco. Con la sua enorme stazza, ricorda le difficoltà che l’animale riscontra muovendosi in un ambiente fatto di barriere: queste, da una parte sono architettoniche – se consideriamo la creazione dell’artista – mentre dall’altra dovute all’inquinamento. Il gigante di pezza denuncia la pesca intensiva e lo scarso interesse umano nel trovare soluzioni, l’acidificazione e il riscaldamento del mare, la distruzione degli ecosistemi marini, e infine la sesta estinzione di massa che è attualmente in corso. La balena suggerisce che «nell’apocalisse chiamata Antropocene, gli animali non umani che dividono la terra con gli umani possono esistere solo in una veste “antropizzata”, prodotti con metodi umani e attenti alle vite umane».2121Ivi, p. 35.
 

 

La simbologia compromessa della balena

Oltre a essere l’esempio di una creatura che con le sue caratteristiche impone un ripensamento alle categorie esistenti di animale e umano, la balena rappresenta anche un variegato panorama simbolico, che sta subendo – allo stesso modo dell’animale fisico – duri colpi a causa dell’azione umana. Le balene sono tra i più influenti simboli del selvatico, mentre il loro habitat simboleggia la libertà, il mistero e l’inaspettato: la “natura selvaggia” sembra inarrestabile se da questi aspetti. Tuttavia, il simbolismo di questi elementi viene compromesso dalle conseguenze delle azioni prodotte dalla specie umana: i rifiuti che questa ha generato hanno raggiunto ogni angolo della Terra. E con la nostra salute che si deteriora, anche la nostra immaginazione può venire compromessa. L’oceano non è più inviolato:2222Rebecca Giggs, Le regine dell’abisso. Come la vita delle balene ci svela il nostro posto nel mondo, Aboca, 2021, p. 101.
l’idea di atemporalità che il mare ha da sempre rappresentato per l’essere umano si sta esaurendo, così come l’immagine di questi incredibili animali liberi sta diventando sempre più sfocata.2323Ivi, p. 31.
Di conseguenza, la nostra vita interiore e il nostro sistema di simboli vanno degradandosi, e la scrittrice australiana Rebecca Giggs si chiede: «Come potremmo crogiolarci in un senso di illimitatezza, […] nello spazio inconoscibile del nostro inconscio, se l’oceano vero demolisse la sua storia simbolica?». Persino un paesaggio emotivo può acidificarsi.2424 Ivi, p. 113.
Secondo Giggs, è possibile che le motivazioni ambientali che hanno spinto verso la tutela delle balene siano accompagnate da altre intenzioni, più intime e personali: ad aver promosso la loro difesa potrebbe essere una radice emotiva di timore quasi reverenziale, di umiltà e meraviglia verso queste creature.2525Ivi, p. 164.
È la nostra autoconservazione a desiderare dei luoghi selvatici e degli animali ancora liberi.2626Ivi, p. 109.
Nell’antichità si temeva che l’oceano ospitasse una spaventosa vacuità esistenziale, un vuoto dal quale potessero emergere le più terribili creature. Tale atteggiamento rispecchiava l’aristotelico horror vacui, e spingeva i cartografi medievali a circoscrivere il mondo conosciuto e rappresentato nelle mappe con animali stupefacenti, mescolando conoscenze nautiche e miti. Oggi, il nostro timore è opposto: la nostra specie e le sue conseguenze sono così diffuse che sorge il dubbio che non vi sia davvero più alcun vuoto intatto da scoprire.2727Ivi, p. 101.
 

 

Miglioramenti percettivi (?)

Lo status della balena subì un netto miglioramento a partire dagli anni ’70,2828Nel 1970 uscì l’LP Songs of the Humpback Whale del biologo e ambientalista americano Roger Payne, il primo studioso a notare l’unicità del canto delle balene: il disco ha dimostrato pubblicamente per la prima volta le elaborate vocalizzazioni delle megattere ed è diventato l’album “ambientale” più venduto nella storia. Nel 1975 Greenpeace lanciò la sua campagna contro la caccia alle balene, affrontando le baleniere in mare aperto e portando per la prima volta le immagini di questa terribile e inaccettabile caccia nelle case della gente.
passando da animale cacciato e braccato durante i secoli a uno tra i maggiori simboli della lotta per la salvaguardia del pianeta.2929La caccia alla balena è la più antica industria estrattiva globalizzata della storia, nonché disastro zoologico globalizzato senza precedenti.
Che cosa ha comportato un cambiamento così radicale? Uno dei motivi principali che decretò la fine della caccia alla balena sono le caratteristiche “umane” che questi animali dimostrano di possedere. La sviluppata emotività, la capacità di intrecciare relazioni sociali, essere sofisticate a livello cognitivo, e la complessità dei loro canti sono peculiarità che hanno permesso agli uomini di simpatizzare con queste creature, e di considerarle degne di cura e salvaguardia – persino “patrimonio dell’umanità”.3030Ivi, pp. 104-105. Nel 1972, la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano aveva spinto per una moratoria della caccia alla balena nell’ottica di “dichiarare le balene un patrimonio comune dell’umanità”. 
Grazie alle sopra citate peculiarità,3131Ivi, p. 41.
le balene sono state
antropomorfizzate. 

