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Sovvertire la tecnologia: intervista a Rebecca Salvadori
Magazine, HYPER – Part II - Maggio 2020
Tempo di lettura: 14 min
Sara Castiglioni

Sovvertire la tecnologia: intervista a Rebecca Salvadori

Una pratica di resistenza fondata sull’individuo e le connessioni umane.

Lilian’s vow, 2019, still from video. Portrait of dancer Eva Enrich Gonzales during Lilian Nejatpour’s performance Choreophobia, Somerset House, London. Sound, Ventuno Costellazioni Invisibili bySandro Mussida.

 

«Only with technology can you access the certain sensibilities and realities of your time. Perceptions of reality change with technology. […] Now everything is fast and multi-layered. New digital technology permits you to go into any situation and not force anything on that reality, but very casually, to capture its completeness».
(Jonas Mekas)

Metà italiana e metà australiana, nata a Milano ma di stanza a Londra, Rebecca Salvadori è un’artista, filmmaker e curatrice multi-disciplinare. Con una formazione in Screen and Film studies presso la Goldsmiths University di Londra, durante gli ultimi dieci anni Salvadori ha sviluppato un ampio archivio di materiale video che include documentari, ritratti d’artista e live set audiovisivi, che l’ha portata a collaborare con artisti e musicisti internazionali, sia come regista che come filmmaker. Come curatrice musicale, insieme al compositore e violoncellista Sandro Mussida e al soprano Olivia Salvadori, Rebecca ha co-fondato Tutto Questo Sentire, collettivo artistico che, attraverso una serie annuale di eventi site-specific, indaga il rapporto tra il suono e altre discipline contemporanee, come video e performance.

Essendo il suo output artistico basato fortemente sull’utilizzo di tecnologie, l’uso che Rebecca fa dei dispositivi digitali è evidente, spesso filmando con videocamere di qualità diverse e lavorando con software, seppur non convenzionali, di animazione. Tuttavia, nella sua pratica, è proprio la stessa tecnologia a essere messa in discussione e a essere riappropriata.

Sovvertendone i meccanismi e utilizzi tipici, la produzione filmica di Rebecca cerca di restituire tutto ciò che un mondo eccessivamente tecnocratico può averci tolto, impegnandosi nel porre l’individuo e la dimensione relazionale umana al centro della sua arte. A questo proposito, in una sorta di azione omeostatica, Rebecca utilizza i dispositivi tecnologici per rallentare e contrastare tutti quegli aspetti intrinseci di un ambiente digitale fortemente accelerato e saturo: attraverso le tecniche del close-up e dello stop motion, espande ciò che l’occhio umano è in grado di vedere, utilizzando la videocamera per entrare nei mondi interiori degli individui, soffermarsi sulle dinamiche affettive e sulle interazioni umane. Grazie all’intenso legame che Salvadori stabilisce tra sé, la videocamera e i soggetti che ritrae, nel suo lavoro risulta sempre predominante un senso profondo di intimità, realismo e autenticità, anche quando mediato dalla presenza del dispositivo tecnologico.

La ricerca dell’elemento umano all’interno della tecnologia si riflette inoltre nel processo che si cela dietro alle sue composizioni audiovisive. Quando lavora con software di animazione, Salvadori combina costantemente il suono e l’immagine attraverso gli elementi del caso e della libera associazione, rifiutando la successione cronologica delle sequenze audiovisive e ricercando l’inaspettato come via per fuggire dall’automazione e predeterminazione della riproduzione meccanica. In questo modo, i suoi lavori audiovisivi assumono la forma di una serie di frammenti, la cui combinazione non è mai la stessa.

Questo output artistico così vario – seppur sempre coerente – ha permesso a Rebecca di esporre i propri lavori presso importanti istituzioni e festival internazionali, quali: South London Gallery (UK), НИИ Nii Moscow Science & Art (RUS), Macro Museum of Contemporary Art (IT), Barbican Art Center (UK), Festival of Film and Animation Olomouc (CZ), Festival IMAGES(CH), Crosstalk video art Festival (HU), David Lynch’s Silencio (FR), SCHUNCK Glaspaleis (NL), Sophiensaele Theatre (DE), Future Everything Festival Manchester (UK), III Point Festival Miami (US), No Bounds Festival x Warp Records(UK), Camden Arts Centre (UK), Cafe Oto (UK), Freud Museum (UK).


Sara Castiglioni: C’è un senso di intimità molto presente nella maggior parte dei tuoi video-documentari, che riesci a trasmettere grazie al rapporto one-to-one che instauri con i soggetti da te filmati e alle conversazioni personali intraprese con essi, che permettono allo spettatore di entrare nelle loro sfere private e mondi interiori. In Chatroom Empathy, uno dei tuoi ultimi lavori, viene esplorato il concetto di intimità mediata dalla tecnologia: il video documenta una sorta di spoken word performance in remoto che avviene tra te, gli artisti George Finlay Ramsay, Geiste Kincinaityte e la scrittrice e curatrice Elaine Tam, durante la quale vengono condivisi pensieri e sensazioni rispetto alla pratica di ciascuno di voi. Non pensi che il concetto di “intimità mediata” sia una contraddizione in termini, che l’idea di intimità possa essere in qualche modo compromessa, soprattutto considerata la presenza pervasiva della surveillance governativa nella vita privata on-screen delle persone? Oppure, pensi che il mondo del virtuale possa dare luogo a nuove idee di intimità, che sarebbero altrimenti impensabili?

Chatroom Empathy, 2020, still from video, Rebecca Salvadori, George Finlay Ramsay, Elaine Tam, Geistė Kinčinaitytė.

Rebecca Salvadori: Ho costruito nel tempo un grande archivio video della maggior parte dei miei amici, e George Finlay Ramsay è uno di questi. Rifletto spesso su cosa significhi trasformare un’amicizia in un’opera e sulla complessità degli scambi in costante evoluzione tra diverse forme di creatività; su che cosa accada realmente tra due o più individui impegnati in un processo che li trasforma. Nella mia esperienza c’è un momento in cui la figura e la forma giuste si ritrovano nel contesto giusto. Chatroom: Empathy potrebbe essere considerato come uno di questi momenti. L’intimità mediata che abbiamo sviluppato nel realizzare questa collaborazione era dolce e umile, oltre che rispettosa dei diversi livelli di vicinanza stabiliti insieme nel corso degli anni. A poco a poco abbiamo introdotto dei rituali per attivare una connessione più profonda; abbiamo parlato online ogni sabato; ci siamo filmati solo nei momenti concordati rafforzando la nostra fiducia; ci siamo dati dei compiti a vicenda che fossero in grado di accordarsi con le nostre qualità individuali e abbiamo accettato tranquillamente il momento in cui ci siamo accorti che la collaborazione era finita attraverso un silenzio interessante fatto di sorrisi virtuali. Elaine ha affermato che «la distanza offerta dallo schermo, dall’immagine criptata e dalla tecnica cinematografica è intrisa di desiderio, l’intimità dello zoom non arriva mai del tutto a raggiungere la tua pelle». Geiste ha detto che «questa calma è il requisito dell’empatia stessa, che ci invita al tempo stesso a osservare e svelarci insieme all’immagine, a essere con l’altro. Amare da una distanza può essere concepito come la forma d’amore più profonda?». George ha affermato che «ciò che mi piace di questi film è che in questo momento mi danno l’impressione di essere necessari. Dove il superfluo sembra essere ancora più superfluo». L’intimità mediata sembra diversa quando non si presenta come una sorpresa ma è costruita consapevolmente per essere condivisa con gli altri. Personalmente sono interessata in quei momenti che generano reazioni emotive immediate“…Personalmente sono interessata in quei momenti che generano reazioni emotive immediate”, prima ancora che vi sia la possibilità di analizzare, processare, decodificare e intellettualizzare. Non credo che l’intimità mediata sia una contraddizione in termini, e credo che il virtuale possa incoraggiare nuove forme di intimità distanziata, ma credo anche che non sia questo il vero punto, almeno per quanto mi riguarda. Il punto è riuscire a creare un po’ di silenzio per essere in grado di ascoltarsi davvero, come quando le componenti individuali sono complete in se stesse e formano un tutt’uno che è maggiore della somma delle sue singole parti.