Sebbene questo tipo di visione abbia senz’altro avuto implicazioni positive, credo che nasconda la necessità umana di attorniarsi di creature che ci somigliano, se non nell’aspetto, almeno nelle caratteristiche sociali, oltre all’assunto abilista secondo cui gli animali che possiedono caratteristiche umane sono automaticamente nobilitati in quanto simili a noi. «Quando ciò che stiamo cercando sono le somiglianze tendiamo a oscurare o trascurare aspetti distinti e preziosi della vita degli altri»:3232Taylor, cit., p. 141.
l’affermazione della filosofa americana Lori Gruen pone enfasi sul fatto che nello studio degli animali non umani si tende a cercare la vicinanza all’uomo e alle sue abitudini più che considerare i comportamenti animali preziosi in sé. Gruen continua: «Nell’accogliere con magnanimità l’alterità, finiamo per riconfigurare un dualismo che inevitabilmente troverà qualche “altro” da escludere“…Nell’accogliere con magnanimità l’alterità, finiamo per riconfigurare un dualismo che inevitabilmente troverà qualche “altro” da escludere”». Dunque, nonostante l’apertura nei confronti di esperienze di vita diverse dalle nostre, sembra che gli animali da ammirare e con i quali sia possibile stabilire un contatto siano quelli che più si avvicinano alle caratteristiche umane.3434Un celebre esempio, citato anche nel testo di Taylor, è la mucca Yvonne, che riuscì a scappare da un allevamento tedesco e a non farsi catturare nuovamente nonostante il dispiegamento di forze a disposizione per la sua cattura. La capacità di evadere, l’intelligenza e la furbizia dimostrate nella fuga hanno assicurato a Yvonne la simpatia umana; per questo motivo è stata accolta in un santuario in cui potrà vivere in sicurezza per il resto della sua vita. Una storia a lieto fine che rende evidente l’occhio antropocentrico e abilista con cui guardiamo gli animali non umani: tanto più sono capaci di dimostrare la propria vicinanza intellettuale alla nostra specie – il ragionamento, la pianificazione che sono servite a Yvonne per sfuggire –, tanto più sono degni del nostro rispetto. Secondo questa visione, le mucche che invece restano nelle maglie del sistema dello sfruttamento animale non sono abbastanza degne di attenzione e supporto dato che non sono in grado di opporsi perché “stupide”.
 

Le balene rientrano in questa categoria. La nostra specie nutre infatti una forte considerazione emotiva e simbolica nei loro confronti, principalmente per due motivi: la particolarità dei loro canti – da considerare come veri e propri linguaggi – e la loro vita interiore ed emotiva, che si esterna attraverso giganteschi occhi estremamente simili a quelli umani.3535La somiglianza tra l’occhio umano e quello della balena ha spinto molti a chiedersi se dietro quell’enorme pupilla ci sia una coscienza. Lo scrittore Philip Hoare, dopo essersi ritrovato faccia a faccia con un capodoglio, affermò: «Quello non era l’occhio di un cavallo, o di una mucca. Mi stava decisamente leggendo dentro»; ancora, quando una balena grigia ricambiò il suo sguardo, lo scrittore Charles Siebert dichiarò: «Non mi sono mai sentito così osservato in tutta la mia vita… mi è sembrato di dare un’occhiata incredibilmente lunga e interrogativa allo specchio». Anche Rebecca Giggs ne parla in modo appassionato: «L’occhio della balena non aveva alcuna rassomiglianza con l’occhio nero brillante di un uccello, o l’occhio conico e scattoso di uno squalo. Mi era apparso come un occhio umano gigantesco, un’emozione che non riuscirei ad articolare a parole». La balena libera, sorprendentemente, osserva, con un tipo di sguardo simile al nostro: meditabondo, presente, consapevole e vigile. Più che la ricerca di un contatto, quella che si ha davanti è una creatura dallo sguardo imperscrutabile, che non ha bisogno di attenzione. Ben diverse, invece, le testimonianze che giungono da addestratori che si interfacciano con animali in cattività: in questo contesto la balena è esposta al logorio della noia, il suo occhio si appanna: «Non so come siano i beluga allo stato brado, [qui] sembra quasi che mi guardino attraverso un velo […]», afferma un addestratore del SeaWorld.
Questi due aspetti mostrano ancora una volta tutta l’arretratezza e la fallacia delle categorie dicotomiche vigenti, che vedono le capacità umane come esemplari, mentre quelle “più animali” come inferiori. 

Claudia Losi, Whalebone Arch, Palazzo Ducale di Presicce (LE), 2020, Ph Pierpaolo Luca.

 

Linguaggio cantato

Fu Aristotele il primo ad affermare che il linguaggio fosse la caratteristica che separa gli esseri umani dagli animali: questa convinzione contribuì a gettare le basi della tradizione occidentale, che considera la lingua quale fondamento di cosa realmente voglia dire essere umani.3636Taylor, cit., p. 102.
Di conseguenza, storicamente le forme di comunicazione degli animali non umani non sono mai state considerate veri e propri linguaggi: attraverso questa prospettiva stabiliamo non solo una chiara distinzione tra il modo in cui gli esseri umani condividono informazioni e la miriade di modi in cui lo fanno gli altri animali, ma persino che questa distinzione abbia in qualche modo implicazioni di natura morale.3737Ivi, pp. 109-110.
L’idea del linguaggio umano come intrinsecamente “superiore” avvantaggia indubbiamente la nostra specie, poiché la scarsa considerazione della capacità di espressione animale – e la conseguente convinzione che la vita interiore e intellettuale animale sia limitata – altera il modo in cui consideriamo e trattiamo le creature intorno a noi.3838Ivi, p. 109. Pensare che più un linguaggio è simile al nostro più questo è degno del nostro rispetto è un assunto abilista; come del resto considerare gli animali come delle creature “senza voce” tradisce il pregiudizio abilista su cosa voglia dire avere una voce.
 

Tuttavia, i canti delle balene, nella considerazione umana dei linguaggi non umani, rappresentano una falla. Scoperti quasi per caso negli anni ’50 da ingegneri navali statunitensi in contesto bellico, i canti delle balene furono successivamente oggetto di studi acustici. Diverse ricerche hanno rivelato che le balene vivono in un universo sensoriale che umilia le capacità umane, le loro voci sono pan-oceaniche: per esempio, una canzone cantata da una balena al largo di Porto Rico può essere udita da un’altra vicina a Terranova, a 2.600 chilometri di distanza.3939Giggs, cit., pp. 207-208.
Oltre ai suoni specifici delle diverse specie di balena, la voce di ciascun individuo è abbastanza singolare da spingere a pensare che abbia una propria voce personale. Ogni voce, dunque, diversifica e arricchisce la cultura della specie, che deve essere appresa: un cucciolo di megattera non possiede un canto identico ai suoi simili, ma nasce in una comunità linguistica, dove le convenzioni canore da cui sviluppare il suo canto possono essere apprese.4040Ivi, p. 23.
Si è ipotizzato che le comunità di balene, in particolare megattere, abbiano addirittura ospitato esemplari “solisti”. In una lettera aperta del 2005, Roger Payne sostenne che i canti delle balene del tempo non fossero assolutamente allo stesso livello di quelli degli anni ’60. È possibile che a causa della caccia industriale, esemplari adulti dalle voci particolarmente riconoscibili e fini siano stati abbattuti: in questo modo, gli esemplari più giovani non hanno potuto imparare le melodie degli adulti, impoverendo il proprio patrimonio musicale.4141Ivi, p. 238.
Tra gli anni ’60 e ’80, questi canti furono utilizzati dagli attivisti per richiamare l’interesse verso il pericolo d’estinzione che minacciava queste creature: i suoni furono innalzati dal loro status di “verso animale”, per esemplificare la magnificenza biofonica dell’idrosfera. Si intendeva segnalare in questo modo che la caccia ai danni delle balene non solo minacciava una singola specie, ma comportava un cambiamento decisivo del suono del mare nel suo complesso: i canti delle balene mostravano che cosa significasse ascoltare un’estinzione planetaria.4242Ivi, pp. 206-208. Il mare è sempre stato teatro della biofonia. Le navi baleniere che solcavano acque ad alta densità di cetacei furono i luoghi in cui vennero ascoltati per le prime volte: prima che la meccanizzazione della navigazione creasse a bordo il rumore bianco, le navi erano più silenziose, ed essendo fatte di legno, il loro scafo fungeva da cassa di risonanza.