Final Sheffield, 2017, still from video.

Sara Castiglioni: Il tuo lavoro si focalizza molto sulle connessioni autentiche che si creano tra persone nella vita reale. In Rave Trilogy, per esempio, mostri le straordinarie forme di interazione che rave e festival sembrano rendere possibili, e il potere rivoluzionario di tali spazi nel promuovere nuove potenziali forme di co-esistenza. Durante il periodo di lockdown, hai preso parte ad Avantgardening, piattaforma multidisciplinare, iniziativa solidale e streaming festival che il 17, 18, e 19 aprile scorsi ha presentato una serie di lavori audiovisivi su Twitch. Il festival, il cui obiettivo primario era raccogliere fondi per le persone affette da Covid-19 a Milano, promuove una nuova idea di collettività, connettività e attivismo sociale, facendo uso delle infrastrutture e degli strumenti comunicativi di Internet. Il sociologo Pierre Lévy ha discusso estensivamente del potere trasformativo del cyberspazio nel facilitare nuove forme di connessione, le quali possono avere un effetto rivoluzionario nella società, promuovere nuove forme di democrazia e – attraverso l’unione sinergica delle abilità individuali – di cooperazione, facendo riferimento all’idea di intelligenza collettiva. Trovi che il cyberspazio possa essere una nuova potenziale piattaforma in cui coesistere come individui e attraverso cui creare nuove forme di connessione umana e ideali di comunità?

Inside Fold, commissioned by Fold Club and produced by Inverted Audio, 2019, still from video.

Rebecca Salvadori: Come spettatrice-partecipante, credo che uno degli aspetti che ho apprezzato di più sia stato immaginare tutte le conversazioni che le curatrici potrebbero aver avuto durante la costruzione del programma. C’è qualcosa di estremamente affascinante nel creare collettivamente un ordine esatto per le cose. I mesi di lockdown hanno fatto scaturire la possibilità di una contemplazione solitaria, resa molto difficile dalla vita quotidiana. La solitudine può aiutare a sentire il proprio centro ma al tempo stesso può incrementare un flusso di indeterminatezza. Essere fisicamente bloccati in un unico luogo e al contempo soggetti a grandi quantità di informazioni suona quasi come una liberazione. Le esperienze di tutti i giorni hanno mantenuto un elemento partecipativo e al tempo stesso sono sembrate come protette; l’immagine a due dimensioni, di cui una del sé calmo, mentre l’altra di un corpo fisico pericoloso e fuori controllo. Intravedo sia la virtualizzazione del corpo e l’opportunità che si nasconde dietro le nuove tecnologie dell’informazione, sia la possibilità di un’intelligenza collettiva. Riscontro una certa difficoltà nel sentirsi centrati, una forma di competizione per ricevere attenzioni e un’attitudine a esagerare le polarizzazioni nelle conversazioni. Mi ritrovo a tentare di trattenermi dal desiderio di formulare opinioni immediate. Sono vicina a questa riflessione tratta da Audio Culture: Readings in Modern Music: «L’habitat dell’immaginazione non solo ci consente di far crescere il seme dell’identità ma si moltiplica milioni di volte, crea ricchi terreni in cui prospera una democrazia genuina. Nel silenzio delle nostre stesse menti, ai margini del testo, siamo fatti diversamente l’uno dall’altro, così come siamo in grado di comprendere le cose che ci differenziano dall’altro».

Desert Rave, 2019, still from video.