Chiamare un suono “canto” indica da parte nostra il riconoscimento che questi non siano soltanto rumori disarticolati e casuali, ma abbiano un significato preciso a seconda del contesto in cui vengono emessi. Inoltre, essi non sono autoreferenziali ma contengono un messaggio per altri esemplari, che potrebbero o meno essere presenti, dato che la platea marina comprende l’oceano intero. Definire un suono in questo modo dà per scontata una certa quantità di terreno comune tra culture, e suggerisce che all’interno del cantante esista una vita emotiva, riconosciuta da e simile a quella dell’ascoltatore.4343Ivi, p. 216.
Alla domanda “di cosa cantano le balene?” sembra non esserci ancora una risposta chiara e univoca; tuttavia, i primi attivisti hanno speculato intorno a questa fascinazione, sostenendo che le voci delle balene confermano la loro intelligenza e personalità. Oltre che veicolare le loro sensazioni, il canto proverebbe la dimensione culturale della specie. Nonostante all’epoca queste opinioni servissero principalmente per attrarre le simpatie del pubblico nei confronti di questi animali, gli attivisti non sbagliarono: antropologi, linguisti e filosofi sostengono oggi che avendo sviluppato capacità comunicative in assenza di mani, espressioni facciali o sguardi, le balene si servano di un puro scambio psicosociale.4444Ivi, p. 209.
 

La rinnovata considerazione delle voci delle balene trasportò questi suoni fin nello spazio profondo grazie al programma Voyager Interstellar Mission. La missione principale delle sonde prive di pilota Voyager I e II, lanciate in orbita nel 1977, consisteva nell’esplorazione del sistema solare esterno.4545Ivi, p. 212. Al momento le sonde sono gli oggetti artificiali più lontani che gli esseri umani hanno espulso dalla faccia del pianeta, ci separa una distanza di tredici miliardi di miglia.
Gli stessi creatori non le consideravano tanto strumenti scientifici quanto “bottiglie nell’oceano cosmico”4646Ivi, p. 211.
lanciate verso possibili vite extraterrestri. Per la remota eventualità di questo incontro, nella sonda erano stati inseriti due dischi d’oro con una selezione di suoni e immagini in grado di mostrare la varietà di vite e di culture presenti sulla Terra. Il contenuto dei dischi fu curato dall’astrofisico Carl Sagan: oltre ai saluti, registrati in 61 lingue – sia contemporanee che antiche – nei dischi erano presenti registrazioni di suoni naturali (tuoni, onde e vento) e prodotti da animali. In questa selezione era presente persino il canto delle megattere, che non fu inserito, come ci si aspetterebbe, tra i suoni “naturali”, ma all’interno della sezione dedicata ai saluti umani: tale collocazione elevava così questo animale al rango di parlante.4848Giggs, cit., p. 212.

 

Cetacei senzienti

Una delle maggiori conquiste del movimento per il benessere animale è stata ampliare, nell’immaginario del pubblico, la definizione di quali corpi possano soffrire.4949Ivi, p. 109.
Studi hanno rivelato che le megattere possiedono dei neuroni a fuso, ovvero le cellule a cui si attribuisce il merito di permettere agli esseri umani di soffrire emotivamente,5050Ivi, p. 183.
pertanto anche solo dal punto di vista puramente scientifico è ormai impossibile svalutare o annullare l’esperienza emotiva animale. Dato che stiamo parlando di esseri “senzienti”, le balene hanno accesso a una vasta gamma di sensazioni e situazioni emotive; qui voglio però soffermarmi sulla sofferenza che può dirsi di natura fisica e sociale, che nella maggior parte dei casi sono legate.

Dal momento che la vita di questi animali si sviluppa in ambienti dalla bassa luminosità, le balene non possono fondare i loro scambi sociali sulla vista. La loro comunicazione non può dunque che basarsi quasi esclusivamente su segnali biosonici di ecolocalizzazione: le balene esistono in un delicato viluppo di suono biologico,5151Ivi, p. 222.
dove l’udito rappresenta il senso fondamentale per la comunicazione. Questo equilibrio è costantemente minacciato e danneggiato dal rumore costante del traffico marittimo, delle prospezioni sismiche e delle infrastrutture subacquee. Il traffico marittimo genera delle “strade” che a livello sottomarino vengono percepite come “territori mobili di fracasso”,5252Ivi, p. 223. Una nave da trasporto può avere un impatto acustico pari a quello di un aeroplano.
un ingombrante e onnipresente inquinamento acustico che rimbalza nella costa e nel fondale, per poi propagarsi nel mare, in modi difficili da prevedere. Oltre a questo disagio persistente, si aggiunge il rumore causato dai rilevamenti per le mappature del rischio sismico, che si eseguono con fucili ad aria compressa a bassa frequenza e ad alto volume, i loro scoppi possono susseguirsi per mesi, a volte a intervalli inferiori al minuto. Non è affatto raro che le necropsie eseguite sui cetacei rivelino lesioni da bolla di gas negli organi interni, oltre a canali uditivi perforati e accumuli di azoto nel sangue e nei tessuti degli animali: sono tutti barotraumi, ovvero ferite da alterazione della pressione.5353Ivi, p. 227. I pericoli del rumore sono evidenti nella fisiologia del corpo umano come nelle balene franche: ad esempio, in entrambi l’aumento della pressione sanguigna e la digestione rallentata si presentano come stati psicologici di disperazione e difficoltà ad assorbire informazioni nuove. L’inquinamento sonoro chiaramente non è un problema esclusivo del mondo marino. La divisione di suoni naturali e cieli notturni del National Park Service degli Stati Uniti calcola che l’inquinamento acustico raddoppia o triplica ogni trent’anni. Oggi i centri urbani e le periferie sono diventati più rumorosi: le sirene dei veicoli d’emergenza continuano ad aggiungere decibel per essere udite.
Nei casi in cui gli animali non vengono uccisi da questi shock, accade spesso che rimangano sordi: l’interferenza umana alle loro vite non solo li rende incapaci di comunicare con i loro simili, ma è anche causa di disabilità animale. L’antropofonia disturba le loro vite sociali in misura molto maggiore rispetto agli animali che producono suoni sommessi e localizzati: è stato dimostrato che molti cetacei deviano il loro percorso per evitare i rumori meccanici delle navi da carico, o addirittura tacciono, e aspettano che il rumore passi. Il rumore antropogenico sta riducendo drasticamente l’habitat acustico delle balene“…Il rumore antropogenico sta riducendo drasticamente l’habitat acustico delle balene” nello stesso modo in cui il disboscamento sta riducendo l’habitat degli animali terrestri.

L’inquinamento sonoro non è solo un disturbo uditivo, ma è anche un disturbo sociale: il rumore riduce le capacità comunicative della balena, diminuendo lo spazio in cui la sua voce si può espandere. L’International Fund for Animal Welfare (IFAW) ha calcolato che, per una balena di sessant’anni, «la distanza a cui le sue vocalizzazioni possono viaggiare è diminuita da 1.600 chilometri all’epoca della sua nascita ai 160 attuali».5454Ivi, p. 224.
L’interferenza è tale che le specie che dipendono dai loro vocalizzi per trovare un compagno, per comunicare con i loro cuccioli o rivali o per individuare prede grazie ai biosonar rischiano di non poter adempiere a queste attività. L’umanità e i suoi scambi stanno distruggendo il silenzio necessario alla sopravvivenza di altre specie.5555Losi, cit., p. 75.
Si può persino affermare che per un certo numero di cetacei il suono rappresenti la capacità di vedere, poiché si ritiene che utilizzino il rimbombo del suono per crearsi un’immagine mentale del luogo circostante e dei loro simili.5656Giggs, cit., p. 225. Il rumore non solo danneggia le balene, ma anche altre specie marine, ed è stato dimostrato che ciò crea disagi a livello ecosistemico persino a creature senza orecchie: ad esempio, le esplosioni sismiche aumentano la mortalità di alcuni molluschi, i fucili ad aria compressa usati per le prospezioni uccidono le larve di krill nel raggio di un chilometro circa. Infine, le seppie, che cambiano colore per comunicare sono meno capaci di interpretare i segnali corporei delle altre in presenza di interferenze acustiche – il che fa pensare che il rumore possa anche ostacolare le capacità visive oltre che quelle uditive.
In altre parole, il rumore umano, danneggiando la loro percezione spaziale, li acceca. Oggi, le conseguenze di questa situazione si riscontrano nell’abbassamento dell’intensità delle voci delle balene, i loro canti sono diventati più sommessi.5757Ivi, p. 232.
Potrebbe esserci un’ulteriore spiegazione per questo cambiamento: forse le balene hanno bisogno di meno energia nel comunicare, poiché le onde sonore si spingono più lontano in oceani più acidi a causa dell’assorbimento di anidride carbonica. Se l’acidificazione continuerà in modo incontrollato, la biochimica marina avrà l’effetto di amplificare i suoni a bassa frequenza generati dall’attività umana, che creeranno un ambiente ancora più caotico. Per di più, recenti monitoraggi sostengono che le voci delle balenottere azzurre antartiche, anziché abbassarsi, si fanno più acute: queste balene “strillano” per sovrastare il rumore dei ghiacci che si spezzano.5858Ivi, p. 233. 
Come noi ci adattiamo a una biosfera che inevitabilmente cambia, anche le balene stanno rimodulando il loro linguaggio in linea con le nuove realtà. 