Sara Castiglioni: I tuoi video sembrano sottendere un tema piuttosto ricorrente all’interno della tua pratica, ovvero il rallentamento dei ritmi accelerati tipici della vita contemporanea e dei processi produttivi del digitale. Questo specifico leitmotiv nel tuo lavoro nasconde una particolare critica nei confronti della cultura digitale contemporanea e dell’abuso delle nuove tecnologie? Parlando di accelerazione, si può dire che il nostro periodo storico sia fondato sulla cosiddetta culture of speed, la cultura della velocità. Nei tuoi documentari, invece, l’azione viene rallentata e il tempo dilatato, dando così risalto a determinati aspetti del quotidiano su cui non avremmo altrimenti possibilità di soffermarci. Pensi che l’agency dell’arte possa coincidere con il rallentare, o trovare momenti quasi autonomi, all’interno di una realtà così fortemente in movimento?

Filmare la vita che scorre è stato il mio modo di partecipare attivamente al suo svolgimento.

Limited edition digital print, 2016, euroemptiness series.

Rebecca Salvadori: Credo che si debbano mettere a punto esercizi individuali per avere un rapporto costruttivo e orizzontale con le possibilità offerte dalla tecnologia e dalla cultura digitale contemporanea. Nella mia esperienza, se si lascia che un software, la qualità di una macchina fotografica o anche una piattaforma digitale, domini la natura stessa del proprio lavoro, si rischia di muoversi esclusivamente all’interno di una dimensione estetica, stilistica, ripetitiva. Sono sempre stata estremamente cauta nel trovare le parole giuste per parlare dei miei film, e penso che uno dei motivi sia che avevo bisogno di capire il mio approccio intimo con gli strumenti tecnologici che adoperavo. Ho cominciato girando e montando piccoli video con una Sony Cybershot da 3.1 megapixel; i video non avevano suono e i pixel erano tanto grandi da riempire l’inquadratura. Mi ricordo di essermi sentita immediatamente connessa con la matericità dell’immagine digitale; tutto questo ascoltando con interesse le riflessioni di Steina e Woody Vasulka sul deterioramento dell’immagine analogica e sui loro magnifici esperimenti dal vivo con i documentari, le elaborazioni video in diretta e le sperimentazioni percettive. Qualche anno dopo stavo girando con un’altra fotocamera compatta, la Canon G9, che ha un corpo molto robusto e lenti fisse. Mi ero trasferita a Berlino, dove ho potuto verificare il forte legame tra arte, musica e film-making, ritrovandomi a filmare compulsivamente tutte le realtà che mi circondavano. Usare la telecamera mi faceva sentire partecipe e attiva in qualunque contesto mi trovassi; potevo sentirmi presente e assente allo stesso tempo, e sentirmi come se avessi comunque un ruolo. Quando poi mi trovavo in una fase di montaggio, mettevo costantemente in discussione la questione della classificazione dei generi, sperimentando con esercizi di sincronicità e asincronia. Qualche anno dopo importavo ed esportavo lo stesso film più e più volte per deteriorare la qualità dell’immagine, categorizzare i possibili messaggi in base alle sue diverse qualità, come pure realizzare animazioni astratte. Recentemente Dérive, un collettivo che esplora il valore culturale derivante dall’interazione tra suoni, movimento e immagini, mi ha commissionato un soundscape in cui, utilizzando le stesse tecniche del montaggio filmico, ho cercato di costruire un paesaggio sonoro stratificato. Tutti questi esercizi hanno portato a sentirmi più connessa con i miei strumenti e le mie necessità . Sento inoltre di aver trovato il giusto equilibrio tra i diversi materiali digitali.

The Act of Listening,2019, still from video. Portrait of Oscar Gattaca.

Sara Castiglioni: Parlando del tuo lavoro a/v, hai espresso di essere più interessata al processo che sta dietro la produzione di video-animazioni, in particolare al dialogo personale che stabilisci con la macchina, piuttosto che al risultato finale. Questo sembra rivelare un altro tentativo della tua pratica nel cercare di umanizzare la tecnologia e rifiutare i risultati predeterminati dettati dall’automazione. Puoi parlarci di più di questo processo, in relazione al tuo output audio-visivo?