L’esistenza dell’umanità, con il suo approccio simile a un virus, va di pari passo con l’invasione di altri mondi.5959Losi, cit., p. 75.
Tramite l’avanzamento tecnologico prendiamo d’assalto lo spazio altrui, facciamo questo a scapito delle società umane, degli oceani e del benestare dell’ambiente. La situazione delineata descrive un controsenso: da una parte, il nostro mondo si è espanso a dismisura – abbiamo avocado e fragole nel mese di dicembre, possiamo ricevere prodotti che vengono dall’altra parte del mondo – dall’altra, il mondo degli animali non umani, in questo caso dei cetacei, si è ristretto pericolosamente. 

 

Gli opposti necessari

Le definizioni che accerchiano la nostra e altre specie sono ormai labili, e sempre più lontane dai fatti. La necessità di una comprensione sfumata delle esperienze dei viventi è evidente: questa non solo permetterebbe di validare e conoscere le esperienze singole e diversificate, ma aprirebbe anche la possibilità di riscoprirsi in un contesto più vitale e variegato di quanto possiamo immaginare, pieno di modi di vita simili a noi, diversi da noi, inaspettati, immaginati. Se ciò che consideriamo “umanità” ha sempre fatto parte di numerosi modi animali, aguzzando la vista ci si potrebbe accorgere di come l’animalità sia sempre stata in noi“…aguzzando la vista ci si potrebbe accorgere di come l’animalità sia sempre stata in noi”

Taylor sostiene che, da un certo punto di vista, le è sempre sembrato corretto e legittimo identificarsi con un animale: si sente animale nella sua incarnazione, ed è una sensazione di connessione, non di vergogna. Riconoscere la sua animalità ha rappresentato una maniera per rivendicare la dignità nel modo in cui il suo corpo si muove, guarda e sperimenta il mondo che lo circonda. È una rivendicazione delle sue membra e dei suoi movimenti animalizzati, l’affermazione che la sua animalità è parte integrante della sua umanità.6060Taylor, cit., pp. 185-187.

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di Eleonora Savorelli
  • Eleonora Savorelli (Jesi, 1996) è una curatrice indipendente di base a Milano. Dopo la laurea triennale alla John Cabot University (RM) in storia dell’arte con minor in imprenditoria e studi classici, frequenta il biennio di arti visive e studi curatoriali in inglese alla Naba (MI). Attualmente lavora da Reading Room, uno spazio a Milano dedicato alla diffusione e comprensione di riviste contemporanee. Scrive principalmente per le testate online «Forme Uniche» e «Artslife».
Bibliography

Bruno Latour, Donna Haraway, Giovanna Di Chiro et al., Earthbound. Superare l’Antropocene, KABUL Editions, Milano, 2021.

Claudia Losi, The Whale Theory. Un Immaginario Animale, Johan & Levi, 2021.

Rebecca Giggs, Le regine dell’abisso. Come la vita delle balene ci svela il nostro posto nel mondo, Aboca, 2021.

Sunaura Taylor, Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale, Edizione degli Animali, 2021.