Synchronized and non-synchronized exercises of arrhythmic empathy, 2017, still from video.

Rebecca Salvadori: Quando ho iniziato a fare video, non avevo alcuna percezione dei confini tra me, la videocamera e ciò che veniva ripreso; tutto era come mischiato insieme, al punto che mi sono trovata a scomparire dietro all’obiettivo. Filmare la vita che scorre è stato il mio modo di partecipare attivamente al suo svolgimento; tutti i diversi mondi che stavo documentando stavano entrando dentro di me, assorbendosi. A un certo punto ho dovuto fermarmi, fare silenzio e sovvertire la traiettoria del flusso: anziché filmare tutto ciò che stavo vedendo, mi sono isolata e ho iniziato a realizzare animazioni astratte, dall’interno verso l’esterno. Il sovraccarico visivo e l’eccesso di informazioni, insieme al desiderio di “silenzio”, sono i fondamenti del linguaggio grafico espresso in Euroemptiness, nato nel 2012 da un desiderio di “vuoto” e successivamente trasformato in installazioni, live visual o stampe di grandi dimensioni. Le semplici geometrie animate, spesso costruite singolarmente, interagiscono tra loro regolate da ripetizioni, casualità e anche automazione. Uno dei video a cui mi sento più legata è synchronized and non-synchronized exercises of arrhythmic empathy, commissionato da Sandro Mussida per la sua release in vinile Ventuno Costellazioni Invisibili. In questo lavoro le due composizioni visive presentano una serie di forme animate e colori, assemblati secondo combinazioni di intenzioni in costante evoluzione. Le combinazioni non si ripetono mai; i movimenti tentano di liberarsi da un effetto meccanico predeterminato. Il video è stato presentato in occasione di Encyclopedia of Human Relationships a cura di Mark Fell, ma una delle proiezioni che ho trovato più curiose è stata quella organizzata per D.Rem, un evento/esperimento in cui veniva esplorato il tema del sogno lucido: il pubblico dormiva su materassi sparsi nella casa londinese di Sigmund Freud, cercando di capire se le immagini influissero o meno sui propri sogni.

Sara Castiglioni: In un recente articolo, il fotografo Lewis Bush ha spiegato come secondo lui l’uso enfatizzato della tecnologia sia una delle cause principali legate alla disumanizzazione e oggettivazione del corpo umano nei documentari concettuali. Tale abuso oggettivizza l’individuo a tal punto da “quasi spogliarlo dalla sua figura umana”, per soli fini estetici. Invece, il tuo utilizzo della tecnologia digitale, usata quasi come materia analogica, è molto indicativo rispetto all’approccio onesto che cerchi sempre di mantenere nel rappresentare la realtà umana così come appare, evitando di incorrere nell’estetizzazione del corpo umano attraverso il dispositivo digitale. Questo tuo approccio particolare nei confronti della tecnologia sottende un particolare impegno etico?

Rebecca Salvadori: In effetti sì. Mi sento consapevole del potere della semiotica visiva, e conseguentemente sento un senso di responsabilità nei confronti dei contesti e delle persone che filmo. Nel cercare un momento non romanzato di confronto sincero, ho bisogno di instaurare un rapporto di fiducia con tutte le parti coinvolte nella realizzazione dei documentari. Dedico pertanto molto tempo al montaggio, mettendo in discussione tutte le mie scelte, ma soprattutto cerco di non sapere esattamente che cosa sto cercando di esprimere con “quella specifica immagine”, lascio che le diverse scene evolvano organicamente nel corso della realizzazione, e che mi indichino le loro possibili direzioni; una combinazione che sento appartenermi, di controllo meticoloso e, al tempo stesso, di accettazione del caso.

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di Sara Castiglioni
  • Sara Castiglioni si è laureata in History of Art presso Goldsmiths, University of London. Lavora come freelancer nell’ambito dell’arte contemporanea e della musica elettronica, occupandosi di produzione e comunicazione.